Suicidio assistito fra tutela del diritto alla vita e libertà di autodeterminazione nella sentenza n. 135 del 2024 della Corte costituzionale.
A cura di Antonella Losanno
- Considerazioni introduttive
La tematica del fine vita, contraddistinta da una intrinseca complessità a causa della molteplicità delle questioni etiche, morali, sociali, giuridiche coinvolte, è stata nuovamente sottoposta all’attenzione della Consulta chiamata, ancora una volta, a pronunciarsi sulla legittimità dell’articolo 580 del codice penale (istigazione al suicidio), così come modificato, dalla sentenza n. 242 del 2019. L’ulteriore pronuncia[1] è sintomo di un vuoto normativo in materia di scelte di fine vita forse, probabilmente voluto, per i troppi interrogativi etici e religiosi che il fine vita pone in una società pluralista quale la nostra, nella quale inevitabilmente le scelte del fine vita si orientano fra le due posizioni estreme: di chi vorrebbe la legalizzazione dell’eutanasia aderendo alla teoria disponibilista della vita e di chi invece aderendo alla teoria della indisponibilità della vita umana vorrebbe mantenere il divieto vigente in materia di pratiche eutanasiche ma laddove si consideri il concetto di qualità della vita, si aprirebbe la strada alla pratica eutanasica[2]. Senza, in ogni caso, tralasciare che il diritto alla vita che permea l’assetto ordinamentale e ispira la Carta Costituzionale costituisce il diritto presupposto all’esercizio di altri costituzionalmente tutelati quali l’art. 32 della Costituzione che prevede “il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività” e che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge” o l’art. 2 della Costituzione che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, in cui si manifesta il valore più alto del nostro ordinamento: la tutela della persona umana.
- L’autodeterminazione del paziente: limite alla prospettiva di cura?
Il principio personalistico che impronta la relazione fra il medico e il paziente ha di fatto riconosciuto a quest’ultimo una propria competenza e, correlativamente, l’autodeterminazione rispetto alle scelte terapeutiche assegnandoli un potere codecisionale. Tuttavia, la libertà dell’autodeterminazione potrà essere tale da ricomprendere anche il diritto del paziente di decidere di non curarsi?
Il principio di autodeterminazione per quanto imprescindibile e volto e garantire la piena libertà del soggetto, pone, difatti, non poche problematiche etiche piuttosto che giuridiche laddove il paziente in ossequio alla propria autodeterminazione, vuoi perché versi in irreversibili situazioni patologiche, vuoi che per seguire i dettami del proprio credo religioso, rifiuti cure e terapie salvavita. La dignità, in tali circostanze diventa valore supremo perché implica l’identità, intesa come concezione di un progetto di vita, di credenze religiose, di un’etica personale e dei valori percepiti e assimilati. Se l’individuo venisse calpestato nella sua sfera di valori personali potrebbe facilmente preferire la morte piuttosto che agire in un modo che non ritiene consono al suo sentire.
Ecco allora che l’autodeterminazione va necessariamente “filtrata” dal consenso informato, vero e proprio diritto della persona fonte di legittimazione di qualsiasi intervento medico “che trova fondamento nei principi espressi nell’articolo 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” [3].
Attraverso l’informazione si consente di prendere parte alla decisione clinica, vi è pertanto, a favore di un’informazione completa ed esaustiva del paziente, oltre a una motivazione etica e legale che la rende un fatto di per sé auspicabile, anche una motivazione funzionale ad un’altra esigenza etica e legale ancor più fondamentale, rappresentata dal principio di libertà e dai poteri di autodeterminarsi del paziente con riferimento alla propria salute [4] che trovano il loro fondamento in quelle norme costituzionali che tutelano i diritti inviolabili (art. 2 Cost.), la salute (art. 32 Cost.) e la libertà personale (art. 13 Cost.)[5] . Attraverso l’informazione il soggetto raggiunge la consapevolezza della propria situazione di modo che il consenso finale rappresenti la conclusione formale di un fatto ben più personale, ovvero di un processo più che di un evento puntuale, nell’ambito di una relazione, quella tra medico-paziente, per la partecipazione attiva di entrambi i soggetti.
