venerdì, Marzo 29, 2024
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Stato delle compliance nelle società partecipate e controllate

A cura di Giulia De Russis 

Il presente contributo intende studiare i profili di interazione tra compliance pubblica e privata nelle società partecipate e controllate dallo Stato o da altri enti pubblici. Per far ciò muove dallo studio delle caratteristiche “eclettiche” di questi soggetti organizzativi, passa attraverso lo studio dei caratteri delle due normative (l. 190/2012 e d.lgs. 231/2001), e conclude nel senso di individuare nell’integrazione il vero senso della nuova compliance, come affermato dalle ultime Linee Guida di Confindustria. Muove da un rapido sguardo alle origini del fenomeno dell’Azionariato di Stato e delle partecipazioni pubbliche.

Sommario: 1. Le tesi ricostruttive; 2. La configurabilità dell’ente pubblico in forma societaria; 3. I sistemi di prevenzione nelle organizzazioni; 4. Compliance ed esercizio privato di pubbliche funzioni; 5. Conclusioni.

1. Le tesi ricostruttive

Le società de quibus costituiscono elemento politicamente ed economicamente non neutro, perché la loro stessa esistenza comporta possibili ripercussioni in termini di concorrenza, potendo disturbare il libero mercato. Ed infatti sottendono delle forme di intervento dello Stato nell’economia.

Il fenomeno, quantitativamente ampio, può essere ritenuto risalente al 1929, quando lo Stato, in ragione della gravissima crisi economica in atto, ha iniziato a rilevare quote di società private. Si consideri che le società in parola svolgono privatamente funzioni amministrative in senso lato, cioè forniscono servizi pubblici.

Il binomio potere pubblico-soggetto pubblico è pacificamente superato secondo l’unanime letteratura amministrativista,e la crisi di questo binomio si vede proprio nel nostro ambito (pur non essendo l’unico ad esprimere l’esercizio privato di pubbliche funzioni).[1]

Lo scollamento tra la Pubblica Amministrazione in senso soggettivo (apparato amministrativo) e in senso oggettivo (azione amministrativa) è stato inoltre codificato dal legislatore del 2005, con l’aggiunta del comma 1 ter all’articolo 1 della legge 241 del 1990, ai sensi del quale: “I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le amministrazioni pubbliche“.

Il dibattito circa la natura di questi soggetti societari è stato ampio e acceso. Le sue origini sono collocabili già all’indomani dell’approvazione del codice civile[2],quando il Consiglio di Stato e la Corte regolatrice espressero due visioni antitetiche.[3] Le tesi che si sono contrapposte sono:

  • Tesi privatistica: il tipo societario è impiegabile per uno scopo di lucro, talché il socio pubblico, una volta entrato nella composizione del capitale, è sottoposto al regime e alle regole sottese al modello societario, che, a mente dell’art.2247 c.c., ha come fine la ripartizione degli utili; tale prospettiva ermeneutica risulta suffragata dal codice civile, che applica alle società de quibus lo statuto delle società di diritto privato. Questa impronta privatistica si rinviene anche nella relazione di accompagnamento al codice civile, e risulta fatta propria dalla Corte Regolatrice, anche in sentenze recenti. La tesi in parola individua la stridente contraddizione tra un soggetto pubblico, chiamato a perseguire un fine pubblico, ed un soggetto invece deputato a perseguire un fine egoistico, quale quello lucrativo. Il soggetto pubblico ricerca il bene comune, il privato solo quello proprio. In tal senso è da leggere la sentenza della Cassazione, sez. I n.7536 del 2005 che ritiene non derogabile lo scopo di lucro per il tipo societario.
  • Tesi pubblicistica: secondo tale tesi, la società è di per sé una forma organizzativa neutra, che può essere impiegata a qualsiasi fine senza mutare per questo la sua natura identitaria. Ed infatti, l’art.2332 c.c. non prevede la mancanza dello scopo di lucro quale causa di nullità della società. Questa tesi perviene a separare la natura del soggetto dal regime giuridico applicabile. Questo orientamento fa proprio l’approccio europeo di crisma ”sostanzialistico”, che molto influenza la giurisprudenza. Quindi, secondo la tesi qui scandagliata, lo stesso soggetto potrebbe, a seconda delle ipotesi, essere assoggettato a differenti assetti di disciplina, come se all’unicità della forma giuridica non corrispondesse di necessità un unico regime giuridico applicabile. È, in conclusione, soltanto il dato normativo a qualificare di volta in volta la natura del soggetto cui esso stesso si riferisce, in ottemperanza alla funzione naturale delle norme, che è quella di qualificazione dei soggetti e dei rapporti tra di essi.

