giovedì, Aprile 18, 2024
Fashion Law Influencer Marketing

Tabelle di concordanza e uso di marchi noti

Tabelle di concordanza e uso di marchi noti

A cura di Dott.ssa Maria Chiara La Spina

Con riguardo alle questioni giuridiche legate al mondo dei profumi[1] vale la pena approfondire quegli aspetti che non afferiscono direttamente alla fragranza in sé, ma concernono, piuttosto, l’uso di marchi noti[2] e le tecniche di commercializzazione dei prodotti profumieri.

Numerose controversie, che hanno coinvolto il settore in questione, hanno riguardato l’impiego a livello commerciale delle c.d. tabelle di concordanza. Si tratta di una pratica commerciale attraverso la quale viene stabilita un’equivalenza fra le diverse fragranze poste in vendita in un negozio – anche online – e le fragranze celebri identificate tramite l’uso dei marchi di una certa notorietà. Essa viene utilizzata da coloro che producono e commercializzano prodotti profumieri aventi la stessa profumazione di quelli prodotti da famose maison, ma venduti ad un prezzo significativamente inferiore. I produttori dei profumi di marca non possono, però, impedire la vendita degli equivalenti perché non possiedono alcun diritto di esclusiva sulla sostanza olfattiva in sé, ma possono opporre al venditore di equivalenti solamente i diritti di marchio. Infatti, dal momento che la tecnica comunicativa adoperata dai venditori di profumi equivalenti implica l’uso del marchio altrui, i titolari del marchio utilizzato possono ricorrere, a talune condizioni, alle tutele previste ai sensi dell’art. 20, comma 1, c.p.i.[3]. Astrattamente, l’impiego del marchio altrui, nell’esercizio dell’attività economica di un terzo, è lecito e non può essere impedito dal titolare laddove tale utilizzo risulti necessario e non sostituibile mediante il ricorso ad altri strumenti, in quanto avente funzione meramente descrittiva dei prodotti commercializzati, sempre che l’utilizzo non possa ingenerare il rischio di un’associazione con il marchio e le attività del titolare[4].

Occorre, quindi, verificare, attraverso un approccio pratico, se l’utilizzo del marchio altrui sia sempre necessario ai fini descrittivi o se sia sufficiente ricorrere ad una descrizione meramente discorsiva basata sulla riconducibilità del profumo equivalente a delle categorie olfattive. Raramente, però, una descrizione verbale, fondata sull’indicazione delle componenti olfattive o  alla possibilità di paragonare la sostanza a famiglie di profumi, si rivela adeguata e sufficiente a comunicare al cliente quali siano le caratteristiche olfattive del prodotto equivalente. Di solito, un profumo viene identificato e, di conseguenza, denominato, attraverso il marchio della maison da cui proviene: avviene una sorta di deterioramento del marchio a denominazione comune del prodotto e, a causa di tale processo, ciascun operatore del settore ha il diritto di utilizzare la denominazione comune dei prodotti che produce e commercializza[5]. Inoltre, i marchi dell’industria profumiera sono spesso marchi che godono di un particolare rinomanza e, quindi, il loro utilizzo da parte di terzi può integrare una fattispecie illecita a prescindere dall’esistenza di un rischio di confusione. In tale ambito è stato affermato che, ai fini della configurazione del reato di contraffazione[6] di un marchio, l’intento contraffattorio è ritenuto esistente anche laddove si ricorra ad un disclaimer circa la non originalità del prodotto commercializzato attraverso l’accostamento ad un marchio noto, seppur con il dichiarato scopo di praticare detto accostamento a fini meramente descrittivi. Il marchio, oltre alla funzione meramente distintiva, possiede anche – in particolar modo se divenuto noto al pubblico – un vero e proprio selling power tale per cui il titolare del marchio può impedire a terzi la possibilità di avvalersi indebitamente di tale capacità di vendita acquisita dal marchio. Nelle suddette circostanze l’eventuale carenza di rimedi in capo al titolare del marchio significherebbe consentire a terzi un ingiustificato vantaggio generato dal rischio di collegamento con il marchio rinomato, oltre l’eventuale pericolo di discredito per lo stesso marchio e per l’immagine dei prodotti dell’azienda accreditata presso il pubblico. D’altro canto i messaggi pubblicitari trasmessi dalle tabelle di concordanza, basati sull’evocazione del marchio noto, sono potenzialmente vietati dalla disciplina sulla pubblicità comparativa[7] e dall’art. 2598 n. 2 c.c.[8],in base alla quale sono vietati non solamente i messaggi pubblicitari che rievocano in maniera esplicita l’idea dell’imitazione o della riproduzione, ma anche quelli che, considerando la presentazione e il contesto in cui sono immessi sono idonei a trasmettere implicitamente siffatta idea al pubblico target.

