giovedì, Marzo 28, 2024
Di Robusta Costituzione

Un cambio di passo nel diritto di famiglia: l’ordinanza n. 18/2021 della Corte costituzionale

A cura di Giulia Sulpizi

Un cambio di passo nel diritto di famiglia: l’ordinanza n. 18/2021 della Corte costituzionale e la questione della trasmissione del cognome materno

  • Introduzione

 

Com’è noto, la disciplina del diritto di famiglia – con particolare riferimento ai rapporti tra coniugi e tra genitori e figli – ha subìto, a partire dal secondo dopoguerra, numerosi mutamenti.

È, infatti, in primo luogo la Costituzione del 1948 ad affermare – nella sua Parte I, Titolo II, attinente ai “Rapporti etico-sociali” – principi quali l’uguaglianza, “morale e giuridica”, tra marito e moglie[1] e il diritto-dovere, del padre come della madre, di mantenere, istruire ed educare la prole, anche se nata al di fuori dal matrimonio[2].

Già queste disposizioni rappresentano, all’indomani della nascita della Repubblica, una fondamentale innovazione nel panorama giuridico italiano, ancorato ad un modello di società patriarcale, che ben trovava una sua espressione nelle previsioni del codice civile[3]. In particolare, occorre segnalare che la famiglia era ordinata secondo una concezione gerarchica, che attribuiva all’uomo un ruolo preminente[4]. Era, non a caso, la donna ad assumere il cognome dello sposo, cognome che era – ed è ancora oggi – attribuito automaticamente ai figli[5].

Nonostante le numerose riforme intervenute in questo settore negli ultimi decenni – dapprima nel 1975 e, successivamente, nel 2012 –, il nostro ordinamento non ha dato completa attuazione a quanto sancito dall’art. 3 della Carta costituzionale in tema di eguaglianza “senza distinzioni di sesso”.

L’utilizzo del patronimico resta, dunque, un vulnus del sistema giuridico contemporaneo, che sconta una visione – e un’impostazione normativa – sotto certi profili legata a modelli passati, non più rappresentativi delle istanze e dei caratteri dell’Italia del XXI secolo[6].

 

  • L’orientamento della giurisprudenza: alla ricerca della giustificazione di un antico retaggio

 

Corre l’obbligo di sottolineare come inizialmente la dottrina abbia tentato di giustificare la previsione del sopracitato regime utilizzando l’art. 29, 1° co., Cost. In particolare, si faceva leva sul concetto di “unità familiare”, esigenza centrale da tutelare nell’ordinamento[7].

L’impostazione della stessa Corte costituzionale[8], del resto, non faceva eccezione a tale assunto. La Consulta, infatti, investita della questione di legittimità costituzionale degli artt. 71, 72 e 73 r.d. n. 1238/1939, si era ritrovata ad affrontare la tematica della trasmissione del patronimico sotto due profili: quello del diritto all’identità personale e dell’interesse alla conservazione della sopracitata “unità” della famiglia. Con riferimento al primo aspetto, ha osservato che oggetto del diritto non è la scelta del nome, ma il nome per legge attribuito, ponendo, così, in relazione il disposto dell’art. 22 Cost. a quello dell’art. 6 c.c. In merito, poi, al secondo elemento di analisi, è arrivata a sostenere la necessità di prestabilire il cognome familiare fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia. Da qui si giunge ad argomentare che le previsioni supra richiamate risultano rispettose del tessuto costituzionale poiché esprimono una visione “radicata nel costume sociale”, in quanto espressione della “società naturale fondata sul matrimonio[9].

Contrariamente a quest’indirizzo ha optato – già negli anni ’80 – la giurisprudenza di merito. Facendosi, dunque, interpreti di una mutata sensibilità all’interno del panorama giuridico italiano, diversi Tribunali si sono espressi positivamente nel riconoscere la possibilità ai genitori di aggiungere al cognome paterno quello materno[10].

