lunedì, Marzo 18, 2024
Criminal & Compliance

Sulla necessità di richiedere l’ammissione delle prove ex art. 493 c.p.p.: la lista testimoniale

1. Premessa

Durante l’istruttoria dibattimentale il mezzo di prova per eccellenza è la testimonianza.

Difatti, in un contraddittorio caratterizzato da oralità ed immediatezza, l’esame del testimone rappresenta una delle principali attività delle parti, nonché il mezzo mediante il quale vengono introdotti fatti e avvenimenti inerenti l’imputazione. Affinché un soggetto possa essere chiamato a rendere testimonianza occorre che il Pubblico Ministero, il difensore dell’imputato e quello della parte civile indichino il nominativo all’interno della c.d. lista testi che deve essere obbligatoriamente depositata entro sette giorni liberi prima dell’udienza filtro nella cancelleria del Giudice. Tale incombente non è tuttavia da solo e sufficiente a garantire la possibilità di esaminare quel determinato testimone, in quanto le singole parti, proprio alla prima udienza, hanno l’onere di chiederne al giudice l’ammissione.

Proprio su questo aspetto si è di recente pronunciata la Corte di cassazione[1].

 

2. Sulla testimonianza come mezzo di prova.

Le prove sono disciplinate dal libro terzo del codice di procedura penale che disciplina i principi generali (art. 187-193), i mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova.

L’art. 187 c.p.p. stabilisce che sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza. Sono, inoltre, oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali, nonché, se vi è costituzione di parte civile, i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato. L’art. 188 c.p.p. afferma, invece, che non possono essere utilizzati, neanche con il consenso della persona interessata, metodi e tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti. Sono illecite, per esempio, le testimonianze sotto ipnosi o mediante l’uso delle cosiddette macchine della verità. Quando è richiesta una prova atipica (art. 189 c.p.p.), cioè non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona, rispettando il divieto di cui all’art. 188 c.p.p.-

Il mezzo di prova è il meccanismo attraverso cui si acquisiscono informazioni utili ai fini della decisione emessa dal giudice, tra cui la testimonianza.

Inoltre fonti di prova possono essere cercate attraverso determinati strumenti definiti mezzi di ricerca della prova: essi sono sequestri, ispezioni, intercettazioni telefoniche, perquisizioni.

Il sistema accusatorio prevede che siano le parti a poter chiedere l’acquisizione di una prova e, solo in determinati casi e in via residuale, è consentito d’ufficio anche al giudice; costui deve quindi valutare se, a seguito di richiesta, sia il caso di ammetterle; la richiesta delle parti, peraltro, è sottoposta al giudizio di ammissibilità del giudice[2]. Bisogna infine effettuare un’ulteriore distinzione relativa alle prove dirette e a quelle indirette: le prime hanno lo scopo di provare un determinato fatto oggetto di prova, mentre quelle indirette hanno lo scopo di provare un fatto che attraverso un ragionamento logico consente di desumere il fatto oggetto di prova.

Presupposto fondamentale è il giudizio effettuato dal giudice che ha l’obbligo di decidere autonomamente effettuando il giudizio di valutazione delle prove sulla base del proprio libero convincimento; di questo deve darne conto nella motivazione specificando i risultati acquisiti ed i criteri adottati.

Con particolare riferimento alla testimonianza, il codice opera una distinzione tra la testimonianza e l’esame delle parti: il testimone ha l’obbligo penalmente sanzionato di presentarsi dinanzi al giudice e di dire la verità, mentre le parti (l’imputato, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata), al contrario, quando si offrono all’esame incrociato non hanno l’obbligo di presentarsi, l’obbligo di rispondere alle domande o quello di dire la verità[3]. Tale distinzione trova una conferma nell’art. 197 c.p.p., in base al quale la qualità di testimone è incompatibile con quella di parte e, in particolare, con quella di imputato.

La qualifica di testimone può essere assunta dalla persona che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova e riveste uno dei ruoli ai quali il codice non riconduce l’incompatibilità a testimoniare; il soggetto così delineato, comunque, diviene testimone soltanto se e quando viene chiamato a deporre davanti al giudice nel procedimento penale.

Il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice; qualora tale obbligo non sia rispettato il giudice può ordinare il suo accompagnamento coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo ad una pena pecuniaria. Ha altresì l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le esigenze processuali, nonché l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte; se difatti tace ciò che sa, afferma il falso o nega il vero, commette il delitto di falsa testimonianza.

