giovedì, Aprile 18, 2024
Di Robusta Costituzione

Tra giudicato costituzionale e sentenze interpretative di rigetto. Verso la configurazione di una “nomofilachia costituzionale”?

a cura di Francesco Fonte

 

  1. Introduzione: inquadramento della categoria del giudicato costituzionale

La presente trattazione attiene al profilo, al giorno d’oggi marginale rispetto all’attenzione della dottrina, concernente la configurabilità in concreto del giudicato Costituzionale rispetto alla categoria delle sentenze interpretative di rigetto[1].

Questa prospettiva viene tradizionalmente rigettata dalla dottrina[2], primariamente a partire dalla chiarezza del dettato costituzionale nel senso di potersi desumere la sola disciplina a partire dal tenore letterale della stessa di casi di accoglimento della questione e non quelli concernenti il rigetto delle prospettive fornite dal giudice a quo, nella misura in cui all’art. 136, primo comma Cost. prescrive “quando la corte dichiara l’illegittimità di una norma di legge o di atto avente forza di legge la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della decisione”.

Si argomenta conseguentemente al dato normativo che, in nome del generale principio secondo il quale non possa costituirsi giudicato allorquando si sia in presenza di una sentenza di rigetto, stante la natura propriamente processuale della decisione e dal momento che risulta tesa all’espletamento di una funzione di accertamento piuttosto che, assieme ad essa, all’attribuzione di un “bene della vita”[3] riferibile alla funzione del giudizio in corso, sarebbero verificate pacificamente le circostanze summenzionate.

Si può conseguentemente inferire che la sola conseguenza tipica discendente dal deposito della sentenza della Corte nel senso dell’inammissibilità ovvero dell’infondatezza delle questioni prospettate nell’ordinanza di rinvio dal giudice a quo, risiede nell’impossibilità di riproporre la medesima questione nel giudizio pendente[4].

In riferimento a siffatta preclusione, i parametri, elaborati in via pretoria dal giudice delle leggi intesi nel senso della funzionalità alla valutazione del sopracitato profilo si possono desumere a partire dalle pieghe argomentative della Sentenza 225/1994, nella misura in cui, richiamando precedenti decisioni che attengono al profilo che si va commentando[5], nega l’operatività del principio preclusivo[6] del ne bis in idem allorquando si verifichi l’identità dei tre elementi costitutivi dell’eccezione di incostituzionalità, rappresentati dalle norme impugnate, dai diversi dedotti profili di contrarietà a Costituzione e con il decisivo riferimento alle argomentazioni dedotte a sostegno della rilevanza così come della non manifesta infondatezza dell’eccezione[7], quale fattore discretivo ai fini della valutazione dei caratteri sopracitati.

Del resto le sentenze interpretative di rigetto hanno subito un forte mutamento a partire dall’originaria soluzione secondo la quale dovessero costituire un’alternativa alla più strette decisioni di semplice accoglimento ovvero di rigetto, nell’intenzione di finalizzare il loro utilizzo al superamento di un consolidato diritto vivente ritenuto non conforme a Costituzione sotto il profilo ermeneutico così come ai fini del suggerimento di un interpretazione che risulta di difficoltosa derivazione in via interpretativa dal dato testuale delle disposizioni impugnate[8].

 

Rinviando alla copiosa produzione scientifica attinente all’efficacia delle sentenze rispetto al giudizio a quo, la presente analisi si prefigge di analizzare il particolare rapporto tra le sentenze interpretative di rigetto e il legislatore nell’esercizio della propria attività costituzionalmente presidiata, ossia l’attività legislativa[9].

 

  1. Le sentenze interpretative di rigetto tra Corte Costituzionale e legislatore

Sul piano dei rapporti tra giudice delle leggi e legislatore statale, un caso paradigmatico è costituito dalla Sentenza 28/2003, nella misura in cui la Corte si vedesse attribuito il gravame di giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 1, secondo comma, della legge 21/2000, nel senso di dichiarare il ricorso, in ispecie avanzato dalla Provincia autonoma di Trento non fondato[10], nella misura in cui risultasse vincolante quanto affermato nella sentenza 502/2000, in quanto, pur integrando la categoria della sentenza interpretativa di rigetto, è risultata costituire il parametro giurisprudenziale di riferimento per la risoluzione della controversia, affermando di fatto l’efficacia propria del consolidamento del giudicato costituzionale[11] in capo ad una categoria processuale sulla quale la dottrina (cfr. supra) si era dimostrata restia ad aperture[12], del resto giustificate a partire dal tenore letterale dell’art. 136 della Costituzione, contemplativo del solo caso delle decisioni di accoglimento in riferimento all’efficacia erga omnes della decisione e pertanto della configurazione della categoria del giudicato costituzionale.