 

  • Al vaglio della Consulta: le pronunce del 2006 e del 2016

 

Ciò nonostante, è mancato un adeguamento, da parte del legislatore, a tali indirizzi: passo, quest’ultimo, incoraggiato a più riprese dal giudice delle leggi. La Corte ha, infatti, dapprima, agito timidamente, arrivando a dichiarare – con la celebre sentenza n. 61/2006 – inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 143 bis, 236, 237, 2° co., 262, 299, 3° co., c.c., e degli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata in relazione agli artt. 2, 3 e 29, 2° co., Cost.[11].

In questa sede, la Consulta è giunta a sostenere “che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna[12]. Così optando, si giungerebbe a dare piena applicazione al dettato della legge fondamentale dell’ordinamento italiano, che presenta, tra i suoi obiettivi primari, l’assicurazione dell’eguaglianza sostanziale – di fatto –, oltre che formale – di diritto –[13].

La Corte basa, poi, la propria pronuncia sulla necessità per l’Italia di adeguarsi alle disposizioni di rango internazionale e, in particolare, a quanto prescritto dall’art. 16, 1° co., lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979. Quest’ultima previsione, non a caso, “impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome…»[14].

Si richiamano, altresì, infine, le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995, n. 1362 del 1998 e n. 37 del 1978, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, e diverse pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, aventi l’obiettivo di eliminare ogni forma di discriminazione basata sul sesso in tale ambito[15].

Nonostante l’utilizzo di queste solide argomentazioni, la Consulta è arrivata, però, ad operare un vero e proprio self-restraint, non assumendosi la responsabilità di dichiarare l’illegittimità costituzionale della disciplina in esame, ma rinviando all’intervento – futuro – del legislatore[16]. È lo stesso giudice delle leggi a sostenere la difficoltà di intervenire in una materia del genere, vista l’“eterogeneità delle soluzioni offerte dai diversi disegni di legge presentati in materia nel corso della XIV legislatura”, la quale “testimonia la pluralità delle opzioni prospettabili, la scelta tra le quali non può che essere rimessa al legislatore[17]. Da qui deriva il monito rivolto al Parlamento nazionale, affinchè provveda a modificare la normativa di riferimento.

È, poi, con la sentenza del dicembre 2016 che la Corte ha mutato la propria impostazione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, 1° co., c.c., “nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno”, nonché dell’art. 299, 3° co., c.c., “nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione”. Alla base di tale pronuncia vi sono due profili da tenere in considerazione: la violazione del diritto all’identità del minore e del principio di eguaglianza dei coniugi.

Ciò che appare evidente è che il primo aspetto è risultato assolutamente preminente rispetto al secondo. Si è fatto, dunque, leva, principalmente, sull’esigenza di trasmettere al minore, con il cognome, segni identificativi rispetto ad entrambi i genitori, testimoniando, così, un legame con le due linee di ascendenza diretta[18].

L’eguaglianza dei coniugi è rimasta, quindi, in secondo piano, dal momento che il doppio cognome non garantisce la piena parità tra marito e moglie o tra madre e padre, poiché il cognome posto in seconda posizione non viene perpetuato nella generazione successiva alla prima[19].

È necessario, inoltre, sottolineare un’ulteriore peculiarità del presente giudizio. L’ordinanza di remissione del giudice a quo presenta quale oggetto la questione di legittimità costituzionale con riferimento agli articoli 2, 3, 29, 117, 1° co., della Costituzione. Tra tutti questi profili, è l’art. 117, 1° co., Cost. a non comparire nella motivazione della pronuncia: la Corte si è limitata, dunque, ad argomentare la propria posizione sulla base di motivi tutti interni all’ordinamento italiano[20].

L’unica apertura al diritto internazionale operata dal giudice delle leggi consiste nel richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, senza, però, riferirsi al contenuto della CEDAW[21]. Guardando all’evoluzione dell’interpretazione del diritto internazionale si può arrivare a comprendere con maggiore chiarezza il significato profondo della Convenzione. Nei lavori preparatori del documento in esame si era fatto, inizialmente, riferimento all’obbligo per gli Stati di adottare tutte le disposizioni idonee affinché entrambi i coniugi potessero scegliere il proprio cognome, la professione, l’occupazione e la residenza. Si deve ritenere, però, che si volesse tutelare esclusivamente la libertà per la moglie di conservare, dopo il matrimonio, il proprio cognome da nubile[22]. Con il passare del tempo, invece, la norma ha assunto un nuovo significato, ampliando la propria portata, in modo da garantire l’eguaglianza dei coniugi riguardo alla scelta del cognome dei figli[23], prospettiva che è stata incoraggiata dalla nascita del Comitato sull’eliminazione della discriminazione contro le donne[24].