Ai sensi dell’art. 188 c.p.p., non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione  e ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti.

Il legislatore ha disposto che ciascun persona abbia la capacità di testimoniare; in tal senso possono essere ammessi a testimoniare anche soggetti infermi di mente o minori di quattordici anni, ma in questi casi il giudice, dovendo valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l’attendibilità della dichiarazione, può verificare l’idoneità fisica o mentale del soggetto chiamato a deporre ordinando gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge. All’obbligo di testimoniare, tuttavia, si pongono alcune eccezioni, le cosiddette situazioni di incompatibilità, che ricorrono quando una persona, pur capace di deporre, non sia legittimata a svolgere la funzione di testimone in un determinato procedimento penale a causa della posizione assunta in tale procedimento o a causa dell’attività esercitata.

L’art. 197 c.p.p., che disciplina l’incompatibilità prevede che non possono essere assunti come testimoni, ma sono sentiti con il cosiddetto esame delle parti ai sensi dell’art. 210 c.p.p., gli imputati concorrenti nel medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso, salvo che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. Non possono inoltre essere assunti come testimoni, gli imputati in procedimenti legati da una connessione debole, gli imputati in procedimenti probatoriamente collegati.

A tale regola, tuttavia, sono state poste due eccezioni che ricorrono nel caso in cui nei loro confronti è stata emessa sentenza irrevocabile o se nel corso dell’interrogatorio hanno reso dichiarazioni su fatti altrui, ossia concernenti la responsabilità di altri imputati collegati o connessi.

Infine non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e di civilmente obbligato per la pena pecuniaria o che svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario, il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione dell’intervista o che hanno redatto la relazione che recepisce le dichiarazioni scritte.

Una peculiarità è rappresentata dalla L. 1 marzo 2001 n. 63, che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della testimonianza assistita.

In tal senso, l’imputato in un procedimento connesso o collegato, con l’assistenza obbligatoria del proprio difensore, viene sentito in forza del collegamento tra il reato che gli è addebitato e quello che è oggetto del procedimento per il quale è chiamato a deporre. Il legislatore ha previsto due categorie di testimonianza assistita, quella inerente la conclusione del procedimento a carico dell’imputato collegato o connesso e la seconda che opera prima della conclusione del procedimento a carico dell’imputato collegato  o connesso teleologicamente.

Tali soggetti, in particolare, possono deporre come testimoni se hanno reso dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri.

Con riferimento agli imputati la cui sentenza è divenuta irrevocabile, tale soggetto può sempre essere chiamato come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui o non ha ricevuto l’avviso previsto dall’art. 64, comma 3, lett. C), c.p.p.-

Tale soggetto non può tuttavia essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento originario aveva negato la sua responsabilità o non aveva reso alcuna dichiarazione; inoltre le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate contro di lui nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette.

La Corte costituzionale[4] ha stabilito che all’imputato assolto con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto non si applica l’art. 197-bis c.p.p., quanto piuttosto la classica disciplina del testimone.

3. L’ammissibilità della lista testimoniale.

La pronuncia in esame origina dal ricorso per cassazione presentato dal difensore dell’imputato contro la sentenza della Corte d’Appello che aveva confermato la decisione del Tribunale mediante la quale l’imputato era stato condannato alla pena di giustizia.

Il gravame si basava, in tutti i motivi, sulla violazione di legge e la carenza di motivazione.

Nel ritenere inammissibile il ricorso, la Corte si sofferma sulla questione inerente l’ammissione dei testi indicati nella lista testimoniale.

Sul punto infatti si afferma che: “Riconosce il Collegio come il deposito, ancorché rituale, della lista testi non comporta l’implicita successiva formale richiesta di prova, nella specie mai intervenuta e non altrimenti sanabile. Ne consegue che non si può parlare né di omessa valutazione della lista testimoniale – che, il giudice, in sede di presentazione non può sindacare, potendosi solo limitare ad autorizzare la citazione dei testi, in presenza di esplicita richiesta – né, tantomeno, di ammissione implicita di prove e di successiva ingiustificata revoca, per la mancanza di una preventiva formale richiesta in tal senso da parte della difesa”.

Il Supremo collegio ritiene quindi che il deposito della lista testimoniale presso la cancelleria del giudice e la richiesta di ammissione dei testimoni ivi indicati siano due incombenti differenti, ce si esplicano in momenti temporali diversi e che non sono connotati da automatismo.

