lunedì, Marzo 18, 2024
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Una sconfitta (di misura) in tema di controllo sulla dosimetria sanzionatoria: nota a Corte cost. n. 117/2021

La Corte  costituzionale prosegue il suo “nuovo corso” in tema sindacato sulla dosimetria sanzionatoria ma non accoglie le questioni di legittimità in materia di furto in abitazione

1) Introduzione

Dalla rilevantissima sentenza n. 236 del 2016, la Corte costituzionale ha scelto di cambiare il suo consolidato approccio in tema di controllo di costituzionalità sulla misura della pena. Da un passato fatto di timore reverenziale al cospetto della discrezionalità legislativa, costellato di inammissibilità accompagnate da (deboli) moniti, il giudice delle leggi ha scelto, da qualche anno a questa parte, di rendere effettivo il diritto dell’imputato (e del condannato) a non subire trattamenti sanzionatori sproporzionati rispetto alla gravità del reato commesso. L’abbandono della teoria delle “rime obbligate” di crisafulliana memoria, unita ad un affrancamento dallo schema ternario di eguaglianza-ragionevolezza, con l’approdo ad un inedito raffronto fra il disvalore del fatto e la misura della pena, ha segnato l’avvento di una corposa serie di sentenze con cui la Corte ha emendato sproporzioni sanzionatorie presenti nelle più disparate aree ordinamentali.

L’appoggio normativo, basato sul combinato disposto fra gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost. è la vera anima del nuovo orientamento giurisprudenziale, giacché dai medesimi il giudice delle leggi ha ricavato in via ermeneutica le basi costituzionali del principio di proporzionalità fra la pena ed il reato. Il necessario rapporto di proporzione fra queste due misure, che si giova anche di plurimi “agganci” sovranazionali, richiamati dalla giurisprudenza costituzionale in questione (art. 49, par. 3 della Carta dei Diritti fondamentali dell’U.E. e art. 3 della Cedu), ha ispirato delle vere e proprie incursioni pretorie sul versante della discrezionalità legislativa, garantendo un più incisivo controllo sulla dosimetria sanzionatoria.

Sia chiaro però fin d’ora che il nuovo indirizzo della Consulta, per quanto maggiormente volto a garantire effettività al controllo sulla misura della pena, non è segnato da un accoglimento acritico di tutte le questioni prospettate di volta in volta dai giudici a quibus, sol per il fatto che fosse invocata una sproporzione sanzionatoria. Tutt’altro. Sono invero numerose le occasioni in cui, anche a fronte del suo mutato approccio “ideologico”, la Corte ha preferito dichiarare l’infondatezza delle questioni ovvero preferire addirittura non addentrarsi nel merito delle stesse, rispedendole al mittente.

Nell’ambito di questa schiera di interventi richiesti ma non soddisfatti, si inserisce la recente sentenza n. 117/2021, in tema di trattamento sanzionatorio previsto per il furto in abitazione di cui all’art. 624-bis, co. 1, 3 e 4 cod. pen., la cui quaestio legitimitatis è stata sollevata dal Tribunale di Lecce, con ordinanza del 19 febbraio 2020, per pretesa lesione degli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.

2) L’origine della questione di legittimità

Il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica, nell’ambito di un procedimento a carico di due imputati, si doleva della contrarietà alle soprammenzionate norme costituzionali di alcune componenti dell’art. 624-bis cod. pen., indirizzando alla Consulta ben tre quesiti di costituzionalità. Nell’ordine, il giudice a quo lamentava l’illegittimità del minimo edittale previsto dalla norma in questione per sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto all’effettivo disvalore dei fatti contestati, l’assenza di una fattispecie di “lieve entità” e l’incostituzionalità del meccanismo di divieto di prevalenza od equivalenza delle circostanze diminuenti sulle conteste aggravanti.

In questa sede, le tre questioni saranno osservate una ad una poiché, in linea con le considerazioni della Corte, i petitapur ispirati da una medesima finalità di complessiva attenuazione del rigore punitivo, definiscono tuttavia questioni autonome[1].