Sarebbe, invece, auspicabile una nuova apertura verso le fonti esterne, valorizzando, così, appieno il disposto dell’art. 117, 1° co., Cost. Risulta, infatti, sempre maggiormente importante tenere conto – nell’ambito dell’ordinamento italiano contemporaneo – di un approccio internazionalistico e comparativistico[25]. Solo così – in un contesto sempre più globalizzato – il Parlamento potrà divenire vero e proprio interprete dei mutamenti sociali che agitano il vigente sistema giuridico[26].

Neanche dopo questa pronuncia, però, è stata determinata l’abrogazione della previgente disciplina di diritto positivo o una sua modifica.

Per queste ragioni, oggi si attende una riforma – forgiata dal legislatore – improntata alla concreta applicazione dell’art. 3 della Costituzione.

 

  • Sulla regola del cognome paterno: prospettive attuali

 

Sulla scorta delle brevi osservazioni ante formulate, si può ben comprendere perché la questione della trasmissione del cognome materno risulti, oggi, centrale e sia stata oggetto dell’attenzione della Consulta.

Il Comunicato stampa della Corte costituzionale del 14 gennaio 2021 ha annunciato, infatti, che, esaminata in camera di consiglio la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bolzano sull’articolo 262, 2° co., c.c., laddove “non consente ai genitori di assegnare al figlio, nato fuori dal matrimonio ma riconosciuto, il solo cognome materno[27], lo stesso collegio ha deciso di “sollevare davanti a se stesso la questione di costituzionalità del primo comma dell’art. 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione del solo cognome paterno[28]. Tale questione è risultata, infatti, pregiudiziale rispetto a quella sollevata dal giudice a quo[29].

È, poi, con il Comunicato stampa dell’11 febbraio che la Corte spiega di aver risposto, con l’ordinanza n. 18 del 2021, ad una centrale domanda: “L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre?[30].

Per replicare a tale quesito la Consulta ha, in primo luogo, richiamato la propria precedente giurisprudenza, ricordando che “– al di là di come sono poste le questioni di legittimità costituzionale – ciò «non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite»[31]. Si rileva, dunque, come venga alla luce la questione della legittimità o meno della prevalenza del patronimico, ritenuta – da più parti, come si è avuto modo di spiegare ampiamente – incompatibile con il valore fondamentale dell’uguaglianza tra i genitori[32].

Nelle premesse dell’ordinanza si rinvia, non a caso, al contenuto della sentenza n. 286 del 2016 della Corte, “che ha riconosciuto la possibilità di aggiungere al patronimico il cognome della madre, mentre nel caso in esame la volontà di entrambi i genitori è volta all’acquisizione del solo cognome materno[33].

Una volta definita, dunque, la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione – sottoposta al vaglio del giudice delle leggi – ed esclusa la possibilità di operare un’interpretazione costituzionalmente orientata, si ravvisa la contrarietà dell’attuale disciplina, contenuta nell’art. 262, 1° co., c.c., con gli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione, nonché con gli articoli 8 e 14 della CEDU, riguardanti – rispettivamente – il “Diritto al rispetto della vita privata e familiare” e  il “Divieto di discriminazione[34].

Nell’affermare l’ammissibilità del petitum la Corte sostiene che quest’ultimo sia “circoscritto al riconoscimento della possibilità, attualmente preclusa (…), di trasmettere al figlio, di comune accordo, alla nascita, il solo cognome materno[35]: ipotesi, quest’ultima, che costituisce una deroga specifica alle regole attualmente vigenti che deve essere “ritenuta costituzionalmente imposta[36], poiché “volta a riconoscere il paritario rilievo dei genitori nella trasmissione del cognome del figlio[37].

