Strumenti di tutela del creditore – il diritto di Ritenzione
Svariati sono gli strumenti messi a disposizione del creditore per ottenere il pagamento di quanto dovuto da parte del debitore.
In determinati casi alcuni crediti sono per legge privilegiati, in altri la prelazione può essere costituita per volontà delle parti nel momento della genesi del rapporto obbligatorio.
Ma è consentito al creditore trattenere il bene di proprietà di terzi per vedere soddisfatte le proprie ragioni?
Il legislatore, in effetti, ha previsto il diritto di ritenzione, ma in casi specifici, determinando altresì le modalità del relativo esercizio.
Il diritto in parola si concretizza nella facoltà del creditore di non riconsegnare un bene fino a quando non ottiene l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore.
Per non incappare nel reato di appropriazione indebita però tale diritto deve essere espressamente riconosciuto dalla legge o, secondo alcuni orientamenti, deve essere concordato dalle parti e, nel suo esercizio, non può estendersi ad atti dispositivi sulla cosa ritenuta.
Fattispecie tipica si rinviene nell’art. 2756 c.c., norma che, per i crediti derivanti dall’esecuzione di prestazioni per la conservazione o il miglioramento di beni mobili, fissa il privilegio sui predetti beni qualora siano ancora nella disponibilità del creditore, e statuisce altresì, al terzo comma, che “il creditore può ritenere la cosa soggetta al privilegio, finché non è soddisfatto del suo credito e può anche venderla secondo le norme stabile per la vendita del pegno”.
Per l’operatività del diritto è necessario che i beni siano nella detenzione del creditore fin dal sorgere del rapporto obbligatorio e che tale detenzione sia iniziata con il consenso del debitore.
La norma quindi è destinata alla tutela del pagamento delle prestazioni di esecuzione di lavori sui beni, come nel caso degli artigiani (i.e. meccanici, restauratori, etc).
Stessa facoltà è poi riconosciuta in favore del vettore relativamente ai beni oggetto del traporto (art. 2761c.c.), dell’albergatore rispetto alle cose dei clienti presenti in albergo (art. 2760 c.c.), dall’usufruttuario sulla cosa oggetto di usufrutto per il pagamento delle spese di manutenzione eseguite e spettanti al proprietario (art. 1011 c.c.).
In tutti i casi previsti si rileva la sussistenza di un collegamento diretto tra il bene ritenuto ed il credito vantato.
Deve pertanto trattarsi di crediti che nascono proprio in virtù di prestazioni (riparazione/miglioria/trasporto/custodia) eseguite per/sul bene che poi diviene oggetto di ritenzione.
In assenza quindi della detenzione qualificata e del predetto collegamento il diritto non può considerarsi sussistente.
Ciò perché la ritenzione è “una forma di autotutela in deroga alla regola per cui nessuno può farsi giustizia da sé”e “costituisce istituto a carattere eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica e che compete solo al detentore qualificato”.[1]
In tale contesto, in tema di tutela del credito derivante da contratto di trasporto. Il tribunale meneghino ha affermato ad esempio che “il diritto di ritenzione previsto dal legislatore agli artt. 2756 e 2761 c.c., quanto ai diritti derivanti dal trasporto, costituisce uno ius singolare di garanzia relativo ai beni mobili che non può essere esteso oltre i casi previsti dalla legge e che, secondo il tenore del disposto codicistico, deve presentare un necessario collegamento funzionale tra il bene ritenuto ed il credito vantato sul medesimo bene escludendosi pertanto la legittimità di un diritto di ritenzione del vettore su beni oggetto di obbligazioni diverse”.[2] Con tale pronuncia i giudici di merito hanno dichiarato illegittima la ritenzione operata dal vettore di beni oggetto di un trasporto diverso, successivo e non collegato a quello da cui era sorto il debito del committente.
Altra condizione per il corretto esercizio del diritto è che il creditore/detentore dei beni non compia atti dispositivi, dovendo ritenersi non lecita qualunque condotta che importi l’interversione del possesso con la sottrazione del bene dalla sfera giuridica del proprietario. Il creditore infatti ha solo la facoltà di trattenere il bene, dovendo lasciare lo stesso a disposizione del debitore che intenda adempiere la propria obbligazione. Tale circostanza è il discrimine tra la ritenzione e l’appropriazione indebita: “l’omessa restituzione della cosa non realizza l’ipotesi del reato di cui all’art. 646 c.p. se non quando si ricollega oggettivamente ad un atto di disposizioneuti dominus e soggettivamente all’intenzione di convertire il possesso in proprietà”[3].
Il creditore che intenda rivalersi sui beni ritenuti dovrà rispettare le norme prescritte in tema di vendita delle cose in pegno. Pertanto, a sensi dell’art. 2797 c.c., prima della vendita il creditore dovrà intimare, con l’ausilio dell’ufficiale giudiziario, al debitore di pagare. Solo decorsi i termini di legge potrà richiedere la vendita al pubblico incanto o per mezzo di persona autorizzata.
[1]Cassazione Civile, Sez. II, sent. n. 12232/2002
[2]Tribunale di Milano, Sez. XI, ord. 22.10.2012
[3]Cassazione Penale,Sez. II, sent. n. 17295/2011
Avvocato civilista specializzato in contrattualistica commerciale, real estate, diritto di famiglia e delle successioni, diritto fallimentare, contenzioso civile e procedure espropriative.
Conseguita la laurea in Giurisprudenza, ha collaborato con la II cattedra di Storia del Diritto Italiano dell’ateneo federiciano, dedicandosi poi alla professione forense.
Ha esercitato prima a Napoli e poi nel foro di Milano, fornendo assistenza e consulenza a società e primari gruppi assicurativi/bancari italiani.
Attualmente è il responsabile dell’ufficio legale di un’azienda elvetica leader nella vendita di metalli preziosi, occupandosi della compliance, fornendo assistenza per la governance e garantendo supporto legale alle diverse aree aziendali.
Email: paola.minopoli@iusinitinere.it