venerdì, Marzo 29, 2024
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Tortura: quando è lo Stato a violare i diritti umani

“Mi pare impossibile, che l’usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora.” Era il 1777 quando Pietro Verri, uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo italiano, pronunciò questa frase nell’opera “Osservazioni sulla tortura”. E se oggi la tortura è annoverata tra i “crimini fondamentali”, ovvero tra i più efferati crimini di diritto internazionale, è emblematico di quanto nel corso del tempo la stessa abbia assunto forme sempre più differenti e sofisticate, incidendo e violando in maniera profonda i diritti umani fondamentali.

Gli stati, a livello sia internazionale che regionale, hanno posto in essere una serie di strumenti normativi, al fine di individuare la condotta tipica perseguibile penalmente, e grazie al fondamentale contributo giurisprudenziale del Tribunale Penale Internazionale per l’ex – Jugoslavia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo importanti passi avanti sono stati fatti nella lotta ad un crimine così odioso.

In quanto crimine internazionale la tortura è caratterizzata da un elemento oggettivo e soggettivo: l’elemento oggettivo è rinvenibile nell’art 1 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1984, che si riferisce espressamente a:

1) Qualsiasi azione atta a provocare un’acuta sofferenza, fisica o mentale

2) Pena e sofferenza non causate solo dall’imposizione di sanzioni legittime o non inerenti a tali sanzioni

3) Sofferenza mentale o fisica inflitta da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che agisca in qualità di organo, oppure con la sua istigazione o consenso

4) Atti posti in essere a fine di estorcere informazioni, per intimidire o punire un soggetto o per discriminare la vittima o un terzo

L’elemento soggettivo è insito nella natura stessa del crimine, e si riferisce al requisito dell’intenzionalità con cui vengono inflitte torture e sofferenze, essendo la sussistenza del dolo sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo.

Il diritto internazionale inquadra il crimine di tortura sotto un triplice profilo.

In quanto crimine contro l’umanità, la tortura deve essere parte di una prassi diffusa e sistematica, indipendentemente dalla sua commissione nel corso di un conflitto armato. Si parla dunque di atti di tortura anche se commessi in tempo di pace, purché l’autore sia consapevole del fatto che la sua condotta rientri in una prassi estesa e sistematica. In quanto crimine di guerra, deve essere commessa in connessione con un conflitto armato, quando un membro delle forze armate commetta atti di tortura contro civili nemici o membri delle forze avversarie. In quanto crimine autonomo, la tortura può essere commessa in tempo di pace e di guerra come sottolineato nella sentenza Kunarac et al del TPIJ che condannò tre degli autori degli stupri di massa commessi a Foca nel 1992 a danno delle donne musulmane che vivevano nella regione.

A livello regionale, in particolare nel contesto dell’Europa occidentale, fondamentale nella persecuzione del crimine di tortura è l’operato della Corte europea dei diritti dell’uomo, che in più casi ha cercato di dare concreta attuazione all’art.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1951 che sancisce espressamente che “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte ha inoltre stabilito che il divieto contenuto nella Convenzione valga anche per gli Stati che non sono parte della stessa, facendo si che gli Stati contraenti non si debbano rendere complici di atti di tortura perpetrati da Stati terzi.

Nonostante i profili normativi e le azioni di contrasto alla commissione degli atti di tortura, dal punto di vista di effettività della tutela c’è ancora molta strada da fare. La stessa Convenzione del 1984 che estende il divieto anche ai trattamenti crudeli disumani e degradanti e sancisce il principio di universalità della giurisdizione, ha il limite di vincolare solo gli stati contraenti. E sebbene il divieto di tortura abbia ormai assunto il rango di norma di diritto cogente, ovvero assolutamente inderogabile, la tortura intesa come crimine autonomo è esclusa dalla giurisdizione di corti e tribunali e internazionali a dimostrazione che i singoli stati, soprattutto con riferimento ad atti di tortura commessi da propri organi, preferiscano il profilo della giurisdizione nazionale, contrastando le intromissioni della comunità internazionale.

Emblematico è il caso italiano, poiché il nostro ordinamento, è tuttora sprovvisto di una norma che preveda il reato di tortura, nonostante la ratifica della Convenzione del 1984 e la condanna della Corte di Strasburgo nell’aprile del 2015 per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001. La Corte europea è intervenuta in seguito al ricorso di una delle vittime di quanto accaduto alla scuola Diaz, nel caso Cestaro, e all’unanimità ha dichiarato la violazione dell’art.3 della Convenzione poiché le rappresaglie delle forze di polizia hanno avuto “finalità punitive” e sono state una vera e propria “rappresaglia, per provocare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime”. La Corte ha dunque statuito che il ricorrente fosse stato vittima di atti di tortura e ha invitato l’Italia a risolvere il problema strutturale della mancanza di una specifica figura di reato, tramite l’introduzione di una norma che colmi l’inadeguato vuoto normativo.

L’avvio di un tormentato iter legislativo volto all’introduzione del reato in esame, ad oggi non ha visto la sua conclusione. Il progetto di legge sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale permetterebbe l’introduzione della nuova figura di reato, punibile con reclusione dai 4 ai 10 anni. Le pene previste dal ddl sono diverse a seconda che il fatto sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con aggravanti che a seconda dei casi possono portare alla reclusione da 5 a 12 anni. Se dal fatto deriva la morte «quale conseguenza non voluta», la pena è la reclusione a trent’anni. Se la morte è causata da un atto volontario, la pena è l’ergastolo.

Un altro monito all’Italia è quello provenuto dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che ha ritenuto insufficienti le misure prese per dare esecuzione alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti umani sul caso Cestaro del 2015. Un vuoto normativo che si rende sempre più inadeguato e che viola le istanze di tutela dei cittadini, lasciando impuniti gli autori di questi crimini che tutta la comunità internazionale considera giustamente profondamente lesivi della dignità umana e in palese violazione dell’art 3 della Convenzione europea dei diritti umani che sancisce l’espresso divieto di commettere atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti. C’è l’auspicio che il legislatore porti a compimento l’iter legislativo che da troppo tempo è fermo in Parlamento in attesa di giungere a conclusione.

Anna Giusti

Anna Giusti studia Giurisprudenza presso l'Università di Napoli Federico II. Attualmente svolge un tirocinio presso il Consolato Generale degli Stati Uniti di Napoli. La collaborazione con Ius in itinere nasce dalla volontà di coniugare la sua grande passione per la scrittura al percorso di studi. Collaborare per l'area di diritto internazionale le permette di approfondire le tematiche che hanno da sempre suscitato maggiore interesse in lei, ovvero il diritto internazionale penale, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti umani, il diritto dell'Unione Europea. Appassionata di viaggi, culture e letterature straniere, si è da sempre dedicata allo studio dell'inglese e del francese.

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