giovedì, Aprile 18, 2024
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Sulla costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato per responsabilità 231

A cura di Vittorio Marcello Chindamo

Sommario. 1. Introduzione. 2. La vexata quaestio: costituzione di parte civile e natura della responsabilità dell’ente. 3. Il “tertium genus” e il rumoroso silenzio del legislatore. 4. Orientamenti attuali. 5. Conclusioni. 

1. Introduzione

La tematica relativa all’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato per responsabilità amministrativa derivante da reato è, da sempre, una questione problematica nel sistema di cui al D. Lgs. 231/2001.

Per diverse ragioni, sempre condivisibili da un punto di vista logico-interpretativo, la possibilità per i danneggiati dal reato di far valere la loro pretesa risarcitoria nel processo penale contro l’ente è stata molto discussa. La genesi della questione è da ravvisare nel problematico silenzio, da parte del D. Lgs. 231 del 2001, sulla parte civile e sulla sua costituzione nell’ambito del procedimento penale sorto a seguito dell’illecito eventualmente configuratosi.

Il confronto maggiormente “acceso” ha visto come protagonisti i sostenitori delle teorie volte all’individuazione della natura della responsabilità dell’ente derivante da reato, dalla quale hanno fatto discendere l’ammissibilità o l’inammissibilità della costituzione di parte civile a seconda che la si consideri penale o amministrativa.

Ne sono scaturiti due orientamenti opposti, cui se ne è aggiunto un terzo facente leva, invece, sulla possibilità di ravvisare – nella responsabilità dell’ente imputato – un tertium genus di responsabilità, del tutto autonoma rispetto a quelli già teorizzati dalla dottrina.

Al riguardo sono intervenute autorevoli pronunce giurisprudenziali, nonostante – soprattutto in relazione ai più recenti orientamenti di merito – la questione rimanga “aperta” e soggetta esclusivamente alla scelta logico-argomentativa di volta in volta avallata dal giudicante.

2. La vexata quaestio sulla natura della responsabilità dell’ente

Le considerazioni sulla querelle giuridica sono state innumerevoli, sia grazie ad un’abbondante analisi dottrinale sia grazie a orientamenti giurisprudenziali che hanno condotto, talvolta, a esiti antitetici.

Nonostante il D.Lgs. 231/2001 faccia ampio ed espresso ricorso alle categorie del diritto penale – sostanziale e processuale – non vi è riferimento alcuno alla persona offesa dal reato (rectius, illecito) contestato all’ente imputato, né alla sua potenziale costituzione di parte civile.

Questo silenzio, da parte del legislatore, ha quindi dato adito ad una serie di opinioni tra loro contrastanti, a seconda dei percorsi logico-giuridici e interpretativi delle norme di riferimento.

La dottrina si è principalmente appigliata alla questione relativa alla natura della responsabilità dell’ente derivante da reato. Ne sono scaturiti un orientamento estensivo e uno restrittivo.

L’orientamento estensivo, sostenendo che la natura della responsabilità dell’ente debba considerarsi necessariamente penale in considerazione dei numerosi richiami alle categorie e agli elementi tipici della repressione dei reati, non esclude che la costituzione di parte civile debba ritenersi un istituto applicabile anche al sistema di cui al D. Lgs. 231/2001. La centrale importanza del risarcimento del danno ad opera dell’ente (artt. 12 co. 2 lett. a), 17 co. 1 lett. a) e 19 D.Lgs. 231/01), consentirebbe, inoltre, di ritenere ammissibile la costituzione di parte civile da parte del danneggiato dal reato in quanto, in caso contrario, il legislatore non avrebbe individuato nell’integrale risarcimento del danno, nell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivate dal reato nonché nell’efficace adoperarsi in tal senso dell’ente, i presupposti per la riduzione della sanzione pecuniaria eventualmente inflitta alla persona giuridica.

Quello restrittivo, invece, legato alla natura amministrativa della responsabilità dell’ente e forte dell’indiscusso valore letterale del dato normativo nonché del nomen juris individuato dal legislatore, esclude la possibilità che l’illecito contestato possa dar luogo a obbligazioni di natura civile che consentano di esprimere pretese risarcitorie per mezzo di un istituto di carattere tipicamente processual-penalistico. Alla stregua di questa impostazione, rileverebbero gli elementi costitutivi dell’illecito. In particolare, affinché sussista la responsabilità dell’ente, sarebbero necessari la commissione del reato da parte del soggetto c.d. rilevante, l’interesse o il vantaggio conseguiti dall’ente e, infine, una colpa da qualificarsi come organizzativa.  Ecco allora che, alla luce di quanto esposto, la persona giuridica è chiamata a rispondere di un addebito che risulta essere “diverso” rispetto ad un reato vero e proprio[1]. Da ciò l’impossibilità, in assenza di un espresso richiamo, che gli artt. 74 e 185 cod. proc. pen possano ritenersi applicabili in forza del rinvio operato dall’art. 34 del D.Lgs. 231/2001.