E difatti la Corte ricorda che: “(…) si è riconosciuto che una cosa è la presentazione della lista testi ai sensi dell’art. 468 c.p.p., altra, ben distinta, è la richiesta di prova ai sensi dell’art. 493 c.p.p.”.

Con riferimento ai rimanenti motivi la Corte di cassazione ha ritenuto gli stessi infondati o aspecifici e ha quindi rigettato il ricorso e condannato l’imputato al pagamento delle spese processuali.

4. Conclusioni.

La pronuncia in esame può destare, ad una prima impressione, un senso di ovvietà in quanto affermato dalla Suprema Corte.

Tuttavia, non così infrequentemente nelle aule di giustizia, si assiste a criticità e problematiche che riguardano la presentazione della lista testimoniale entro il termine di legge, la precisa indicazione della qualifica e l’apporto probatorio del singolo testimone e, a volte, anche la richiesta di ammissione dei testi ivi indicati. Si tratta a ben vedere di una questione molto delicata e problematica perché l’omessa richiesta impedisce alla parte di poter escutere i propri testimoni e consulenti, portatori di informazioni e nozioni ragionevolmente a favore della propria tesi, pregiudicando l’esito del dibattimento.

È pur vero che la parte, colta in errore, potrebbe sollecitare i poteri probatori del giudice di cui all’art. 507 c.p.p., ma è anche vero che tale disposizione non è stata pensata e introdotta per rimediare ad una dimenticanza o disattenzione da parte di una delle parti del processo e quindi non ha la stessa ampia efficacia della corretta presentazione e richiesta di ammissione dei testimoni[5].

 

La sentenza è qui disponibile Cass. Pen., Sez. II, 18.07.2022, n. 27875.

[1] Cass. Pen., Sez. II, 18.07.2022, n. 27875.

[2] P. Tonini, Manuale di diritto processuale penale, Milano, 2021.

[3] G. Conso, V. grevi, M. Bargis, Compendio di procedura penale, Padova, 2020.

[4] Cort. cost., 21.11.2006, n. 381.

[5] P. Maggio, I poteri istruttori del giudice penale tra interpretazioni consolidate e nuovi limiti dettati dal principio della “parità delle armi”, in Proc.pen.giust., n. 6, 2015.

Francesco Martin

Dopo il diploma presso il liceo classico Cavanis di Venezia ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (Laurea Magistrale a Ciclo Unico), presso l’Università degli Studi di Verona nell’anno accademico 2016-2017, con una tesi dal titolo “Profili attuali del contrasto al fenomeno della corruzione e responsabilità degli enti” (Relatore Chia.mo Prof. Avv. Lorenzo Picotti), riguardante la tematica della corruzione e il caso del Mose di Venezia. Durante l’ultimo anno universitario ha effettuato uno stage di 180 ore presso l’Ufficio Antimafia della Prefettura UTG di Venezia (Dirigente affidatario Dott. N. Manno), partecipando altresì a svariate conferenze, seminari e incontri di studi in materia giuridica. Dal 30 ottobre 2017 ha svolto la pratica forense presso lo Studio dell’Avv. Antonio Franchini, del Foro di Venezia. Da gennaio a luglio 2020 ha ricoperto il ruolo di assistente volontario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia (coordinatore Dott. F. Fiorentin) dove approfondisce le tematiche legate all'esecuzione della pena e alla vita dei detenuti e internati all'interno degli istituti penitenziari. Nella sessione 2019-2020 ha conseguito l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’Appello di Venezia e dal 9 novembre 2020 è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia. Da gennaio a settembre 2021 ha svolto la professione di avvocato presso lo Studio BM&A - sede di Treviso e da settembre 2021 è associate dell'area penale presso MDA Studio Legale e Tributario - sede di Venezia. Da gennaio 2022 è Cultore di materia di diritto penale 1 e 2 presso l'Università degli Studi di Udine (Prof. Avv. Enrico Amati). Nel luglio 2022 è risultato vincitore della borsa di ricerca senior (IUS/16 Diritto processuale penale), presso l'Università degli Studi di Udine, nell'ambito del progetto UNI4JUSTICE. Nel dicembre 2023 ha frequentato il corso "Sostenibilità e modelli 231. Il ruolo dell'organismo di vigilanza" - SDA Bocconi. È socio della Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici”, e socio A.I.G.A. - sede di Venezia.

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