Conviene anzitutto osservare, prima di addentrarsi nel vivo del triplice interrogativo sottoposto alla Consulta, che i due imputati, in data 22 gennaio 2020, si sarebbero resi responsabili, in concorso fra loro, del delitto aggravato di furto in abitazione, per essersi gli stessi introdotti in un luogo di privata dimora forzando una finestra ed essendosi impossessati, per ricavarne un ingiusto profitto, di alcuni oggetti di modesto valore.

Osservava il giudice a quo che il rigore del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 624-bis cod. pen. sarebbe stato mitigato dal concorso fra la diminuente specifica di cui all’art. 62, co. 1, n. 4 cod.pen. (in relazione alla particolare tenuità del danno cagionato), dalla concessione da parte del medesimo giudice delle attenuanti generiche nonché, infine, dalla diminuzione di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato da parte degli imputati. Notava tuttavia il magistrato di prime cure che, anche all’esito di tale drastica riduzione del quantum sanzionatorio, la pena si sarebbe comunque attestata sulla misura di un anno, cinque mesi e ventisette giorni di reclusione, oltre alla multa, entità complessiva che lo stesso non poteva non ritenere “palesemente sproporzionata[2] rispetto al disvalore del fatto.

Sollevava così questione di legittimità costituzionale dell’art. 624-bis, cod.pen. “nella parte in cui, limitando la discrezionalità del [g]iudice, non consente, anche attraverso [un] adeguato bilanciamento delle circostanze concorrenti, ovvero la previsione di una ipotesi lieve autonomamente sanzionata, di calibrare la sanzione penale alla effettiva gravità del reato[3], contrastando così la norma impugnata con gli evocati parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.

3) La complessa evoluzione della norma impugnata

Prima di considerare le riflessioni che hanno portato la Consulta a rigettare le doglianze del rimettente, conviene soffermarsi sui mutamenti, invero molti e caotici, subiti dalla norma sub iudice. La Consulta ha ritenuto particolarmente opportuno soffermarsi sull’excursus normativo, e ciò si può ben comprendere in un’ottica di ricostruzione della volontà legislativa sottesa all’attuale fisionomia della norma. Ciò in ragione del fatto che, più di molti altri settori dell’ordinamento, il Titolo XIII del libro II del codice penale ha subito nel corso degli ultimi decenni significative modifiche, prevalentemente in chiave di risposta ad un crescente allarme sociale, connesso ai delitti contro il patrimonio, in particolare ai furti in abitazione mediante effrazione.

Va osservato, in primo luogo, che la norma in questione venne introdotta dalla legge n. 128 del 2001, che rese tale fattispecie un delitto autonomo. I fatti ad esso ascrivibili erano puniti, precedentemente, a titolo di furto aggravato: non a caso, l’art. 2 della suddetta legge abrogava il n. 1 del co. 1, art. 625, cod. pen. che prevedeva l’aggravante della fattispecie base di furto <<per commettere il fatto, si introduce o si trattiene in un edificio o in un altro luogo destinato ad abitazione>> (espungendo, contestualmente, poiché ricompresa nel nuovo titolo delittuoso, anche l’aggravante di strappo). Il medesimo art. 2, al co. 4, prevedeva altresì una diminuente speciale a beneficio del reo che “prima del giudizio, abbia consentito l’individuazione dei correi o di coloro che hanno acquistato, ricevuto od occultato la cosa sottratta o si sono comunque intromessi per farla acquistare, ricevere od occultare”.

L’intervento più significativo occorreva, però, più di recente, ad opera dell’art. 1, co. 6, della legge n. 103 del 2017, la quale ha ridisegnato in più punti i connotati salienti dell’art. 624-bis cod. pen. Ciò in particolare con la lettera a), che ne ha modificato il primo comma, innalzando le pene (reclusione da tre a sei anni e multa da euro 927 a euro 1.500); con la lettera b), che ne ha modificato il terzo comma, anche qui innalzando le pene (reclusione da quattro a dieci anni e multa da euro 927 a euro 2.000); infine, con la lettera c), che vi ha aggiunto un quarto comma, a tenore del quale “[l]e circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 625-bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 625, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti”.

In ultima analisi, la legge n. 36 del 2019 ha inasprito la cornice edittale del furto in abitazione,  aumentando la pena detentiva di cui al primo comma (ora da quattro a sette anni di reclusione), nonché le pene di cui al terzo comma (ora da cinque a dieci anni di reclusione e da euro 1.000 a euro 2.500 di multa).