3. Il “tertium genus” e il rumoroso silenzio del legislatore

Tra quelli che sostenevano i due orientamenti appena presi in considerazione, si sono posti coloro che hanno individuato, in capo all’ente imputato, una responsabilità del tutto autonoma rispetto a quelle sopra richiamate[2]. Questo orientamento, giustificato alla stregua dell’antico brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, è stato avallato anche dalla più autorevole giurisprudenza.

In primis è intervenuta la Suprema Corte che si è posta al centro del dibattito teorico senza abbracciare alcuna delle posizioni emerse in dottrina. In particolare, con sentenza n. 2251 del 2011, la Corte di Cassazione si è espressa in senso negativo relativamente all’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente. Sorvolando sulla questione inerente alla natura della responsabilità, la pronuncia richiamata ha rilevato un’assenza sistematica – nel D. Lgs. 231/2001 – di riferimenti sia alla parte civile sia alla persona offesa, sostenendo che “non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica”[3].

In secondo luogo, è intervenuta la Corte Costituzionale che, chiamata a esprimersi sulla conformità alla Carta  Fondamentale della disciplina “231” relativamente alla parte in cui non prevede espressamente la possibilità che i soggetti danneggiati dal reato possano costituirsi parte civile contro l’ente imputato, ha accolto l’orientamento della Cassazione, non rilevando alcuna illegittimità e sostenendo come il diritto di difesa non possa comunque dirsi “compresso” perché tali soggetti ben potrebbero far valere le loro ragioni in un autonomo processo civile.

4. Il processo TAP e Pioltello: la questione rimane aperta “nel merito”

Il contrasto è, di recente, riemerso ad opera di due ordinanze – una del Giudice dell’Udienza Preliminare di Milano e una del Tribunale di Lecce – proprio relative all’ammissione della costituzione di parte civile nei confronti degli enti imputati per responsabilità amministrativa derivante da reato.

Nel processo instauratosi a seguito della strage ferroviaria di Pioltello, ben sessantasei passeggeri hanno chiesto di costituirsi parte civile nei confronti di RFI S.p.A., persona giuridica imputata. La difesa ha prontamente eccepito l’inammissibilità delle costituzioni richieste, facendo leva sull’incompatibilità dell’istituto con la responsabilità amministrativa derivante da reato. Al riguardo, il Giudice dell’Udienza Preliminare, accogliendo l’eccezione formulata, ha dichiarato inammissibile la costituzione di parte civile dei passeggeri nei confronti di RFI S.p.a., riportando alla luce e condividendo proprio l’orientamento manifestato dalla Suprema Corte già nel 2011 e specificando che: «Nessuna disposizione del richiamato corpo normativo (n.d.r., il D. Lgs. 231/2001) consente l’esercizio dell’azione civile nell’ambito del procedimento diretto all’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente»[4].

Al contrario, abbracciando l’orientamento estensivo sulla medesima questione, il Tribunale di Lecce – nell’ambito del processo contro i vertici di Trans Adriatic Pipeline – soltanto pochi giorni prima aveva statuito che «il rinvio operato dagli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 231/2001 consente l’estensione al procedimento degli illeciti amministrativi dipendenti da reato delle norme di procedura penale in quanto compatibili e l’estensione all’ente della disciplina relativa all’imputato, sempre in quanto compatibile»[5].

Tale estensione applicativa è stata giustificata da validi argomenti, tutti riconducibili ad altrettanto validi criteri di interpretazione della normativa di cui al D. Lgs. 231/01.

Primo fra tutti, un argomento di tipo letterale secondo cui nessuna norma vieta espressamente la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente (a contrario rispetto alle determinazioni giurisprudenziali ricordate) diversamente da quanto accade, invece, per le deroghe alle disposizioni del codice di rito, che sono state previste sempre in modo espresso.

Vi sarebbe, poi, un argomento di tipo storico-interpretativo che, facendo riferimento alla relazione illustrativa del D. Lgs. 231/01, non consente di rinvenire nella voluntas legis alcuna indicazione relativa all’inammissibilità della costituzione di parte civile nel processo “231”.

Da ultimo è stata effettuata un’analisi sistematica della normativa, secondo cui il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell’ente, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questo, è qualificabile come ‘proprio’ anche della persona fisica in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda: “Non può escludersi, quindi, che dal fatto dell’ente (c.d. “colpa di organizzazione”; deficit di organizzazione e di controllo rispetto ad un modello di diligenza esigibile, ex artt. 6 e 7 del Decreto Legislativo n. 231/2001), possa derivare un danno risarcibile per fatto proprio dell’ente, che lo obbliga, a norma dell’articolo 185 codice penale, come richiamato dall’articolo 74 codice penale” [6].

5. Conclusioni

L’ordinanza del Tribunale di Lecce è da accogliere con favore, pur essendo in netto contrasto con gli orientamenti prevalenti che, nel tempo, hanno qualificato come non ammissibile la costituzione di parte civile nei processi per l’accertamento della responsabilità di cui al Decreto Legislativo n. 231/2001.