Il consenso informato che peraltro diventa oggetto di apposita disciplina legislativa nella Legge 219 del 2017 deve essere innanzitutto manifestato esplicitamente al sanitario. Anche se l’espressione del consenso non è condizionata da particolari requisiti di forma[6], occorre che la volontà consenziente del soggetto pervenga in modo univoco al medico cosicché questi possa direttamente percepirla. Proprio perché non è prevista alcuna forma vincolante, la manifestazione di volontà del soggetto può essere espressa o tacita, ossia consistente in un comportamento concludente che riveli in modo inequivoco il proposito di sottoporsi al trattamento. A riguardo si afferma che al sanitario il consenso può essere manifestato, anche mediante una condotta che esprima in modo inequivoco la volontà del paziente di sottoporsi alla sua opera[7].
Tuttavia, nella prassi, la manifestazione del consenso del paziente è documentata attraverso la sottoscrizione da parte dello stesso di moduli nei quali è specificata la natura dell’atto medico-chirurgico proposto che non si sostanzia nella mera “compilazione” del modulo che il sanitario sottopone al paziente[8]. Tanto è vero che se il sanitario ha ritenuto, per errore a lui non imputabile, l’esistenza di un consenso del paziente (in realtà mai prestato), non sarebbe punibile, in quanto incorso in un errore sul fatto[9]. Se, invece, il consenso è stato ritenuto sussistente a causa di un errore ascrivibile al medico, questi risponderà del fatto a titolo di colpa sempre che il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo. In altri termini, sotto tale aspetto la documentazione del consenso è finalizzata alla precostituzione, in via documentale, della prova di un’eventuale scriminante da invocarsi in caso di contestazioni in sede giudiziale per lesioni provocate al paziente in seguito al trattamento sanitario, cui ci si sottopone.
Ulteriore requisito necessario ai fine della validità del consenso è che deve essere personale, ossia provenire dalla persona che ha la disponibilità del bene giuridico protetto; pertanto, non può che essere prestato dal paziente. Il medico deve riferirsi unicamente all’atto di volontà del soggetto adeguatamente informato, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica alla volontà espressa ai familiari del malato, in quanto nessuna norma dell’ordinamento prevede che i familiari[10] possano sostituirsi al malato nella manifestazione del consenso, tranne che nei casi di esercizio della potestà dei genitori o della tutela[11].
Il soggetto oltre ad essere titolare del diritto tutelato deve anche essere capace giuridicamente ossia deve essere capace di intendere e di volere e deve avere l’età idonea a poter disporre di quel diritto. Riguardo a questa condizione ampio è stato il dibattito circa il criterio di individuazione dell’età in cui è possibile per il soggetto prestare un valido consenso; oltre alla presunzione del possesso della capacità di intendere e di volere, che la legge penale pone al compimento del diciottesimo anno di età, vi è dottrina che dà rilievo all’accertamento della capacità naturale del singolo, da verificarsi caso per caso, al di sopra dei quattordici anni, al fine di acclarare se il minore abbia la capacità di discernimento sufficiente a rendersi conto del suo significativo atto[12].
Del pari per la operatività del consenso è necessario altresì il requisito della consapevolezza dello stesso. In sintonia con l’esigenza di tutela del paziente che si manifesta attraverso la prospettazione di un consenso espresso e specifico, si afferma che il consenso non può ritenersi valido se non è consapevole e non è consapevole se non è informato. Perché sia «informato» è necessario svolgere una specifica informativa nei confronti del paziente, adeguata al suo grado di cultura, cosicché il consenso manifestato sarà valido e potrà spiegare efficacia solo se conseguente alla conoscenza certa del trattamento medico-chirurgico. Dovranno essere esposti pertanto, i rischi le probabilità di riuscita del trattamento, la durata dello stesso e ogni altra circostanza ad esso inerenti.
A fronte di un’adeguata informazione, il paziente ha la possibilità di esprimere un valido consenso, ad esempio, di un intervento chirurgico, o di manifestare il suo dissenso, di fronte al quale il medico dovrà astenersi dall’intervenire. Il consenso informato in altri termini fonda, pertanto, l’intera relazione di fiducia in cui si incontrano l’autonomia decisionale del paziente la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. Quale espressione della libertà del soggetto di autodeterminazione, il consenso informato trova i suoi riscontri normativi nella stessa Carta Costituzionale in tema di libertà individuali (artt. 2, 3, 1° comma art. 32), che garantiscono alla persona umana appunto la libertà di autodeterminarsi in ordine a come disporre del proprio corpo, «sempre nel rispetto di modalità compatibili con la dignità umana, come richiamato in Costituzione all’art. 32, 2° comma»[13].