Ne consegue un difficile inquadramento degli effetti della sentenza interpretativa di rigetto nell’ambito degli effetti limitativi della discrezionalità propria del legislatore statale.

Nel merito di siffatta problematica è intervenuta la Corte Costituzionale con la Sent. 196/2004, nella quale si ritenevano prive del carattere della fondatezza le eccezioni di incostituzionalità per violazione del giudicato costituzionale di disposizioni di legge in contrasto con precedenti decisioni e affermazioni del giudice delle leggi con riferimento ad altri atti di natura legislativa[13], non potendosi ritenere contemplabile detta circostanza entro la fattispecie delineata dall’art. 137, terzo comma della Costituzione.

L’eventuale considerazione, da parte del legislatore statale, di ciò che emerge dalle sentenze interpretative di rigetto potrebbe risiedere in un generale principio di collaborazione che deve informare l’azione dei due organi nel sistema delineato dalla Costituzione, considerato, tra gli altri, dalla dottrina, con riferimento alla celebre vicenda concernente la sentenza Cappato[14].

Si può in questa sede richiamare l’assunto di un autorevole dottrina nel senso di intendere la garanzia giurisdizionale della costituzione e la tutela dei diritti fondamentali, attività propria del legislatore statale, ascrivibile ad un unico sistema[15], rispondente dell’esigenza dello stato di diritto di presidiare la durevolezza dell’ordinamento delineato dalla carta fondamentale

Stante la valenza sistemica del principio di leale collaborazione con attinenza ai meccanismi concernenti le garanzie costituzionali ne conseguenze che è per l’appunto in questa direzione che l’efficacia delle sentenze interpretative di rigetto può ritenersi riferita all’ambito della discrezionalità del legislatore statale.

 

A fronte delle considerazioni sopra svolte, risulta precluso affermare il carattere vincolante del giudicato costituzionale in materia di sentenze interpretative di rigetto per le ragioni esposte a partire dalla dottrina citata[16], così come asserire una necessaria ed automatica conformazione alle affermazioni contenute nelle sentenze interpretative di rigetto da parte del legislatore statale.

Corollario di questa circostanza può a rigore dirsi la compatibilità tra quanto affermato dal giudice delle leggi in sede di redazione della sentenza e la libera determinazione del contenuto degli atti legislativi che il legislatore è chiamato ad effettuare all’atto del bilanciamento degli interessi coinvolti. Ne deriva che la Corte Costituzionale potrebbe determinare previamente gli orientamenti legislativi del parlamento a partire da quanto sostenuto nelle decisioni, palesando un evidente menomazione del generale principio della separazione dei poteri.

La sopracitata soluzione adottata dalla Corte Costituzionale con la Sent. 28/2003 non risulta, nonostante l’assunzione a parametro interpretativo della decisione precedente, ossia la Sent. 502/2000, espressiva di una totale vincolatività della sentenza interpretativa di rigetto nei confronti della discrezionalità del legislatore, in quanto non avrebbe risolto un conflitto che si potesse considerare tra atti legislativi ma decidendo nel senso della risoluzione della questione di legittimità in un generale richiamo alle norme costituzionali attributive di competenze, con la conseguenza che dal punto di vista dell’adozione di questa tecnica argomentativa, la Corte possa collocarsi nel solco della tradizionale tecnica di argomentazione inferenziale, intendendosi per tale il procedere argomentativo delle Corti nel senso di proporre a conforto delle loro tesi taluni richiami della loro precedente giurisprudenza.