In effetti, escludere l’operatività del rinvio ex art. 34 D. Lgs. 231/2001 sulla base del brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit – e, pertanto, sulla convinzione che il silenzio da parte del legislatore non sia stato meramente casuale – sarebbe quantomeno riduttivo. Equivarrebbe, cioè, ad ammettere che l’espresso richiamo in questione – che, in quanto tale, sembrerebbe già di per sé escludere un totale silenzio da parte del legislatore – venga comunque privato della sua operatività sulla base di un’elaborazione per lo più teorico-dottrinale e non, invece, funzionalmente orientata alla tutela del soggetto concretamente leso dal reato (che, per quanto esclusivamente ascrivibile alla persona fisica, risulta fisiologicamente correlato all’illecito contestato all’ente, unico potenzialmente colpevole dal punto di vista organizzativo).

D’altronde, secondo una lettura sistematica del “Decreto 231”, non avrebbe ragione di esistere la statuizione relativa  all’autonomia della responsabilità dell’ente, sussistente, ex art. 8, anche nel caso limite in cui l’autore del reato non sia stato identificato o non sia imputabile. Quid iuris, in tal caso, se a fronte dell’assenza dell’autore del reato sia comunque presente una persona offesa? Ci sarebbe un unico processo in cui potersi costituire parte civile, e la mancata identificazione ovvero la non imputabilità dell’autore del reato non può, in alcun modo, giustificare l’impossibilità di veder soddisfatte le pretese risarcitorie del soggetto concretamente danneggiato dal reato.

Inoltre, la previsione di misure premiali per l’ente che risarcisca il danno prodotto dal reato ben si inserisce nella logica special-preventiva del “sistema 231”: sarebbe illogico incentivare un’attività preventiva se, al contempo, non vi fosse la possibilità eventuale di ravvisare una tutela nel caso in cui la prevenzione stessa o i relativi presidi posti in essere si siano rilevati inefficaci.

Infine, posto che l’art. 2043 c.c. prevede che “qualunque fatto illecito” che cagiona ad altri un danno obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno, ne consegue che il danneggiato possa e debba adire il giudice civile per ottenere dall’ente il risarcimento dei danni cagionati dalla realizzazione degli illeciti amministrativi ad esso riconducibili. Non sarebbe ragionevole, tuttavia, eliminare l’operatività del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., secondo cui l’azione civile può essere iniziata o trasferita nel processo penale, unica sede giurisdizionale effettivamente competente a decidere sulla responsabilità dell’ente imputato, per quanto l’illecito ascritto alla persona giuridica possa definirsi “amministrativo”.

Appare pertanto coerente con il sistema ritenere che l’assenza di riferimenti espliciti alla persona offesa all’interno del dettato normativo non può comportare, per quanto la pretesa sia di natura civile (originata dal combinato disposto della disciplina del d.lg. 231 e dall’art. 2043 c.c.), una forzata rinuncia al risarcimento del danno conseguente all’illecito dell’ente


[1] “Nel sistema del d. lgs. n. 231 del 2001, dal reato-presupposto, commesso dalla persona fisica, discende la responsabilità dell’ente per il così detto illecito “amministrativo” – per l’appunto, «dipendente da reato» (art. 1 comma 1) – alla condizione che la societas medesima si sia avvantaggiata del reato (art. 5). La persona giuridica è dunque chiamata a rispondere non del reato in senso tecnico (che è e resta ascritto alla persona fisica), bensì di un autonomo illecito «amministrativo» – il quale germina solo grazie a elementi costitutivi diversi e “ulteriori” rispetto al reato-presupposto […]” – A. Presutti e A. Bernasconi, Manuale della responsabilità degli enti, edizione 2013, p. 245.

[2] “La scelta di qualificare come «amministrativa», anziché come «penale», la nuova forma di responsabilità non è dovuta all’esigenza di superare decise e forti resistenze da parte della dottrina penalistica, ma è frutto della necessità di allentare le consistenti tensioni del mondo imprendiotriale molto preoccupato per le eventuali ricadute economiche della riforma[…]. Per vero, la disciplina predisposta è normativamente articolata in modo tale da suscitare l’impressione che il legislatore – incorrendo in una sorta di «frode delle etichette» – abbia voluto formalmente definire «amministrativa» una responsabilità che, nella sostanza, assume un volto penalistico (o parapenalistico): la responsabilità dell’ente è, infatti, strettamente agganciata alla commissione di un fatto di reato e la sede in cui essa viene accertata è pur sempre il processo penale. Non è certamente un caso allora se la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi per la prima volta sul tema, abbia statuito che la nuova responsabilità […] costituisce in fondo un tertium genusove il presupposto è dato dalla commissione del reato” – G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale Parte Generale, edizione 2014, p. 165.

[3] Cass. Pen. Sez. VI, sentenza n. 2251, 5 ottobre 2010 (dep. 22 gennaio 2011), p. 13.

[4] GUP di Milano, Ordinanza, dep. 2 febbraio 2021, Giudice Dott.ssa Anna Magelli.

[5] Tribunale di Lecce in composizione monocratica, Ordinanza del 29 gennaio 2021, Dott.ssa Silvia Saracino.

[6] Tribunale di Lecce in composizione monocratica, Ordinanza cit.

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