La decisione del Tribunale di Torino sui marchi Chanel

Un’operazione di sistemazione e riepilogazione dei principi in tema di violazione del marchio, in particolare del marchio rinomato, attraverso la tecnica di richiamo per “tabelle di concordanza” ci viene fornita dalla sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Torino[9], in occasione della controversia che ha visto protagonista la società Chanel (societé par actions simplifliée) contro due aziende italiane ed un privato che hanno inserito i più famosi marchi dei profumi nota maison francese in delle tabelle di confronto con l’obiettivo di informare i consumatori circa la somiglianza delle proprie fragranze con i corrispondenti profumi venduti dal brand parigino.

In particolare, nel caso di specie veniva richiamato l’art. 20 del c.p.i. dal momento che le tabelle di equivalenza, determinando una violazione dei diritti esclusivi spettanti al titolare del marchio, consentivano a quest’ultimo di «vietare ai terzi di apporre il segno sui prodotti o sulle loro confezioni; di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire i servizi contraddistinti dal segno; di importare o esportare i prodotti contraddistinti dal segno stesso; di utilizzare il segno nella corrispondenza e nella pubblicità.»[10].

Il secondo comma dello stesso articolo, parimenti richiamato nella summenzionata decisione, ricorda che: «Non è consentito usare il marchio in modo contrario alla legge, né, in specie, in modo da ingenerare un rischio di confusione sul mercato con altri segni conosciuti come distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui, o da indurre comunque in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti e servizi, a causa del modo o del contesto in cui viene utilizzato, o da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi».

Con riguardo alla violazione dei diritti esclusivi del titolare del marchio, il Tribunale di Torino richiamava sia alcune massime in materia della Suprema Corte che l’analogo insegnamento della Corte di Giustizia,[11] peraltro rese su fattispecie diverse da quella delle tabelle di concordanza di profumi. Rispetto all’uso lecito di marchio altrui la Suprema Corte ha affermato che «In tema di tutela dei marchi, l’art. 1 bis, comma 1, lett. c, del r.d. n. 929 del 1942, introdotto dall’art. 2 d.lg. n. 480 del 1992, nel consentire l’uso del marchio altrui per indicare la destinazione di un prodotto o servizio, subordina la liceità di tale utilizzazione alla duplice condizione che essa abbia luogo in funzione non già distintiva ma meramente descrittiva, e sia conforme ai principi della correttezza professionale, e ciò per scongiurare non solo il rischio di confusione, ma anche quello di semplice associazione tra i segni; pertanto, al fine di evitare che il riferimento al marchio altrui divenga strumento di indebito sfruttamento della fama spettante al titolare del marchio (c.d. rischio di agganciamento), l’impiego del marchio altrui nella commercializzazione di pezzi di ricambio può aver luogo solo negli stretti limiti in cui ciò̀ sia indispensabile per indicare la destinazione del prodotto, essendo per definizione contrario alla correttezza professionale ogni uso che vada al di là di questi limiti»[12]. Si tratta di una materia in cui tecniche di marketing e strumenti legali si trovano in un rapporto di interdipendenza, così che dalla concreta strategia comunicativa impiegata nella vendita di profumi equivalenti dipendono gli argomenti difensivi a favore o meno della liceità nell’uso del marchio altrui.

Da ultimo, sulla scia delle recenti evoluzioni giurisprudenziali sul rapporto tra diritti della proprietà intellettuale e diritto antitrust, tale liceità potrebbe anche poggiarsi su una licenza di uso del marchio altrui a condizioni fair, reasonable and non-discriminatory (FRAND), previa qualificazione del marchio quale “barriera” all’ingresso del mercato dei profumi di marca oltre ad un attento esame delle caratteristiche del mercato in questione.

 

Scarica la pronuncia del Tribunale di Torino: Trib. Torino R.G. 35237.2014

 

[1]Non è questa la sede per approfondire ulteriori questioni riguardanti i profumi, come quella dei contenitori delle fragranze e le conseguenti considerazioni in materia di marchi di forma.