La società è da intendersi rientrante nell’universo delle Pubbliche Amministrazioni se presenta:

  • costituzione e iniziativa pubblica;
  • predeterminazione dello scopo da perseguire da parte dello stato;
  • corresponsione di finanziamenti pubblici;
  • esercizio, da parte di ente pubblico, di poteri di direttiva sugli organi dell’ente.

In tal senso, a far tempo dalla sentenza n.2260 del 2015,il Consiglio di Stato si è orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico ed ivi si legge: ”uno stesso soggetto può avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti e può invece, non averla ad altri fini, conservando, rispetto ad altri istituti, regimi normativi di natura privatistica”.

La tesi del Consiglio di Stato, è in frontale antitesi all’orientamento di autorevolissima dottrina che utilizza proprio il regime giuridico quale criterio di qualificazione dell’ente. In particolare secondo Cerulli Irelli gli indici di riconoscimento della natura pubblica dell’ente sono:

  • sistema di controlli pubblici;
  • partecipazione dello Stato o di altra Pa alle spese di gestione;
  • potere di direttiva dello stato.
  • finanziamento pubblico istituzionale;
  • ingerenza di un pubblico potere nella nomina e nella revoca dei dirigenti.

2. La configurabilità dell’ente pubblico in forma societaria

Le società partecipate e controllate costituiscono il terreno dell’acceso dibattito teorico attorno alla configurabilità dell’ente pubblico in forma societaria. Secondo la tesi privatistica, la società (rectius il tipo societario), è inscindibile dalla causa lucrativa. Questo orientamento si fonda su un approccio meramente formale, e ritiene che le società – pubblica o privata che sia – abbia pur sempre causa lucrativa. Secondo tale approccio epistemico, si potrebbe parlare di pubblicizzazione della società, oltre che nel caso di esclusione della causa di lucro da parte del legislatore, anche in quello di assoluta incompatibilità dell’oggetto sociale con la causa lucrativa.

La tesi privatistica esclude quindi la configurabilità di un ente in forma societaria, posto che il tipo soggettivo non può scindersi dalla causa legislativamente determinata per esso. La tesi pubblicistica o sostanzialistica perviene a soluzioni opposte, e afferma in particolare che lo schema societario è di per sé indifferente alle finalità perseguite, essendo un mero modulo organizzativo. La prova di ciò si rinviene nell’esistenza di società senza scopo di lucro e nella non menzione della sanzione della nullità in caso di assenza di causa lucrativa. Il problema qualificatorio andrebbe dunque indagato in base ad un approccio sostanziale. Aderendo a tale orientamento, occorre comprendere cosa sia necessario per “trasformare” la società in ente pubblico.

Secondo un nutrito orientamento  dottrinario, la deformazione tipologica della deviazione dal modello societario, dipende dall’eventuale potestà di indirizzo in capo all’ente pubblico, in grado di influenzare gli organi societari, in sostanza quel che rileva è la compressione dell’autonomia negoziale ad opera della legge. Dunque occorrerebbe effettuare un indagine pro casu, e se gli organi societari mantengono una loro autonomia, si versa in una società vera e propria, mentre se le sedi decisorie sono “altrove”, si rientra nell’alveo della P.a.

