domenica, Dicembre 1, 2024
Amministrazione e Giustizia

Una nuova “stagione” di privatizzazioni? Un breve raffronto tra l’ultimo decennio dello scorso secolo e lo “zeitgeist” odierno

A cura di Federico Muzzati

Tra crisi del debito e spinte europeiste: il quadro degli anni novanta

Durante il corso dell’ultimo decennio del precedente secolo (in particolar modo, nel corso della prima metà) si è assistito a un ampio periodo di smantellamento del “controllo statale” sul sistema economico, grazie al ricorso a un corposo processo di privatizzazione che ha involto molteplici settori industriali (specialmente, quello bancario, dei trasporti e delle utilities).

Se è vero che la ratio ispiratrice dell’intervento era da rinvenirsi nella riduzione del debito pubblico (il quale, nel 1994, aveva raggiunto la ragguardevole soglia del 121,8% del PIL), è parimenti corretto evidenziare come tale “cambio di rotta” si rese finanche necessario per adeguarsi alle coordinate ermeneutiche tracciate dalla nuova “Costituzione economica europea”: libertà di circolazione di merci e capitali, libero mercato, concorrenza, e par condicio.

Ciò, dunque, importò non solamente un mero cambio di titolarità sociale, bensì condusse a un(o sperato) più ampio e profondo mutamento economico-sociale del Paese.

Per sovraintendere a questa cruciale “fase di passaggio” del sistema economico italiano, vennero introdotti anche alcuni strumenti giuridici prodromici e funzionali all’opera di privatizzazione; emblematico è quello della “Golden Share” (una sorta di “Golden Power” ante litteram), introdotto con il D.L. n. 332/1994, mediante il quale lo Stato manteneva quote societarie in imprese ritenute asset strategici per la tutela e la salvaguardia di preminenti interessi pubblici.

Come noto, il passaggio da un sistema economico misto, costituito da svariati enti pubblici economici, e dal controllo statale sulle società partecipate, a un sistema privatistico rispettoso dei principi comunitari dettati in materia, è avvenuto seguendo un duplice iter necessitato: in primo luogo, si assiste alla c.d. fase di “privatizzazione formale” (1992), il cui scopo è quello di mutare la forma giuridica delle società interessate, da ente pubblico economico, a soggetto di diritto privato (solitamente S.p.A.), pur mantenendo immutata la titolarità del pacchetto azionario (che rimane in mano statale).

Successivamente, viene posta in essere la c.d. fase di “privatizzazione sostanziale”, il cui effetto è quello di dismettere effettivamente le partecipazioni statali, cedendone il controllo ai privati acquirenti.

Di talché, questa fase conclude il processo di privatizzazione, grazie alla ritrazione dello Stato, che assume la veste di “regolatore” (recte: oggi “stratega” o “doganiere”, come felicemente inquadrato da illustre dottrina).

Tra le principali società attinte dal fenomeno si ricordano (tra successi e evidenti insuccessi): Autostrade, Telecom, Credito Italiano, Banco di Roma (oggi Unicredit) Banca Commerciale Italiana, IMI (oggi Intesa San Paolo) Enel, Eni e Finmeccanica (oggi Leonardo).

Queste ultime tre hanno portato alla “creazione” di un felice “tertium genus” intermedio, ancor oggi di grande successo, quello dello “stato azionista”, che si adegua alle categorie privatistiche (S.p.A.) pur mantenendo una quota di controllo, permettendo, così, la possibilità di accogliere, frattanto, investitori privati (sotto la sua “egida”), a tutto beneficio della collettività e del sistema Paese.

Lo scenario odierno: verso la palingenesi?

Nella NADEF dello scorso settembre 2023, per fronteggiare l’inveterato tema del contenimento di uno spaventoso debito pubblico – oltre alle sfide belliche, economiche e geopolitiche di questa difficile epoca globale – il Governo Meloni si è posto l’obiettivo di procedere, nei prossimi tre anni, a dismissioni patrimoniali pari a ben l’1% del PIL.

In buona sostanza, per raggiungere tale ambizioso obiettivo, si dovrà procedere alla cessione, tra il 2024 e il 2026, di partecipazioni azionarie per un valore pari a 20 miliardi di euro.

Allo Stato, le uniche concrete dismissioni sono quella effettuata nel novembre 2023 dal MEF in riferimento al 25% delle azioni del Monte dei Paschi di Siena, per un controvalore pari a 919 milioni di euro, e quella relativa al 2,8% del capitale di Eni (per un controvalore di circa 2 miliardi).

Pertanto, “mancano all’appello”, ancora 17 miliardi di euro, che (nelle intenzioni del Governo) dovranno essere raccolti entro la fine del 2026.

Inoltre, seppur recentemente il colossale (e “onnipresente”) hedge fund statunitense BlackRock ha aumentato la propria quota azionaria in Leonardo S.p.A., salendo oltre al 3% (seppur non sia noto il controvalore e la percentuale di quote che adesso detiene il fondo speculativo), grazie al mancato esercizio dei poteri speciali da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ad oggi, manca ancora un “piano organico per la dismissione” 2024-2026.

In ogni caso, la roadmap del Governo prevede, attualmente, i seguenti – immediati – step: la cessione di circa il 14% di Poste Italiane, e la possibile dismissione di un’ulteriore 10% di MPS (il MEF ne detiene il 26,7%).

Concise notazioni conclusive: Much Ado About Nothing?

Per rispondere alla domanda di cui al titolo del precedente paragrafo, non appare revocabile in dubbio il fatto che le attuali operazioni di privatizzazione siano ben differenti dalla precedente “stagione”, non solo a livello numerico, ma, soprattutto, di visione strategica e obiettivi.

Infatti, le cessioni odierne hanno come scopo solamente quello della riduzione del debito, senza alcuna pretesa di “riassettare” il sistema economico-istituzionale; si potrebbe dire, atecnicamente, che queste sono animate solamente dall’esigenza “di battere cassa”, grazie alla cessione di quote societarie e immobili di imprese strategiche, senza, però, perderne il controllo (vedasi Enel e Leonardo, che, ad oggi, risulta essere quasi al limite).

In sostanza, si alleggerisce e si cede quel che si può, pur sempre mantenendone il controllo.

Di talché, non si riscontra alcun nuovo ciclo virtuoso, bensì la solita esigenza di contenimento del debito, introiettando sì, oggi, somme di danaro, ma rinunciando, un domani, ai dividendi (Poste ha raggiunto una capitalizzazione record di 16 miliardi di euro e ha generato 1 miliardo di utili).

Il rischio è che, procedendo in tal modo, a breve non rimarrà più molto altro da dismettere.

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