- La sentenza della Corte costituzionale n. 135 del 2024
Autodeterminazione, consenso informato, libertà personale del singolo e diritto alla vita sono state le questioni analiticamente affrontate dalla Corte costituzionale, chiamata nuovamente a pronunciarsi, nella sentenza n. 135 dello scorso 18 luglio, sulla legittimità costituzionale dell’art. 580 codice penale. La recente sentenza che sostanzialmente si pone in linea con le statuizioni della precedente pronuncia resa dalla Corte[14], pone un paradigma sistematico ordinamentale interno e sovranazionale sul diritto di autodeterminazione del paziente offrendone dettagli di coerenza sistematica.
Evidenzia, in primis, la Corte la centralità della tutela della vita umana quale bene che, seppur non statuito in Costituzione, “si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” [15] riconducendoli all’area dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dall’art. 2 Cost., che appartengono “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” [16]. Il diritto alla vita, inoltre, è oggetto di tutela espressa da parte di tutte le carte internazionali dei diritti umani, che menzionano per primo tale diritto rispetto a ogni altro (art. 2 CEDU, art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), ovvero immediatamente dopo la proclamazione della dignità umana (art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
La decisione della Corte prosegue con la disamina del diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, in base al quale ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli ha diritto a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali) [17]. Il diritto di rifiutare le cure necessarie alla sopravvivenza deve, invero, essere oggi esercitato «nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” – la cosiddetta alleanza terapeutica – tra paziente e medico, che la legge n. 219 del 2017 mira a promuovere e valorizzare: relazione “che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” [18].
In relazione alle censure mosse in riferimento all’art. 580 cod. pen., la Corte, nel confermare integralmente quanto già statuito con l’ordinanza n. 207 del 2018 e con la sentenza n. 242 del 2019, ha precisato che la ratio dell’art. 580 cod. pen. e della contigua ipotesi delittuosa di cui all’art. 579 cod. pen. non può più essere ravvisata nell’idea – sottesa alle scelte del legislatore del 1930 – di una indisponibilità della vita umana, funzionale all’«interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini»[19]. È necessario, però, il mantenimento, attorno alla persona, di una «cintura di protezione»[20] contro scelte autodistruttive, realizzato attraverso la duplice incriminazione dell’omicidio del consenziente e di ogni forma di istigazione o agevolazione materiale dell’altrui suicidio.
L’incriminazione in parola deve dunque essere, oggi, intesa come funzionale a proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà, al fine di evitare che simili scelte, «collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate»[21], possano essere indotte, sollecitate o anche solo assecondate da terze persone, per le ragioni più diverse.
Ogni paziente è titolare di un diritto fondamentale a rifiutare ogni trattamento sanitario, compresi quelli necessari ad assicurarne la sopravvivenza[22], pertanto, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto irragionevole mantenere ferma l’operatività del divieto di cui all’art. 580 cod. pen. anche in situazioni di cure necessarie per il mantenimento in vita in quanto ciò comporterebbe una insostenibile compressione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive» (art. 3 Cost.)[23].
L’art. 580 cod. pen. è stato, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva un’eccezione alla generale punibilità di ogni forma di aiuto al suicidio per le peculiari ipotesi in cui la persona aiutata sia «una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», sempre che – a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano state verificate, nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
La Corte è stata chiamata, quindi, a pronunciarsi nella recente questione di legittimità sottoposta al suo esame, sull’estensione dell’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio incriminate in via generale dall’art. 580 cod. pen., con riferimento ai pazienti rispetto ai quali sussistano i requisiti di (a) (patologia sub irreversibile), (b) (sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili) e (d) (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), ma rispetto ai quali difetti, invece, il requisito sub (c), e cioè l’essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Secondo il Giudice rimettente, la persistente operatività del divieto penalmente sanzionato in queste ipotesi determinerebbe la violazione: dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche; degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., sotto il profilo della eccessiva compressione della libertà di autodeterminazione del paziente; del principio della dignità umana; dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU, nel godimento del medesimo diritto alla vita privata.
Ebbene la Corte non ha ritenuto fondata nessuna delle eccezioni sollevate.
Sulla prima censura ovvero sulla irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri pazienti che versino, essi pure, in situazioni di sofferenza soggettivamente vissute come intollerabili, per effetto di patologie parimente irreversibili, la Corte ha osservato che la circostanza che la specifica patologia da cui il paziente è affetto pregiudichi, o no, le sue funzioni vitali, tanto da richiedere l’attivazione di specifici trattamenti di sostegno a tali funzioni, non sarebbe indicativa di una sua maggiore o minore vulnerabilità, né di una maggiore o minore libertà e consapevolezza della sua decisione di porre fine alla propria vita; né, ancora, l’effettiva sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale sarebbe di per sé regolarmente associata a una maggiore sofferenza, che renda più umanamente comprensibile la sua decisione di ricorrere al suicidio assistito.