Su posizioni non diverse si è attestata la giurisprudenza, che valorizza, per la qualificabilità delle società pubbliche quali enti pubblici, la deviazione rispetto al modello societario civilistico. L’autentico discrimen – che peraltro riassume tutti gli indici di pubblicità individuati dalla giurisprudenza – è la disponibilità o meno della propria esistenza, perché infatti il quid consistam dell’ente pubblico è – prima di tutto – l’operatività necessaria.

 

3. I sistemi di prevenzione nelle organizzazioni

In linea di prima approssimazione, è certo vero che la legge 190 del 2012 interessa le strutture organizzative del mondo pubblico, mentre il decreto 231 vive nel mondo delle aziende private. L’ispirazione dei sistemi di prevenzione e lo loro ragione di esistenza è la medesima: in entrambi i casi abbiamo una mappatura delle aree a rischio reato, nell’ambito del risk assessment, e la successiva definizione di un insieme di regole e procedure. Solo nel caso della 190 questo è fortemente conformato dal c.d. diritto “morbido” [4],fermo restando un certo margine di autonomia da parte del RPCT. Il PNA[5] infatti contiene le direttrici per i singoli piani triennali[6].

Nonostante certe comunanze, le due metodologie normative sono  logicamente non sovrapponibili anche perché la legge 190 è imperniata sulla corruzione (pur latamente intesa)[7],e non su tutti i reati presupposto di cui al decreto 231.

La legge Severino non contiene poi riferimenti ai criteri ascrittivi dell’interesse e del vantaggio, perché incompatibili con la natura di P.a. dei soggetti organizzativi interessati, che in quanto tali non possono ipso facto avere il fine di delinquere.

La funzione esimente dei presidi organizzativi è presente in entrambi i sistemi normativi, e si lega all’elusione fraudolenta, definita quale condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola[8],in grado di eludere i presidi di un’organizzazione adeguata.

 

4. Compliance ed esercizio privato di pubbliche funzioni

Doveva succedere che il sincretismo di alcuni soggetti organizzativi[9] incidesse sulla struttura dei sistemi di prevenzione[10], che proprio nell’alveo delle controllate mostrano diversi punti di contatto. Ed infatti la maggior parte delle partecipate e delle controllate è riconducibile a soggetti esercenti un pubblico servizio (che rientra nelle pubbliche funzioni in senso lato). Non stupisce quindi che in queste strutture, in cui si spende potere pubblico in forma non procedimentale, vi siano delle interazioni tra i sistemi di prevenzione indicati. D’altra parte, come è stato autorevolmente affermato, la 190 tende a superare la dicotomia pubblico privato, posto che l’attrazione dei soggetti nell’alveo applicativo delle norme della 190, dipende dal perseguimento di un pubblico interesse e dal finanziamento pubblico, più che dall’indole soggettiva delle singole organizzazioni.[11]

Il legislatore ha imposto alle pubbliche amministrazioni di dotare le partecipate di un modello organizzativo.[12] I modelli però assumono caratteristiche tutte peculiari, proprio per l’interazione con la normativa anticorruzione. Per ciò che attiene ai piani triennali, secondo la delibera dell’ANAC n.1134 del 2017, le partecipate non sono tenute a misure anticorruzione diverse dalla trasparenza, ma nulla esclude la possibilità di una scelta diversa. La peculiarità dei modelli dei soggetti partecipati o  controllati, si vede già nel codice etico, parte integrante della parte generale del modello, che dovrà contenutisticamente assorbire il codice di comportamento dei pubblici dipendenti e i valori costituzionali sottesi alla qualifica (le persone fisiche che operano nelle strutture societarie in parola sono incaricati di pubblico servizio). Dovrà, inoltre, il modello, disciplinare la sinergia tra ODV e Comitato Etico (ove esistente) e OIV[13](ove esistente).

