mercoledì, Novembre 13, 2024
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Ucraina-Russia: i ricorsi interstatali presentati in Corte EDU

Il braccio di ferro tra Federazione Russa ed Ucraina è stato oggetto di svariati ricorsi intestatali portati dall’Ucraina di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a causa delle incessanti violazioni del diritto internazionale perseguite dalle truppe russe nella penisola di Crimea, formalmente annessa dalla Federazione. Tale status non è però riconosciuto dalla comunità internazionale in quanto formatosi in violazione inter alia delle norme sull’autodeterminazione.

Premesse storiche

La penisola riveste, da sempre, un ruolo chiave nelle tensioni tra Ucraina e blocco sovietico, grazie alle risorse minerarie, nonché alla posizione geopoliticamente strategica, costituendo il Porto di Sebastopoli il principale punto di ingresso russo nel Mar Mediterraneo. Il trasferimento dell’Oblast (la ‘provincia’) di Crimea nella Repubblica Socialista Ucraina da parte del leader sovietico Nikita Chruscev nel 1954, effettuato per commemorare i trecento anni dal trattato sancente l’unione con la Russia, costituì un formale passaggio di giustizia amministrativa. Tuttavia, a molti esperti e dirigenti sovietici, ciò parve un clamoroso faux pas politico, considerati i forti legami che persistevano con Mosca (basta ricordare che oltre l’80% della popolazione era – ed è tutt’oggi – di provenienza russa).

La Penisola si proclamò indipendente in seguito alla caduta del blocco sovietico nel 1992. Tale autonomia non fu tuttavia piena, in quanto permise alla Crimea di mantenere stretti legami con la Federazione.

L’avvicinamento politico dell’Ucraina al blocco occidentale (Americano e Comunitario) provocò la resistenza, con gruppi paramilitari, della popolazione russa di Crimea, nonché l’intervento stesso della Russia, la quale ha reso così il conflitto da insurrezionale a internazionalizzato.

L’intervento di forze militari irregolari nella Penisola (giustificato, secondo il leader sovietico Putin, dal dovere di protezione del gruppo etnico russo in Crimea in virtù del principio internazionalistico di responsability to protect), congiuntamente alla violazione di obblighi pattizi, è stato definito come “aggressione indiretta da parte delle Nazioni Unite.

Nel febbraio del 2014, con la caduta del presidente filorusso Viktor Ianukovich e la presa del potere da parte dell’opposizione nazionalista e filo-europea, il Parlamento della Crimea decise di indire un referendum per chiedere un maggiore allontanamento dall’Ucraina. L’oggetto del referendum (posposto al 16 marzo 2014) , dapprima incentrato su un mero distacco da Kiev, è stato variato successivamente in una vera e propria adesione alla Federazione Russa, opzione che ha ottenuto ben il 96% dei consensi e che è stata formalizzata dal presidente russo Putin.

La comunità e le istituzioni internazionali hanno reagito all’annessione de facto imponendo sanzioni economiche alla Russia e dichiarando “invalido” il referendum tenutosi tramite una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, convocato dall’Ucraina. Il referendum ha, infatti, violato non solo la Costituzione ucraina, la quale si basa sul principio di unità ed integrità territoriale, ma anche tutti i requisiti procedurali richiesti dal diritto internazionale: un negoziato tra tutte le parti, un voto a suffragio universale e un controllo da parte di osservatori esterni. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha invece intimato gli Stati, con la risoluzione 68/162, a non riconoscere lo status della Crimea datole dalla Russia (non sorprende che tale risoluzione non sia derivata dal Consiglio di Sicurezza, il quale – a differenza dell’Assemblea – gode della vincolatività delle sue risoluzioni).

I ricorsi interstatali 

Le sanzioni imposte dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite a seguito del referendum, lo scontento generale da parte dell’Ucraina che si è vista “sottrarre” un’appendice di territorio cardine per i commerci e gli scambi, le resistenze russe, nonché le rivendicazioni dell’etnia Tatara hanno generato conflitti che si sono acuiti fino a convertirsi in una vera e propria guerriglia, costante e diffusa, a danno non solo di militari, ma anche di civili residenti nella penisola.

Proprio queste minacce incessanti hanno provocato nel corso degli ultimi anni la presentazione, da parte del governo Ucraino, di numerosi ricorsi interstatali – riducibili a quattro “filoni” principali – di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

A tal proposito è importante notare come l’art. 33 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (firmata dai 47 Stati membri del Consiglio d’Europa – tra i quali Ucraina e Federazione Russa) sancisca che “ogni Alta Parte contraente può deferire alla Corte qualunque inosservanza delle disposizioni della Convenzione e dei suoi Protocolli che essa ritenga possa essere imputata a un’altra Alta Parte contraente”, senza quindi che il ricorrente si pretenda vittima di una violazione della Convenzione (requisito che deve essere soddisfatto, invece, nel caso di ricorso individuale, previsto dall’art. 34 della Convenzione)[1]. Senza questo requisito di carattere ‘oggettivo’ lo Stato Ucraino non avrebbe avuto infatti titolo per proporre tali ricorsi intestatali.