Inoltre la Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza.
Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost.
La seconda censura assume direttamente che il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito a pazienti che non siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale» violi il diritto all’autodeterminazione del paziente, fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.
Al riguardo, la Corte precisa che la questione formulata muove, tuttavia, da una nozione diversa, e più ampia, di “autodeterminazione terapeutica”. Il diritto a rifiutare il trattamento medico è nato e si è consolidato nella giurisprudenza italiana – costituzionale, civile e penale – da un lato come diritto al consenso informato del paziente rispetto alle proposte terapeutiche del medico; dall’altro, specularmente, come diritto a rifiutare le terapie medesime.
Sotto quest’ultimo profilo, il diritto in questione è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita, e dunque – in definitiva – alla tutela dell’integrità fisica della persona. Esso si caratterizza, dunque, primariamente come libertà “negativa” del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita.
Strutturalmente differente è, invece, la situazione soggettiva invocata dall’ordinanza di rimessione, che questa Corte ha definito nella stessa ordinanza n. 207 del 2018 (punto 7 del Considerato in diritto) come «sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona».
La Corte pur riconoscendo che le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola hanno tratto proprio dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi o comunque un «diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici» giunge a conclusione differente al fine di contemperare l’istituto del suicidio assistito con il dovere di tutela della vita umana e sottolinea che il compito di questa Corte è soltanto, quello di fissare il limite minimo[24], costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare il punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana.
Né si profila alcuna illegittimità in riferimento all’assunto del giudice a quo stando al quale l’autodeterminazione sarebbe condizionata «in modo perverso», inducendo il malato ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale che altrimenti avrebbe probabilmente rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito.
Pertanto, nell’ottica costituzionale, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi. Ne deriva che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgono per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale statuisce la Corte, che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito.
Sulla terza censura inerente la contrarietà al principio di tutela della dignità umana, la Corte l’ha del pari ritenuto insussistente in quanto dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga. Si sofferma poi sulla nozione “soggettiva” di dignità che finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte[25].
Con la quarta censura il giudice lamenta la violazione dell’art. a quo 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 8 e 14 CEDU.
La Consulta riconosce che la Corte EDU per se ha affermato che «il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà» costituisce «uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria vita privata»[26]conclude in ogni caso, in ossequio al principio del margine di apprezzamento interno, che spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta[27] cosicché non v’è alcuna violazione degli articoli richiamati a suffragio della mossa censura.
Da ultimo, sulla nozione di «trattamenti di sostegno vitale» utilizzata nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, la Corte precisa che la stessa deve includere quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente, riprendendo a mo’ di esempio l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo[28]. Tutte queste procedure – proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare.
Rigettando tutte le cesure mosse, la Corte ha ribadito con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, ulteriormente precisati nella sentenza analizzata, e in ogni caso ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla pronuncia da ultimo resa.
- Osservazioni conclusive
La pronuncia resa dalla Corte non vuole essere un tentativo di disciplinare la materia, sostituendosi al legislatore, piuttosto la sentenza fissa il limite minimo[29], costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno dei principi coinvolti. Fissato il limite, l’intervento legislativo, potrà autonomamente individuare la disciplina più consona e “il punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana”.
L’autodeterminazione del soggetto e il consenso informato ad essa sotteso che permea ogni atto medico, in altri termini, deve, in ogni caso, conciliarsi con l’imprescindibile tutela del diritto alla vita e della dignità umana in un bilanciamento di interessi costante, continuo. Ragionare diversamente significherebbe aprire all’autodeterminazione non quale espressione della dignità dell’uomo, ma quale capriccio o nell’arbitrio anche verso “scelte eutanasiche” che non hanno una giustificazione ordinamentale né interna né sovranazionale.
Difatti, i valori fondamentali della persona umana, della sua dignità, della salute, dell’autodeterminazione, della solidarietà fanno parte non soltanto della nostra Costituzione, ma del costituzionalismo europeo evoluto verso una concezione personalistica e solidaristica, ove i diritti e le libertà fondamentali, sanciti nella Carta di Nizza, hanno lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 Tratt. UE), svolta personalistica di cui ha preso atto anche la Corte di Giustizia[30], senza tralasciare la nota di fondo che accomuna sia la regolamentazione positiva sia le scelte più strettamente confessionali date dal rispetto della dignità umana di ciascuno verso la cui tutela l’ordimento e le confessioni confluiscono.