Secondo l’Anac, il Mog e il PTPC sono perfettamente compatibili: il primo sarà onere (o obbligo, a seconda della tesi cui si accede)[14], della società e della p.a. controllante, mentre l’adozione del secondo è di responsabilità individuale, in particolare del RPCT, nominato dall’organo di indirizzo della P.a. tra soggetti di qualifica dirigenziale, salvo che l’organico ne sia privo.

Per quanto attiene ai rapporti tra ODV e RPCT, la tesi dottrinaria che aveva auspicato un ODV collegiale, con inclusione del RPCT[15],è stata smentita dalle recenti Linee Guida dell’Anac, che hanno affermato l’irriducibile diversità dei due soggetti. E infatti, mentre il RPCT ha funzioni operative, l’ODV non può averne, proprio per la necessità di salvaguardarne l’autonomia dalla Governance societaria.

Secondo l’ANAC,i piani triennali possono costituire un’apposita sezione del modello, dovendosi denominare “Piani di prevenzione della corruzione” e dovendo essere pubblicati sul sito dell’ente, ed essere trasmessi alle pubbliche amministrazioni vigilanti.

Il tema della compliance integrata comunque, non è esclusiva degli enti indicati, ma è il leitmotiv delle linee guida di Confindustria di Giugno 2021.

I presidi di controllo previamente esistenti sono, secondo l’ANAC, utilizzabili anche a fini anticorruttivi (e viceversa), per l’esigenza di evitare una duplicazione di funzioni. Si legge infatti nel PNA: “Gli enti pubblici economici e gli enti i diritto privato in controllo pubblico, di livello regionale o nazionale sono tenuti ad introdurre e implementare adeguate misure organizzative e gestionali e per evitare inutili ridondanze qualora questi enti adottino già modelli di organizzazione e gestione del rischio sulla base del d.lgs.n.231 del 2001 nella propria azione di prevenzione della corruzione possono fare perno su essi ma estendendone l’ambito di applicazione non solo ai reati contro la P.a. previsti dalla l.n.231 del 2001 ma anche a tutti quelli considerati nella l.190 del 2012,dal lato attivo e passivo”.

Cionondimeno, come già accennato in precedenza, sembra doversi evitare qualsiasi commistione tra ODV e RPCT, escludendo che questo possa fare parte del primo perché ciò sarebbe in contrasto con uno dei principi fondamentali della compliance: la segregazione delle funzioni operative da quelle di controllo. In altri termini, la sintesi non deve essere confusa con frettolose reductiones ad unum.

5. Conclusioni

L’integrazione dei due sistemi di prevenzione in analisi, altro non sembra che una singola manifestazione del più ampio fenomeno dell’incontro di normative compliance[16]. Se è vero che l’indicazione emergente dall’Anac è nel senso della “multifunzionalità” dei presidi, è del pari consigliato di evitare commistioni di funzioni suscettibili di inquinare i principi portanti degli assetti di compliance. È opportuno inoltre ricordare che le responsabilità conseguenti alla mancata ottemperanza agli obblighi stabiliti dalla 190 sono individuali, si riferiscono al RPCT e non all’ente tutto. È altresì chiaro che la normativa anticorruzione porta la logica dell’autonormazione sino all’estremo dell’affidamento dell’incombente dell’adozione del Piano a un dirigente dell’ente[17], soggetto spiccatamente operativo.

In definitiva, sembra che, ferma restando la separazione dell’ODV e del RPCT, l’integrazione tra i sistemi di prevenzione andrà a giocarsi sul piano della gestione dei flussi informativi tra queste due figure e tra queste figure e i soggetti di vigilanza tipici delle pubbliche amministrazioni, come l’OIV.