 

  1. La “Nomofilachia costituzionale”

Risulta pertanto argomentabile la posizione secondo la quale si potrebbe configurare una funzione nomofilattica in capo alla Corte Costituzionale[17]. Ben consci dell’accezione propria della nomofilachia, intesa come funzione uniformante nell’interpretazione del diritto propria della Corte di Cassazione in quanto suprema giurisdizione ordinaria di legittimità, a fronte delle prospettive evocate dalla dottrina sopracitata la funzione nomofilattica risulta un elemento proprio della dialettica che intercorre tra la Suprema Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale[18].

Siffatta assunzione si riferisce al consolidamento interpretativo che è principiato con la Sent. 3/1956 della Corte Costituzionale, nella misura in cui la consulta statuisca che nell’ambito dell’argomentazione delle proprie sentenze, pur riconoscendo l’autonomia interpretativa e di giudizio propria del supremo organo di garanzia dei principi della Carta[19] quale è la Corte, essa non può non tenere in considerazione gli orientamenti interpretativi della Suprema Corte di Cassazione che configurino “una costante interpretazione giurisprudenziale che conferisca al precetto legislativo un effettivo valore nella vita giuridica”[20].

È proprio a partire dagli assunti che emergono in questo senso dalla dialettica tra la Corti e tenendo in considerazione la forte crisi che le fattispecie normative stanno affrontando, così come evidenziato da un autorevole dottrina[21], che la funzione della Corte Costituzionale in senso persuasivo rispetto all’attività del legislatore deve essere valorizzata ma tuttavia con la perpetua considerazione del rispetto della chiarezza del dettato costituzionale in materia di effetti delle sentenze della stessa. Ne consegue la possibilità di affermare che la Consulta, all’atto di richiamare il diritto vivente, inteso quale modo di applicazione maggioritario della disposizione al caso concreto[22], possa determinare la riaffermazione della funzione nomofilattica della Corte di legittimità nell’ambito del percorso argomentativo delle proprie decisioni. Quando la funzione nomofilattica è concepita nella sua accezione tradizionalmente attribuita alla corti di legittimità certamente non potrà dirsi riferibile al legislatore se non assumendo rilevanza sotto il profilo della discrezionalità propria dello stesso costituzionalmente presidiata, mentre in riferimento alla riaffermazione del consolidamento interpretativo da parte della consulta, stante il carattere sistemico delle sentenze della stessa, l’affermazione di un diritto vivente risulterà, quand’anche in sede di rigetto delle questioni prospettate dal giudice ovvero dalle amministrazioni, pienamente inscritta in una logica ispirata dal suddetto valore persuasivo rispetto all’attività del legislatore. Questa affermazione, in termini differenti propria di una logica prettamente metagiuridica, troverebbe per l’appunto riscontro nell’ambito della summenzionata vicenda giurisprudenziale che ha riguardato le sentenze n. 502/2000 e 23/2003 della Corte Costituzionale, nella quale il già ricordato richiamo alla sentenza precedente porta ad affermare il ricorrere di siffatta circostanza. In ultima analisi occorre tuttavia affermare il carattere imperituro della discrezionalità propria del legislatore nell’ottica di confermare l’efficacia non vincolante delle sentenze interpretative di rigetto.

[1] Ex multis E. Furno, “Giudicato Costituzionale”, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, 2019, Utet; così come rilevato nel citato contributo, il quale si perita di fornire una prospettiva di natura ricostruttiva rispetto alle diverse sensibilità della dottrina in merito alla qualificazione del giudicato costituzionale. Ne emerge in ogni caso la comune assunzione che il giudicato costituzionale si presenti come il modo d’essere delle declaratorie di incostituzionalità

[2] E. Furno, op. cit., 215.

[3] Si fa riferimento alla tradizionale nozione del Chiovenda, “cosa giudicata e preclusione”, in Saggi di diritto processuale civile, rist. 1993, pp. 213 ss., relativamente alla circostanza secondo la quale le decisioni di natura processuale, come tradizionalmente ritenute le sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale, una volta depositate o pubblicate (infra) configurano esclusivamente un giudicato di natura formale, derivandone la sola preclusione concernente l’impossibilità di proporre ulteriormente, nel giudizio in corso, la medesima eccezione d’incostituzionalità, come ricordato in Furno, op. cit, p. 216; per quanto attiene al profilo concernente il momento dal quale decorrono gli effetti della sentenza si rimanda, a titolo generale e senza alcuna pretesa di esaustività a V. Crisafulli, L. Paladin, rev. Bartole-Bin, “Commentario breve alla Costituzione”, sub. art. 136 Cost, CEDAM, 2008.