L’oggetto del contendere verte primariamente e principalmente, infatti, proprio sulla “secolare prevalenza del cognome paterno” che “trova il suo riconoscimento normativo – oltre che nella disposizione censurata – negli artt. 237 e 299 cod. civ.; nell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (…); negli artt. 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (…)[38].

Si sottolinea con forza la necessità di un intervento del legislatore per eliminare tale retaggio – circostanza già messa in luce dalle pronunce del 2006 e del 2016, cui, però, il Parlamento nazionale non ha mai dato seguito – in modo da porre in essere una “rimodulazione della disciplina[39].

Si sostiene, infatti, che “anche laddove fosse riconosciuta la facoltà dei genitori di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno dovrebbe essere ribadita in tutte le fattispecie in cui tale accordo manchi o (…) non sia stato legittimamente espresso; in questi casi (…) dovrebbe (…) essere riconfermata la prevalenza del cognome paterno, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza è stata da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte[40].

Da qui risulta dirimente un’ulteriore considerazione: “neppure il consenso, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla generale disciplina del patronimico, potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità tra le parti, posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome” e che “lo stesso meccanismo consensuale (…) non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori[41].

Le conclusioni cui giunge la Corte evidenziano, dunque, con chiarezza, la lesione, innanzitutto, degli articoli 2 e 3 della Carta costituzionale, definendo, così, similmente a quanto era avvenuto per la sentenza del 2016, come profili di rilievo la tutela dell’identità personale del minore e della parità tra i genitori.

Si mette in luce, in particolare, come non possano essere invocate a giustificazione di questa vera e propria disparità di trattamento ragioni che attengano alla tutela dell’unità familiare, poiché, al contrario, quest’ultima “si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità[42]. La previsione, inoltre, dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno rispetto a quello materno “sacrifica il diritto all’identità del minore[43], che non vedrebbe adeguatamente tutelato e rappresentato il proprio legame con la famiglia della madre.

Si rinviene, infine, una lesione dell’art. 117, 1° co., della Costituzione, che permette di individuare la violazione, altresì, degli articoli 8 e 14 della CEDU[44], come già ha affermato la sentenza Cusan e Fazzo c. Italia[45].

 

  • Conclusioni

 

Ciò che risulta evidente, in seguito all’analisi della presente ordinanza, è l’attualità della questione posta all’attenzione della Corte costituzionale. L’assunzione automatica da parte dei figli del patronimico – ancora presente nell’ordinamento giuridico contemporaneo – costituisce un segnale inequivocabile di una problematica presente nella società italiana dei nostri giorni, che tutt’ora predilige – a livello legislativo – che la trasmissione del cognome avvenga per via paterna.

Ciò evidenzia con maggiore chiarezza come la parità tra uomo e donna costituisca ancora un obiettivo da raggiungere[46] per dare piena attuazione al combinato disposto degli artt. 3 e 29 Cost.

Da qui deriva la necessità di un intervento del legislatore, che, esclusivamente, potrà pronunciarsi con la giusta autorevolezza in merito alla volontà di mutare le regole di attribuzione del cognome.

Diversi sono stati, non a caso, i progetti in tal senso, avanzati da più parti in diversi momenti storici[47], ma nessuno di essi ha mai superato il vaglio delle Camere. In particolare, corre, qui, l’obbligo di evidenziare il contenuto della proposta – in tema di attribuzione del cognome ai figli – formulata dalla Rete per la Parità, che ha sottolineato che “Rimettere la scelta del cognome ai genitori significherebbe anche pregiudicare il diritto del figlio alla propria identità personale, diritto che si realizza pienamente solo con il riconoscimento formale della discendenza sia in linea paterna che in linea materna[48]. L’associazione è arrivata a prospettare, dunque, una diversa costruzione giuridica, “nel senso dell’attribuzione automatica del doppio cognome al nato, in ordine alfabetico, salvo diversa volontà dei genitori di attribuire l’uno o l’altro cognome ovvero entrambi ma in diversa successione, volontà da manifestare all’atto di nascita o al momento della dichiarazione all’ufficiale di stato civile[49]. Si è argomentato che tale soluzione potrebbe essere maggiormente rispettosa del principio di parità uomo-donna e di uguaglianza tra i coniugi/genitori, ponendosi con ragionevolezza nel solco della uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione[50].

