giovedì, Novembre 7, 2024
Criminal & Compliance

Tra pericolosità sociale e non imputabilità

A cura di: Avv. Roberto Tedesco

L’art. 85 c.p. determina i criteri di imputabilità dell’illecito e la conseguente punibilità del soggetto, affermando che: «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere». Ciò significa che è punibile solo colui che, al momento di commissione del fatto, aveva la capacità di volere, per tale intendendosi la facoltà di una persona ad autodeterminarsi liberamente e autonomamente; e la capacità di intendere, cioè l’attitudine a comprendere il significato del proprio comportamento e le conseguenze che questo può avere nella realtà esterna[1].

A questo punto, potrebbe sorgere un dubbio, di natura quasi morale, ma che in realtà trova la sua esatta corrispondenza proprio nelle previsioni normative. Cosa succede di fronte al soggetto che, considerato dalla legge non imputabile al momento di commissione del fatto, commette un reato particolarmente efferato? Che sconfina i limiti dell’umana tolleranza? La previsione di cui all’art. 85 c.p. ne esclude la punibilità e ciò potrebbe non essere sufficiente a scongiurare il pericolo di una futura commissione dello stesso reato o di una reato della stessa natura. È vero, infatti, che i soggetti che commettono reati quali, ad esempio, omicidio, incendio doloso o violenza sessuale manifestano una natura che necessita di essere in qualche modo “frenata”,  per evitare che quanto accaduto ricapiti nuovamente in futuro. Tale problema, pertanto, si pone al di là del fatto che questi soggetti siano non imputabili.

Proprio in virtù di considerazioni come queste, è nato nel sistema penale italiano il sistema del c.d. “doppio binario”. Si tratta, in sintesi, di un sistema fondato su due sanzioni: la pena e la misura di sicurezza. Mentre la pena ha come presupposto la colpevolezza e quindi tutti gli elementi soggettivi su cui si fonda la responsabilità penale, la misura di sicurezza presuppone la pericolosità sociale, ovvero, un giudizio di prognosi effettuato sul soggetto che permetterebbe di capire se, in futuro, questi sia in grado di commettere altri reati[2].

Nasce così il concetto di pericolosità sociale. A tal fine, il legislatore ha inserito nel codice penale l’art. 203 che recita: «Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133».

Grazie all’introduzione di questo articolo diventa più chiaro che cosa si intenda per “pericolosità sociale”, presupposto per l’applicazione delle misure di sicurezza. La pericolosità sociale è la probabilità di commissione di nuovi reati. Per effettuare una valutazione di tal genere e per evitare che il giudizio sia totalmente evanescente ed arbitrario, il legislatore rimanda all’art. 133 c.p.. Attraverso i parametri di cui all’art. 133 c.p., infatti, il Giudice deve essere in grado di compiere una prognosi criminale, sottolineando in particolare l’aspetto preventivo in una proiezione futura. Il Giudice, in sintesi, deve ricostruire il quadro generale della personalità del reo e, sulla base di un giudizio intuitivo, formulare una prognosi criminale[3].

Dalla descrizione sopra effettuata, appare chiaro che quando si parla di pericolosità sociale si va oltre il fatto che il soggetto in questione sia non imputabile; invero, una delle caratteristiche proprie della pericolosità sociale è l’irrilevanza della imputabilità o punibilità del soggetto. Ciò che si mette in evidenza, pertanto, non è se il soggetto al momento di commissione del fatto era capace di intendere e di volere, ma al contrario cosa è emerso in termini di valutazione dei personalità con la commissione di quel particolare reato. In dottrina c’è chi sostiene che, con la valutazione dell’individuo al momento di commissione del reato, è come se avvenisse una scissione dello stesso in due parti: una razionale, capace di comprendere il suo comportamento e le relative conseguenze; l’altra, invece, “pericolosa”, che si abbandona agli stimoli[4].

Nondimeno, per i soggetti non imputabili ma pericolosi socialmente la sede in cui scontare la misura di sicurezza[5] è ben diversa rispetto a quella in cui scontare la pena.

A questo punto, è opportuna una considerazione. Per quanto è stato scritto fino a questo momento, sembra che il concetto di pericolosità sociale abbia assunto connotati distanti dalla concezione di diritto penale studiata nei libri di scuola, cioè quella che punisce il colpevole per quello che ha fatto e non per quello che farà[6]. In particolare, dalla previsione normativa sembra discendere che con il nuovo concetto di pericolosità sociale e la nuova attenzione alla personalità del reo trascendano i canoni del diritto penale, in quanto per l’applicazione della misura di sicurezza si tralascia ogni considerazione sugli avvenimenti ed elementi che compongono la fattispecie. Essa ha, infatti, origine da un pregiudizio sull’autore del reato che lo considera naturalmente incline alla delinquenza.