Il primo ricorso e le interim measures

Un primo ricorso fu presentato dall’Ucraina il 13 marzo 2014 al fine di ottenere una interim measure (ovvero una misura cautelare) così come prevista dalla Rule 39 del Regolamento della Corte EDU, secondo cui “la Camera o, se del caso, il suo presidente può, su istanza di parte o dei terzi interessati oppure d’ufficio, indicare alle parti le misure cautelari che ritiene debbano essere adottate nell’interesse delle parti o della corretta conduzione del procedimento“. Tale provvedimento è tuttora in vigore, e ha il fine di intimare tanto al Governo Russo, quanto a quello Ucraino, di astenersi dall’applicare misure – in particolare, azioni militari – che possano in qualche modo minacciare la vita e la salute della popolazione civile del territorio Ucraino. Ciò in considerazione del fatto che l’allora corrente situazione dava origine a continui rischi di gravi violazioni della Convenzione Europea, in particolare dell’art. 2 (diritto alla vita) e dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti).

I provvedimenti cautelari adottati dalla Corte sono volti a salvaguardare i diritti che la CEDU riconosce ai singoli individui nel caso in cui vi siano fondati motivi di ritenere che tali diritti siano esposti al rischio imminente di una violazione grave ed irreparabile da parte di uno o più Stati contraenti – da che si evince che gli unici beneficiari di tali misure siano gli individui, e non gli Stati che ne hanno richiesto l’adozione. Tuttavia, occorre rilevare come la trasmissione agli Stati destinatari dei provvedimenti cautelari di una lettera con la quale essi sono invitati genericamente ad assicurare il rispetto dei propri impegni convenzionali non può certo considerarsi soddisfacente e rischia di apparire del tutto pleonastica, affievolendo l’autorevolezza dell’intervento cautelare, tanto più se da esso si intendano far discendere effetti giuridicamente obbligatori. Purtroppo, le enormi difficoltà organizzative cui la Corte deve attualmente far fronte nella gestione del contenzioso portano ad escludere, almeno nel prossimo futuro, qualsiasi prospettiva di cambiamento[2].

Il deferimento alla Grande Camera

Ritornando all’esame della controversia in atto tra Russia ed Ucraina, il 9 maggio 2018 la Camera in composizione di sette giudici della Corte Europea ha deciso di deferire il caso alla Grande Camera in composizione di diciassette giudici, con riguardo a quattro ricorsi interstatali promossi dall’Ucraina [3].

Il governo di Kiev lamentava, in particolar modo, come le truppe russe esercitassero un controllo effettivo sulla Crimea e sulle regioni di Donetsk e Luhansk e violassero, rispettivamente, gli artt. 2, 3, 5, 6, 8, 9, 10, 11, 14, 18 della Convenzione. Le accuse a carico della Russia erano, infatti, numerose:

  • Scomparsa di attivisti dell’opposizione
  • Morti, torture e maltrattamenti di civili e militari giornaliere dovute all’uso illegittimo della forza da parte di gruppi armati russi
  • Rapimento e detenzione in qualità di ostaggi di autorità religiose
  • Inoperatività di canali televisivi e di comunicazione Ucraini
  • Restrizioni alla libertà dei giornalisti
  • Illecite espropriazioni
  • Discriminazione dell’etnia Tatara

L’intervento interstatale più recente risale invece al 29 novembre 2018[4] e concerne la richiesta da parte del governo Ucraino alla Corte di adottare un’ulteriore interim measure nell’interesse dei 24 marinai della Marina Ucraina catturati nelle acque del Mare di Azov e dello stretto di Kerch il 25 novembre 2018. Ad oggi, risulta che la Corte abbia inoltrato alla Federazione Russa una misura cautelare volta a garantire adeguate cure e degne condizioni sanitarie al personale navale ucraino detenuto e ferito.

La stabilità della Repubblica Autonoma di Crimea è oggi preda di ben sette ricorsi pendenti presentati dall’Ucraina, più di 4.000 ricorsi individuali legati ai disordini in Crimea e in Ucraina Orientale, nonché di conflitti che ne minacciano la sicurezza: un quadro  che non lascia spazio di manovra ad interventi umanitari, né speranze di una cessazione permanente delle violenze.

[1] A. Giusti, Corte EDU: tutela ed evoluzione dei diritti umani fondamentali

[2] A. Saccucci, Le misure provvisorie della Corte europea dei diritti umani nell’ambito della procedura di ricorso interstatale Georgia c. Russia

[3] Ciò è stato possibile in virtù dell’art. 30 della Convenzione, secondo cui “Se la questione oggetto del ricorso all’esame di una Camera solleva gravi problemi di interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o se la sua soluzione rischia di dar luogo a un contrasto con una sentenza pronunciata anteriormente dalla Corte, la Camera, fino a quando non abbia pronunciato la sua sentenza, può rimettere il caso alla Grande Camera a meno che una delle parti non vi si opponga”.

[4] Application no. 55855/18, Ukraine v. Russia (VIII)

 

Copyright foto Washington Examiner

Silvia Casu

Silvia Casu, nata a Varese nel 1995, ha conseguito il diploma di maturità in lingue straniere nel 2014, che le ha permesso di avere buona padronanza della lingua inglese, francese e spagnola. Iscritta al quinto anno preso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano Statale, ha sviluppato un vivo interesse per la materia internazionale pubblicistica e privatistica, nonché per la cooperazione legale comunitaria, interessi che l'hanno portata nel 2017 ad aprirsi al mondo della collaborazione nella redazione di articoli di divulgazione giuridica per l'area di diritto internazionale di Ius in Itinere. Attiva da anni nel volontariato e nell'associazionismo, è stata dal 2014 al 2018 segretaria e co-fondatrice di un'associazione O.N.L.U.S. in provincia di Varese; è inoltre socio ordinario dell' Associazione Europea di Studenti di Legge "ELSA" , nella sezione locale - Milano.

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