Ciò che risulta chiaro, dalle pronunce che si sono succedute negli ultimi anni è, in definitiva, il ruolo di inventio proprio della giurisprudenza costituzionale, il cui compito è, dunque, stimolare il legislatore ed incoraggiarlo ad intraprendere riforme e cambiamenti coraggiosi[51]. Solo così il sistema – normativo e giurisprudenziale – potrà adeguarsi compiutamente ai mutamenti della società e della concezione della funzione della figura femminile nella famiglia[52].

[1] L’art. 29 Cost. dispone: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

[2] L’art. 30 Cost. dispone: “É dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio (…)”.

[3]L’opzione per il cognome paterno si riconduce infatti ad una regola non scritta, cioè a carattere consuetudinario, tipica dell’identità culturale di una determinata civiltà”: così, T. Amodeo, Attribuzione e trasmissione del cognome. Quale interesse per il minore?, in Judicium, agosto 2018, 1. Si richiamano sul punto anche le disposizioni del codice civile precedenti alla riforma del diritto di famiglia del 1975, come argomenta A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 2019, 417 ss.

[4] Di nuovo si rimanda alla disciplina del codice civile ante riforma del 1975, in cui l’uomo aveva – nell’ambito dell’organizzazione familiare – una vera e propria potestà, da esercitare sia sulla moglie che sui figli. Così testimonia A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., 417 ss.

[5] Per un’analisi storica della funzione identificativa del cognome si rinvia a E. Spagnesi, Nome (storia), in Enc. dir., XXVIII, 1978, 293 ss.

[6] Sull’importanza di guardare alla realtà e alla concreta applicazione dell’articolo 3 della nostra Carta costituzionale si rinvia a Q. Camerlengo, Costituzione e promozione sociale, 2013, 288-289. Sulla necessità, in particolare, di osservare il continuo mutamento dei valori dell’ordinamento si rinvia a P. Grossi, La Costituzione italiana espressione di un tempo giuridico pos-moderno, in L’invenzione del diritto, 2017, 58, che afferma che i “valori, proprio per questa loro dimensione radicale, sono destinati a durare: creature storiche essi pure, non sono realtà assolutamente statiche, ma il loro movimento è lentissimo, assomigliando a quei ghiacciai della natura fisica percorsi da un impercettibile moto che ne scandisce l’immobilità apparente”.

[7] In merito alle diverse interpretazioni dell’art. 29 Cost., che tratta proprio del concetto di unità familiare, succedutesi nel tempo si rinvia a M. Sesta, Verso nuovi sviluppi del principio di eguaglianza tra i coniugi, in Nuova giur. civ. comm., II, 2004, 387 ss.

[8] Di seguito si esporrà il ragionamento riconducibile a Corte cost., ordinanza n. 176, 11 febbraio 1988. In questa sede, si badi, la Consulta non esclude, però, la possibilità di determinare il cognome del figlio adottando anche criteri diversi, più rispettosi dell’autonomia dei coniugi. È stata, poi, sempre Corte cost., ordinanza n. 586, 19 maggio 1988, a ribadire la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 2, 3, 29 Cost., degli artt. 6, 143 bis, 236, 237, 2° co., c.c., ribadendo le medesime argomentazioni supra riportate: la deroga al principio di uguaglianza dei coniugi trova fondamento in una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela dell’unità della famiglia fondata sul matrimonio, il cui superamento compete solo al legislatore.

[9] Si accenna, qui, alla nozione di famiglia presente nel testo costituzionale, nell’art. 29.