Il puntum dolens risiede proprio in questo, nella valutazione di un soggetto non per quello che ha fatto ma per la sua condotta di vita[7], con l’evidente conseguenza che il giudizio sulla sua pericolosità sociale risulterà essere puramente  soggettivo, perdendo qualsiasi elemento di scientificità.

Sul punto, in realtà viene opportunamente ricordato[8] che il legislatore ha inserito nel codice di procedura penale, all’art. 220 c.p.p., il divieto di perizie «per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche» (co. 2). Con tale previsione, è stato fatto divieto al Giudice di ricorrere ad esperti in psicologia o psichiatria per valutare la personalità dell’imputato (a meno che non sia presente un disturbo patologico), la quale dovrebbe essere oggetto esclusivamente di in giudizio basato su criteri oggettivi.

Considerando l’ottica di cui si stava discutendo, è chiaro che tale previsione abbia assunto un ruolo rilevante. Se tale divieto non fosse previsto, invero, il Giudice sarebbe inevitabilmente portato a tenere in considerazioni le risultanze dei colloqui con gli psicologi e psichiatri, finendo per giudicare la sola personalità del soggetto, prescindendo del tutto dagli elementi oggettivi della fattispecie di reato. In definitiva, quindi, il Giudice non deciderebbe solo sulla base dei fatti emersi e provati durante il processo ma sarebbe inevitabilmente influenzato anche dalle mere intenzioni dell’individuo[9].

Il rischio consequenziale di un tale scenario è evidente. Qualora il giudizio dell’Autorità si ancorasse all’intenzione, ciò significherebbe spostare l’attenzione sulla mera potenzialità della condotta offensiva anziché sulla sua attualità. Così facendo sarebbe violato un principio irrinunciabile del diritto penale, secondo cui il semplice pensiero non può essere punito fino a quando non si traduca in una condotta esteriore[10].

In conclusione, si può affermare che il concetto di pericolosità sociale è di fondamentale importante in una realtà dove il non imputabile può comunque porre in essere reati di natura violenta, i quali mettono in luce che tale individuo non può essere lasciato a se stesso. D’altra parte, non si può sfuggire dalle considerazioni sopra svolte, le quali rendono di tutta evidenza l’evanescenza dei confini della pericolosità sociale. In accordo alla ratio intrinseca del codice penale, infatti, non si dovrebbe arrivare a punire la persona per quello che si ritenga sia, ma solo per quello che ha fatto. Altrimenti, il rischio è quello di oltrepassare i limiti della legalità, sfociando in libere valutazioni che non hanno, in maniera assoluta e definitiva, un fondamento scientifico.

Da ciò non deriva l’espunzione del concetto di pericolosità sociale dal nostro ordinamento, ma “semplicemente” la necessità di individuare quel fondamento scientifico che oggi è del tutto assente. In questo senso, rimane imprescindibile per il Giudice la collaborazione dei periti psicologi, criminologi e psichiatri, dal momento che la prognosi criminale è uno strumento indispensabile. È doveroso, però, che (anche in accordo col divieto di cui all’art. 220 c.p.) si tratti di collaborazione e questa non si trasformi in indebita assunzione di responsabilità da parte degli esperti, finendo quasi per delegittimare il ruolo e le responsabilità proprie del Giudice. Al contrario, il metodo utilizzato deve essere potenziato attraverso un progressivo affinamento dei criteri e delle metodologie, diventando il risultato di una maggiore integrazione tra le conoscenze teoriche e le verifiche empiriche.

 

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[1] Per un maggiore approfondimento, si rimanda a quest’articolo.

[2] M. Argenio, Il fondamento incerto della pericolosità sociale, in www.diritto.it, 31 gennaio 2018.

[3] Cass. Pen., Sez. I, 18 novembre 2010, n. 40808.

[4] P. Nuvolone, Il rispetto della persona umana nell’esecuzione della pena, in Trent’anni di diritto e procedura penale, I, Padova, 1969, p. 296.

[5] Per una più ampia disamina sul tema, si rimanda a quest’articolo.

[6] G. Balbi, Infermità di mente e pericolosità sociale tra OPG E REMS, in www.penalecontemporaneo.it, 20 luglio 2015, pp. 7-8.

[7] U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, Torino, 2008, p. 55 ss.

[8] M. Argenio, Il fondamento, ibi.

[9] A. Rossano, in Commentario al Codice di Procedura Penale, a cura di A. Giarda e G. Spangher, sub art. 220 c.p.p., Milano, 2007, p. 1567 ss.

[10] F. Eramo, Il divieto di perizie psicologiche nel processo penale: una nuova conferma della Cassazione, in Dir. pen. proc., VII, 2007, p. 933.

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