Va da sé inoltre che, nel risk assessment e nella conseguente costruzione del modello, non potrà che essere valorizzata l’ esistenza di presidi anticorruttivi e controlli gerarchici, tipici della P.a., e non potrà che essere valorizzata l’eventuale esistenza e l’eventuale procedimentalizzazione di attività a rischio(e del suo grado),posto che l’uniformazione che la procedimentalizzazione comporta, è già un efficace metodo di rilevazione delle eventuali anomalie.

In altri termini, il principio di legalità – che si flette quando il potere non è autoritativo – ritorna a farsi vivo, anche se in un’altra forma, anche se per altre ragioni: non per esigenze di garanzia delle libertà individuali, ma a salvaguardia dell’ordine economico e delle risorse economiche pubbliche.


[1] Si pensi al caso di esercizio privato discendente da concessioni o altri legami contrattuali,o da regimi autorizzatori.

[2] Così,F.Goisis,Relazione in www.rivistadeiconti.it,pg.1

[3] Il Consiglio di Stato ha da affermato la natura ente pubblico della società Agip,sez. V sent.n.33 del 1938, la decisione de qua venne annullata dalla Cassazione a sezioni unite con sentenza n.1337 del 1940,a mente della quale:”Un Ente che nasce ,vive e del quale sia prevista la fine secondo le regole proprie delle società anonime non rientra nella categoria delle persone giuridiche pubbliche ,quando non si dimostri che specifici elementi investono e modificano la sua intima natura”,pg.199.

[4] Sub specie di atto di indirizzo dell’ANAC.

[5] Il Pna contiene la strategia nazionale anticorruzione,e costituisce la base dei singoli piani triennali,esso è elaborato attraverso tre tappe successive:analisi di contesto (interno ed esterno) valutazione dei rischi corruttivi e loro trattamento.Esso si configura quale atto di indirizzo non vincolante,onde permettere alle p.a. di adottare misure calibrate sui casi concreti.

[6]Secondo l’allegato 1 al PNA del 2013,il livello di rischio corruttivo (inversamente proporzionale alla discrezionalità),è pari a R= P (livello di probabilità) x I (livello di impatto).

[7]Il concetto di corruzione ex 190 ricomprende l’intero novero dei reati contro la P.a.,ed in genere l’impiego a fini privati della pubblica funzione,”devianza dall’azione amministrativa”.

[8] Cass-Pen.Sez.VI,sent.23401 del 2022.

[9] Riconosciuto dal Consiglio di Stato.

[10] Anche per la loro spiccata attitudine alla conformazione individualizzata.

[11]Così,C.Manacorda in Decreto 231 e legge 190:L’anticorruzione allinea privato e pubblico,p.100 in https://www.rivista231.it.

[12]Tale indirizzo,presente già nel Piano Nazionale Anticorruzione del 2013, è rinvenibile anche nei successivi aggiornamenti annuali al PNA, nella direttiva del MEF del 25/08/2015, e nella Delibera ANAC n.1134/2017.

[13] L’OIV è stato istituito dal d.lgs, 150 del 2009 ed è soggetto che valuta l’integrità e l’efficienza dei controlli interni,oltre che l’attuazione delle misure di trasparenza imposte dalla 190.

[14] La tesi dell’obbligatorietà del modello,è stata autorevolmente sostenuta,per esempio da Abriani”la responsabilità da reato degli enti:modelli di prevenzione e linee evolutive del diritto societario”, in Analisi giuridica dell’economia,2012;ed è stata anche sostenuta l’obbligatorietà non per la società quanto per gli amministratori.

[15] Così G.Bongiono in Società partecipate da enti pubblici e responsabilità 231, in diritto.it,24 Gennaio 2019.

[16] Si pensi alla normativa antiriciclaggio introdotta dalla Legge n.262 del 2005.

[17] Salvo alcune eccezioni,in cui può essere nominato un funzionario che non riveste la qualifica di dirigente,ma che possieda le necessarie competenze.

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