E nel costante bilanciamento degli interessi coinvolti riveste notevole rilievo il margine di apprezzamento demandato ai singoli Stati. Infatti, proprio in ossequio al principio del margine di apprezzamento interno, spetta ai singoli Stati, fra l’altro, valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta.
Significativa a riguardo la sentenza [31] con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha respinto il ricorso del cittadino ungherese malato di SLA, che chiedeva di poter accedere all’aiuto alla morte volontaria. Nelle proprie motivazioni, la Corte si è infatti rimessa alla discrezionalità degli Stati nazionali, limitandosi a fotografare il fatto che “la maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa continua a proibire sia il suicidio medicalmente assistito che l’eutanasia”, pur sottolineando come vi sia “una tendenza crescente verso la sua legalizzazione”. La Corte europea, infatti, invocando il margine di apprezzamento degli Stati sul tema, non si è dunque soffermata sulla discriminazione sollevata, dovuta ad una legislazione interna che da una parte prevede il diritto a rifiutare o sospendere trattamenti vitali e dall’altra non consente l’accesso alla morte assistita, sia in Ungheria che all’estero, per chi non è dipendente da tali trattamenti. In altri termini il paziente ungherese affetto da SLA sarà costretto ad attendere la dipendenza da un sostegno vitale per poterlo eventualmente rifiutare e così morire, con le relative sofferenze.
Rilevante invece che, proprio in ossequio al margine di apprezzamento, la sentenza non ha impedito in alcun modo agli Stati di legalizzare eutanasia e “suicidio assistito”. Resta intatta la possibilità per gli Stati di ampliare il diritto all’autodeterminazione alla fine della vita fino a consentire alle persone affette da malattie irreversibili e sofferenze intollerabili, ma non necessariamente tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, di accedere all’aiuto alla morte volontaria. Tanto significa per il legislatore la sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana disponendo di un significativo margine di apprezzamento. Tale bilanciamento può legittimamente condurre gli Stati, tanto a mantenere politiche restrittive, quanto alla regolamentazione di forme di assistenza al suicidio o di eutanasia, senza che quest’ultima opzione debba ritenersi preclusa dagli obblighi di tutela della vita umana discendenti dall’art. 2 CEDU[32].
[1] Corte Cost., sentenza n. 135, 18 luglio 2024.
[2] Cfr. A. Losanno, Il diritto alla cura e il fine vita: fra esigenze di tutela “positiva” e scelte confessionali, in Pluralismo confessionale e dinamiche interculturali. Le best practices per una società inclusiva, a cura di A. Fuccillo e P. Palumbo, Editoriale Scientifica Napoli 2023, p. 1215 e ss.
[3] Corte Cass., sentenza n. 20984, 27 novembre 2012.
[4] P. Casali, L’informazione per una decisione clinica razionale, in Il consenso informato, di A. Santosuosso, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p. 73.
[5] G. Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico. Principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. Crit. Dir. Priv.,1998, p. 43 e ss.
[6] Il consenso informato può essere orale o scritto. Il consenso orale è richiesto al paziente in qualsiasi prestazione diagnostica e terapeutica, ma le modalità sono in genere proporzionate alla natura della prestazione. Il consenso scritto è da ritenere allo stato attuale un dovere morale del medico in tutti quei casi in cui le prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche in ragione della loro natura (per il rischio che comportano, per la durata del trattamento, per le implicazioni personale e familiari, per la possibilità di opzioni alternative tra le quali va anche compresa la eventualità di scelta di un altro medico curante o di altra struttura sanitaria) sono tali da rendere opportuna una manifestazione inequivoca e documentata della volontà del paziente. Il documento attestante il consenso può consistere in poche espressioni che indicano la natura della prestazione ovvero in un formulario che può contenere anche l’informazione su possibili rischi, fornita peraltro con modalità che tengano conto degli eventuali riflessi psicologici negativi sul paziente. Nel caso di consenso informato fornito da chi esercita la tutela o abbia, con il paziente incapace, vincoli di parentela o di documentata comunanza di vita, il consenso può essere richiesto dal medico con modalità che più esplicitamente indichino tutti i rischi che la prestazione sanitaria può comportare.
[7] In tal senso Cass. Civ., sentenza 6 dicembre 1968, n. 3906, in Giust. Civ. Mass. 1968, p. 2051.