[2]Sul concetto di marchio notorio si è espressa la Corte di Giustizia europea, nella sentenza del 14 settembre 1999 nel procedimento General Motors (C-375/97), specificando che per accedere alla tutela prevista dall’art. 5.2 della Direttiva 2008/95/CE e da cui deriva l’art. 20 del c.p.i., è sufficiente che un marchio «sia conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o ai servizi dallo esso contraddistinti», non essendo invece necessario che esso «sia riconosciuto da una determinata percentuale del pubblico così definito»; nella giurisprudenza italiana, a mero titolo di esempio, il Trib. Bologna, 12 febbraio 2008, in Giurisprudenza annotata di diritto industriale, 2009, p. 352, secondo cui «Il concetto di rinomanza del marchio non si riferisce soltanto al marchio celebre o a quello di alta rinomanza, bensì comprende ogni ipotesi in cui si sia in presenza di un marchio noto (non quindi necessariamente ad un’altissima percentuale di consumatori) e la appropriazione di esso possa determinare un indebito vantaggio per l’usurpatore o un pregiudizio per il titolare.».

[3]In base all’art. 20, comma 1 c.p.i. «I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica:

  1. un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato.
  2. un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  3. un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno, anche a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti e i servizi, senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.»

[4]«L’utilizzo e l’indicazione del marchio altrui nell’attività d’impresa di un terzo sono leciti, e non possono essere impediti dal titolare, esclusivamente se necessari e non altrimenti sostituibili, in quanto in funzione meramente descrittiva dei prodotti commercializzati o dei servizi erogati, e sempre che, eccedendo detta funzione, tale utilizzo non possa ingenerare il rischio di un collegamento, anche nel senso di mera associazione commerciale, con il marchio e le attività del titolare” (Cassazione civile, 16 luglio 2005, n. 15096)».

[5]Ai sensi dell’art. 14.1 della Direttiva 2015/2436/UE: «Il diritto conferito da un marchio d’impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio:

  1. del nome o dell’indirizzo del terzo, qualora si tratti di una persona fisica;
  2. di segni o indicazioni che non sono distintivi o che riguardano la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio;
  3. del marchio d’impresa per identificare o fare riferimento a prodotti o servizi come prodotti o servizi del titolare di tale marchio, specie se l’uso del marchio è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio.».

[6]Si segnala di seguito la massima che ha affermato che l’utilizzo del marchio altrui all’interno di tabelle di concordanza costituisce non solo un’ipotesi di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 2, c.c., ma anche di contraffazione del marchio: «L’utilizzo di tabelle di concordanza di profumi con la dicitura “fragranza olfattiva ispirata a” seguita dall’altrui marchio costituisce ipotesi di concorrenza sleale per appropriazione di pregi ex art. 2598 n. 2, c.c. e contraffazione del marchio, non rientrando tra le eccezioni previste dall’art. 21 c.p.i.», Trib. Bologna, 12 febbraio 2008, in Giurisprudenza annotata di diritto industriale, 2009, p. 352

[7]In materia di pubblicità comparativa il legislatore europeo ha richiamato per l’utilizzo del marchio altrui alle regole di correttezza contenute nella Direttiva 2006/114; se tali regole di correttezza sono rispettate, il marchio altrui può essere menzionato nell’ambito di un contesto pubblicitario comparativo; in caso contrario la pubblicità non risulta corretta e, inoltre, l’impiego del marchio altrui risulta illecito.

[8]In base all’art. 2598 n. 2, c.c.: «Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

  • […];
  • diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.»

[9]Trib. di Torino, 16 gennaio 2015, disponibile su giurisprudenza delle impresehttp://bit.ly/2n6WE1K.

[10]In particolare l’art. 20, comma 2, c.p.i.

[11]Parimenti, secondo la Corte di Giustizia «L’uso del marchio da parte di un terzo che non è né titolare è necessario per indicare la destinazione di un prodotto messo in commercio da tale terzo, quando siffatto uso costituisce in pratica il solo mezzo per fornire al pubblico un’informazione comprensibile e completa su tale destinazione, al fine di preservare il sistema di concorrenza non falsato sul mercato di tale prodotto, mentre spetta al giudice del rinvio verificare se, nella causa principale, un uso di tale tipo sia necessario, tenendo conto della natura del pubblico a cui è destinato il prodotto messo in commercio dal terzo in questione.» (Corte di Giustizia UE, 17  marzo 2005, causa C-228/03).

[12]Cassazione civile, 30 luglio 2009, n. 17734.

Sul punto si legga VALERIANI, La tutela giuridica dei profumi, Ius in itinere, disponibile al seguente link: https://www.iusinitinere.it/la-tutela-giuridica-dei-profumi-21424

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