[10] In questo senso figurano, ex multis, Trib. Lucca, 1° ottobre 1984, in Dir. fam., 1984, 1069 ss., laddove si autorizzava l’accoglimento della domanda congiunta dei genitori ad aggiungere al cognome paterno quello materno. Similmente, Corte App. Milano, 4 giugno 2002, in Fam. dir., 2003, 173, con nota di A. Figone, Sull’attribuzione del cognome del figlio legittimo; Trib. Bologna, 9 giugno 2004, ivi, 2004, 441, con nota di M.N. Bugetti, L’attribuzione del cognome tra normativa interna e principi comunitari; Trib. Napoli, decreto 19 marzo 2008, in Foro it., I, c. 2322, laddove si rinvia alle medesime considerazioni già svolte dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e dal diritto comunitario.

[11] Per dei commenti sulla sentenza citata si rinvia a V. Carfí, Il cognome del figlio legittimo al vaglio della Consulta, in Nuova giur. civ. comm., I, 2007, 35 ss.; M.N. Bugetti, Attribuzione del cognome ai figli e principi costituzionali: un nuovo intervento della Suprema Corte, in Fam. dir., Milano, 2008, 1093 ss.

[12] Corte cost., sentenza n. 61, 6 febbraio 2006, punto 2.2 del Considerato in diritto.

[13] In particolare, l’eguaglianza sostanziale costituisce il “nucleo forte del sistema costituzionale, appartenendo «all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana»”: così, Q. Camerlengo, Costituzione e promozione sociale, cit., 43, che, a sua volta, si riferisce a Corte cost., sentenza n. 1146, 29 dicembre 1988.

[14] Corte cost., sentenza n. 61, 6 febbraio 2006, punto 2.2 del Considerato in diritto.

[15] Tra queste, le sentenze della CEDU del 16 febbraio 2005, Affaire Unal Teseli c. Turquie; del 24 ottobre 1994, Affaire Stjerna c. Finlande e del 24 gennaio 1994, Affaire Burghartz c. Suisse. Così, Corte cost., sent. 6 febbraio 2006, n. 61, punto 2.2 del Considerato in diritto.

[16] Solo il legislatore, infatti, ad avviso della Corte, avrebbe potuto colmare, in misura coerente e completa, il vuoto normativo che si sarebbe venuto a creare con la caducazione della norma prodotta da una dichiarazione di illegittimità. In questo senso si esprime A. Fabbricotti, La rilevanza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la discriminazione verso le donne (CEDAW) nella giurisprudenza degli Stati contraenti. Un commento a margine della recente pronuncia della Consulta in tema di trasmissione del cognome ai figli, in Rivista AIC, n. 2/2017, 1-2; G. Pignataro, Cognome familiare e cittadinanza europea. Tra identità ed autoregolamento, in Comparazione diritto civile, www.comparazionedirittocivile.it , 2018, 4.

[17] Corte cost., sentenza n. 61, 6 febbraio 2006, punto 2.3 del Considerato in diritto.

[18] A. Fabbricotti, La rilevanza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la discriminazione verso le donne (CEDAW) nella giurisprudenza degli Stati contraenti. Un commento a margine della recente pronuncia della Consulta in tema di trasmissione del cognome ai figli, cit., 1-2.

[19] A. Fabbricotti, La rilevanza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la discriminazione verso le donne (CEDAW) nella giurisprudenza degli Stati contraenti. Un commento a margine della recente pronuncia della Consulta in tema di trasmissione del cognome ai figli, cit., 3.

[20] Cfr. E. Lamarque, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo a uso dei giudici italiani, in Scritti in ricordo di Paolo Cavalieri, 2016, 513. Sull’assorbimento del vizio di convenzionalità nel vizio di costituzionalità si rimanda a P. Carnevale e G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge fra garanzia costituzionale e salvaguardia convenzionale, in A. Di Biase (a cura di), Convenzioni sui diritti umani e corti nazionali, 2014, 123-148. In particolare, sulla tendenza del giudice costituzionale italiano a non fare espresso riferimento alla CEDAW in merito alla disciplina del cognome da trasmettere ai figli, eliminando, così, qualsiasi confronto con il diritto internazionale per privilegiare una visione del diritto interno si rinvia a A. Hellum e H.S. Aasen (a cura di), Women’s Human Rights: CEDAW in International, Regional and National Law, 2013, 27-61; C. Macrudden, Why Do National Court Judges Refer to Human Rights Treaties? A Comparative International Law Analysis of CEDAW, in American Journal Of International Law, 2015, 534-550; R.J. Cook (a cura di), Human Rights of Women: National and International Perspectives, 1994.