[8] «…Il paziente non deve essere indotto a sottoscrivere in modo burocratico e distratto, il formulario, senza essere stato richiamato effettivamente dal medico al significato dell’atto che compie e agli effetti dello stesso», così precisa, G. Iadecola, in Consenso del paziente e trattamento medico-chirurgico, Liviana Editrice, Padova 1989, p. 26 e ss.
[9] Ex art. 47 c.p.
[10] Anche nel codice di deontologia medica, approvato il 2-3 ottobre 1998 dalla FNOMCeO (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi ed odontoiatri), è assente ogni riferimento ai familiari.
[11] Ex artt. 316 e ss. c.c., e artt. 357 e ss. c.c.
[12]È la tesi dell’Antolisei ma secondo, G. Iadecola, in Consenso del paziente e trattamento medico-chirurgico, Liviana Editrice, Padova 1989, p. 34, il criterio del «caso per caso», che apparirebbe il più equo e prudente in quanto più congruo a dare una risposta sicura rapportato alla specificità del caso, trova proprio nella sua empiricità il suo limite. Il medico verrebbe delegato, infatti, ad eseguire una verifica che non gli compete, e per la quale non ha necessariamente l’attitudine o le capacità sufficienti a rispondere, in modo esatto e sicuro, al quesito della capacità razionacizzante del paziente minore. Di contro la posizione dell’Antolisei, vi è altra dottrina ritiene che in ogni caso sia necessaria la maggiore età per l’espressione di un valido consenso (Altavilla, Grispigni, Cattaneo) ed altra ancora che considera sufficiente la sola capacità di intendere e di volere, che si ha per acquisita al compimento del quattordicesimo anno di età, con riferimento alle norme penali che disciplinano l’imputabilità del soggetto (Bettiol, Riz).
[13] È quanto ribadisce la Corte costituzionale, nella sentenza del 22 ottobre 1990, n. 471.
[14] Nella sentenza n. 242, 27 novembre 2019.
[15] Corte Cost., sentenza n. 50, 15 febbraio 2022, considerato in diritto punto 5.2.
[16] Corte Cost., sentenza n. 35, 10 febbraio 1997, considerato in diritto punto 4.
[17] Corte Cost., ordinanza n. 207 del 2018, considerato in diritto punto 8.
[18] Corte Cost., ordinanza n. 207 del 2018, considerato in diritto punto 8.
[19] Corte Cost., ordinanza n. 207 del 2018, considerato in diritto punto 6.
[20] Corte Cost., sentenza n. 50, 15 febbraio 2022, considerato in diritto punto 3.1.
[21] Corte Cost., sentenza n. 50, 15 febbraio 2022, considerato in diritto punto 5.3.
[22] Corte Cost., sentenza n. 50, 15 febbraio 2022, considerato in diritto punto 5.2.
[23] Corte Cost., ordinanza n. 207 del 2018, considerato in diritto punto 9.
[24] In analogia a quanto statuito dalla Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera, paragrafo 51; nello stesso senso, sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 67 e Corte EDU, sentenza Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 135.
[25] Così la Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018 in cui fa proprio riferimento alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento considerato in diritto punto 8 e 9.
[26] A riguardo vedasi le già richiamate sentenze Haas contro Svizzera; Pretty contro Regno Unito; Dániel Karsai contro Ungheria.
[27] Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, 13 giugno 2024, paragrafo 152.
[28] A. Di Tullio D’Elisiis, Suicidio assistito: la Consulta ribadisce i limiti dell’illegittimità, disponibile qui: https://www.diritto.it/suicidio-assistito-la-consulta-ribadisce-i-limiti/.
[29] Così come statuito dalla Corte EDU nelle già richiamate sentenze Haas contro Svizzera; Pretty contro Regno Unito; Dániel Karsai contro Ungheria.
[30] L’uso del metodo comparativo è alla base della decisione della Suprema Corte nel caso «Englaro», Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, cit., in cui si fa esplicito riferimento all’art. 1111-10 del code da la santè publique francese, inserito dalla L. 22 aprile 2005, n. 370, alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 29 aprile 2002, nel caso Pretty c. Regno Unito, ed alla sentenza 26 giugno 1997 della Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso V. e altri c. Q. e altri. Per una rassegna delle soluzioni offerte in altri ordinamenti, v. C.H. Baron, The Right to Die: Themes and Variations, in Trattato di biodiritto. Il governo del corpo, p. 1841 ss.
[31] Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, 13 giugno 2024.
[32] Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 145.