[4] E. Furno, op. cit., p. 215; sub. 2.

[5] Punto 4 del “Considerato in diritto”, ove la corte richiama le Sentt. 257/1991 e 55/1968.

[6] Per un inquadramento della categoria della preclusione, si rinvia a A. Carratta, “il fondamento del principio di preclusione nel processo civile”, in “il principio di preclusione nel processo penale”, pp. 9-34, Giappichelli, Torino.

[7] Punto 4 “considerato in diritto” della citata sentenza 225/1994.

[8] R. Romboli, Verso un “nuovo” utilizzo delle decisioni interpretative, in “Quaderni costituzionali, Rivista italiana di diritto costituzionale” 3/2007, pp. 591-593.

[9] Intendendo per tale quella che può desumersi a partire dalle disposizioni di cui agli artt. 70 ss. Cost.

[10] Per un profilo ricostruttivo della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Provincia autonoma di Trento si rinvia al testo delle Sentt. 28/2003 e 502/2000, così come rilevato in A. Lollo, “il giudicato costituzionale nella giurisprudenza della Corte, i giudizi in via principale”, in rivista Aic, fasc. 1/2012.

[11] A. Lollo, op. cit., p. 5

[12] A titolo esemplificativo G. Zagrebelsky, Giustizia Costituzionale, 1988, da notarsi in ogni caso la rilevanza della circostanza secondo la quale la Corte abbia inferenzialmente utilizzato un precedente per giustificare il percorso argomentativo in relazione alla diversamente non provabile violazione di giudicato del legislatore per violazione del contenuto ritenuto vincolate nelle pieghe argomentative della sentenza 502/2000.

[13] Punto 25 del “Considerato in diritto”.

[14] Si fa riferimento a Corte Cost. 242/2019. Nell’ambito della copiosa letteratura che ha interessato il caso Cappato, si rinvia ai fini della presente analisi a N. Zanon, “I rapporti tra la Costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali”, in “Un riaccentramento del giudizio costituzionale? In Federalismi, 27 gennaio 2021. Così come affermato nel citato contributo, per quanto attiene alla vicenda della doppia pronuncia, essa risulterebbe inquadrabile entro una forma di legislazione coartata che la Corte Costituzionale ha imposto al legislatore con la finalità di ottenere l’ottemperanza del monito contenuto nella prima pronuncia, considerando che la vicenda in questione ha configurato il noto caso della doppia-pronuncia determinata dall’inerzia del legislatore ad ottemperare al monito.

[15] G. Silvestri, “Lo stato di diritto nel XXI secolo”, in Rivista AIC, fasc. 2/2011.

[16] Sub. note a margine 1-4.

[17] E. Furno, op. cit., p. 217, nel quale si rimanda a D’Atena, “Lezioni di Diritto Costituzionale”, Giappichelli, Torino, 2014.

[18] L. Salvato, “La nomofilachia nella dialettica tra Corte Costituzionale e Corte di cassazione”, testo scritto dell’intervento al convegno “La nomofilachia nella dialettica Sezioni Semplici-Sezioni Unite e Cassazione-Corte Costituzionale, in “Forum di Quaderni Costituzionali”, 2018.

[19] Da ultimo si è pronunciato nel merito, a titolo esortativo, S. Mattarella, “messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del giuramento innanzi al Parlamento in Seduta Comune”, Roma, 2022.

[20]Si rimanda per quanto attiene al caso di specie al testo della pronuncia sopracitata al testo della sentenza 3/1956 della Corte Costituzionale.

[21] N. Irti, “Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie”, in Rivista di diritto e procedura civile, Giuffrè, 2014, pp. 987 ss.

[22] Sul punto si richiama la teoria prospettata da Luigi Mengoni nella misura in cui questa dottrina ritenga maggiormente rilevante dal punto di vista metodologico ai fini dell’analisi del diritto vivente il momento applicativo piuttosto che il dato della ricorrenza, definendolo egli stesso diritto “applicato”. Si rimanda ad un contributo nel merito in L. Mengoni, “diritto vivente”, in Jus, Vita e Pensiero, fasc. 1/1988.

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