[21] Viene, qui, in luce la sentenza Cusan e Fazzo c. Italia del 7 gennaio 2014, intervenuta successivamente all’ordinanza di rimessione di cui supra, nella quale la Corte EDU, dopo aver ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della CEDU, ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Da notare che la vicenda dei coniugi Cusan e Fazzo era stata all’origine della sentenza della Consulta del 2006, nata dall’ordinanza di rimessione formulata dalla Corte di Cassazione. La lunga vicenda che ha coinvolto i coniugi viene raccontata dalla stessa ricorrente alla Corte EDU, A. Cusan, Peripezie di un buon diritto. Breve e veritiero racconto di una protagonista in 12 capitoli, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno. Profili di diritto italiano, di diritto internazionale, dell’Unione europea, comparato ed internazionale privato, 2017, 205 ss. Commentando questa possibilità, si vedano, ad esempio, C. Battiato, Il cognome materno alla luce della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Rivista AIC, giugno 2014; M. Calogero e L. Panella, L’attribuzione del cognome ai figli in una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: l’affaire Cusan e Fazzo c. Italia, in OIDU, 2014, 222 ss.; E. Pazé, La trasmissione del cognome paterno ai figli: ultimo vestigio del padre capofamiglia, in MinoriGiustizia, 2014, 193 ss.; C. Pitea, Trasmissione del cognome e parità di genere: sulla sentenza Cusan e Facco c. Italia e sulle prospettive della sua esecuzione nell’ordinamento interno, in DUDI, 2014, 225 ss.; S. Stefanelli, Illegittimità dell’obbligo del cognome paterno e prospettive di riforma, in Famiglia e Diritto, 2014, 221 ss.; S. Winkler, Sull’attribuzione del cognome paterno nella recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Nuova giur. civ. comm., I, 2014, 520 ss.

[22] Non era contemplata la facoltà della madre (o di entrambi i genitori) di attribuire il cognome materno ai figli, interpretazione che si fondava su due ordini di ragioni. Innanzitutto, la norma disciplinava lo status personale dei coniugi in un contesto in cui vi era l’intento di preservare la reciproca autonomia degli stessi rispetto a decisioni che, per loro natura, spettano solo all’individuo, alla persona in quanto tale. Si comprende, così, “la facoltà di conservare il proprio cognome si ponga sullo stesso piano del diritto di svolgere una professione o un’occupazione o di risiedere in una determinata località”. In secondo luogo, la proposta iniziale prevedeva “the right of women to choose a family name”, escludendo, così, l’attinenza di tale assunto con il diritto di scegliere il cognome dei figli, che dovrebbe essere attribuito anche al padre. A. Fabbricotti, La rilevanza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la discriminazione verso le donne (CEDAW) nella giurisprudenza degli Stati contraenti. Un commento a margine della recente pronuncia della Consulta in tema di trasmissione del cognome ai figli, cit., 6-7.

[23] A. Fabbricotti, La rilevanza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la discriminazione verso le donne (CEDAW) nella giurisprudenza degli Stati contraenti. Un commento a margine della recente pronuncia della Consulta in tema di trasmissione del cognome ai figli, cit., 6-7.

[24] Riguardo alle funzioni e alle attività del CmEDAW (istituito nel 1982), v. per tutti: A. Byrnes, The Committee on the Elimination of Discrimination against Women, in A. Hellum e H.S. Aasen (a cura di), Women’s Human Rights: CEDAW in International, Regional and National Law, cit., 27-61.

[25] Sull’importanza della comparazione – sincronica e diacronica – tra ordinamenti costituzionali si veda l’apporto di G. Tieghi, Costituzionalismo giacobino o liberale: direttrici per la “comparazione critica di idee”, in AA.VV., Libertà Giovani responsabilità. Scritti in onore di Mario Bertolissi, 2020, 377.

[26] L’importanza di guardare ad ordinamenti esteri e ad adottare un approccio comparativistico – osservando i mutamenti della normativa e della giurisprudenza di altri Paesi – sono definite come strumenti fondamentali per analizzare le istanze comuni alle democrazie contemporanee. In merito si veda, innanzitutto, G. De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, 2019, 5: “Per l’odierno studioso del diritto costituzionale l’impegno ad approfondire la tematica della comparazione si presenta particolarmente attuale a causa dell’intensificarsi dei rapporti fra le diverse aree geografiche che caratterizza il mondo contemporaneo e per il diffondersi di processi di collaborazione e integrazioni fra ordinamenti che richiedono confronti fra diverse concezioni dei valori costituzionali”.

[27] Ufficio stampa della Corte costituzionale, Comunicato del 14 gennaio 2021, 1.

[28] Ivi.

[29] Ufficio stampa della Corte costituzionale, Comunicato del 14 gennaio 2021, 1.

[30] Ufficio stampa della Corte costituzionale, Comunicato dell’11 febbraio 2021, 1.

[31] Ivi.

[32] Ufficio stampa della Corte costituzionale, Comunicato dell’11 febbraio 2021, cit., 2.

[33] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 2.

[34] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 3.

[35] Ivi.

[36] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 3.

[37] Ivi.

[38] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 4.

[39] Ivi.

[40] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 4.

[41] Ivi.

[42] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 5, in cui si rinvia alla sentenza n. 133 del 1970 della stessa Corte.

[43] Ivi.

[44] Le quali operano come norme c.d. interposte, norme “poste da fonti di rango non costituzionale, che, in base ad esplicito disposto costituzionale, operano quale limite di validità di altre fonti di rango legislativo, e che dunque si interpongono tra queste ultime e la Costituzione”: così, M. Mazziotti Di Celso, G.M. Salerno, Manuale di diritto costituzionale, 2010, 550.

[45] Corte cost., ordinanza n. 18, 11 febbraio 2021, 5.

[46] M.C. Nussbaum, Diventare persone, 2001, 47: qui l’autrice sottolinea come il benessere economico non sia necessariamente sinonimo di benessere sociale. In questo senso la condizione delle donne negli ordinamenti giuridici contemporanei prescinde dall’astratta propugnazione dell’eguaglianza. In questo senso, Nussbaum riprende J. Drèze, A. K. Sen, An uncertain glory, 2015.

[47] Ciò si testimonia su

https://www.camera.it/leg18/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=18&codice=leg.18.pdl.camera.106.18PDL0005430&back_to=http%3A%2F%2Fwww.camera.it%2Fleg18%2F126%3Ftab&fbclid=IwAR0y6jjWCwmBOIVwo8l84SavBOlrempcXEOV2G2LulQBicVZnBSGGTh13Zc o su

https://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0023250.pdf .

[48] AA.VV., Audizioni sul disegno di legge n. 1628 e connessi (Disposizioni sul cognome dei figli), febbraio 2017, 29.

[49] Ivi.

[50] AA.VV., Audizioni sul disegno di legge n. 1628 e connessi, cit., 29.

[51] P. Grossi, L’invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in L’invenzione del diritto, cit., 126.

[52] Non a caso, “L’eguaglianza sostanziale esprime la propria indole dinamica alimentandosi nel tempo di significati e prospettive di sviluppo sempre più ricche”: la sua portata innovatrice è, infatti, “inesauribile”, “concedendo al legislatore e agli interpreti del diritto margini di manovra non rigorosamente predeterminati, così da permettere di assecondare l’evoluzione incessante dei rapporti sociali, economici e politici”. Così, Q. Camerlengo, Costituzione e promozione sociale, cit., 43. Il diritto è, infatti, una disciplina in costante mutamento: in particolare, anche se la parità formale tra uomini e donne è stata raggiunta, la conquista dei diritti non è irreversibile, dal momento che il rapporto tra generi, come ogni aspetto della contemporaneità, è esposto a cambiamenti che non necessariamente seguono la via del progresso. Così E. Cantarella, Prefazione in M. Wollstonefraft, Sui diritti delle donne, 2010, 9.

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