Gli aggravi sanzionatori si inseriscono, peculiarmente, nell’ottica di scelte di politica criminale compiute da maggioranze pur di diverso colore politico. Se infatti il più recente è da imputarsi all’allora maggioranza Lega-M5S, non bisogna nemmeno dimenticare come il rilevante intervento normativo di solo due anni prima fosse stato voluto da una maggioranza di centrosinistra. Ciò a dimostrazione del fatto che il tema dei delitti contro il patrimonio (e, segnatamente, dei furti in abitazione o con strappo) possiederebbe una risonanza, per così dire, “trasversale” rispetto alle varie forze politiche del Paese. Ecco perché è possibile riscontrare un crescente rigore repressivo perseguito dai legislatori, chiamato a rispondere ad un allarme sociale particolarmente insistente in ampie frazioni del corpo elettorale, evidentemente a prescindere dal “colore” politico. In questo senso è possibile comprendere la progressiva spinta all’inasprimento delle cornici edittali. Di conseguenza, per quanto la Corte abbia dimostrato un atteggiamento tutto sommato conciliante dinanzi a questi aumenti sanzionatori bipartisan, va tuttavia osservato che la sentenza in esame contiene un altolà: il legislatore dovrà ponderare adeguatamente il bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, se vorrà esercitare ancora la sua discrezionalità, divaricando ulteriormente la forchetta edittale della norma scrutinata, evitando di aumentare la già “estremamente rilevante pressione punitiva[4] esercitata dai valori edittali di cui all’art. 624-bis cod. pen. Calcisticamente parlando, un “cartellino giallo”.

Ciò posto, e compreso il complesso excursus che ha condotto alla attuale fisionomia della norma contestata, si può entrare nel vivo delle questione approdate sul tavolo della Consulta.

4) Il minimo edittale di cui all’art. 624-bis, co. 1 e 3, cod. pen. non è sproporzionato rispetto alla gravità del reato

Il delta sanzionatorio di un reato è, per così dire, un “biglietto da visita” dell’illecito giacché denuncia, in relazione alla sua severità, il grado di tutela riservato a quel bene giuridico dall’ordinamento. Ora, dal momento che sarebbe impossibile addivenire ad un rapporto di proporzionalità esatta e millimetrica tra ciascun reato e il quantum della sua pena astrattamente inscritta entro i due termini della forchetta edittale, basti qui considerare che la Consulta ha ricordato come “le valutazioni discrezionali di dosimetria penale competono in esclusiva al legislatore, chiamato dalla riserva di legge ex art. 25 Cost. a stabilire il grado di reazione dell’ordinamento al cospetto della lesione di un determinato bene giuridico[5], ribadendo che “il sindacato di legittimità costituzionale al metro degli artt. 3 e 27 Cost. può quindi esercitarsi unicamente su scelte sanzionatorie arbitrarie o manifestamente sproporzionate, tali da evidenziare un uso distorto della discrezionalità legislativa[6].

Di conseguenza, e ciò è stato reiterato con forza dalla Consulta in numerosi precedenti nell’ambito del nuovo indirizzo giurisprudenziale in tema di sindacato sulla dosimetria sanzionatoria, la determinazione del quantum di pena in astratto spetta in via esclusiva al legislatore, giusta la riserva assoluta di legge (parlamentare) di cui all’art. 25, co. 2, Cost., potendo il giudice delle leggi reagire solo a fronte di trattamenti sanzionatori “manifestamente sproporzionati[7] rispetto alla gravità dei reati. Ciò esprime coerenza con quanto sin d’ora compiuto. Basti pensare, ad esempio, alla sentenza n. 236/2016, che ha dichiarato illegittima la cornice edittale da cinque a quindici anni di reclusione precedentemente prevista dall’art. 567, co. 2, cod. pen. (alterazione di stato mediante falsità), poiché la medesima (e, segnatamente, il minimo) avrebbe sproporzionalmente punito fatti caratterizzati da modesto disvalore (nonché, nel caso di specie, addirittura da intenti altruistici) assestandolo sulla misura di tre anni di reclusione, ricavando tale sostituto sanzionatorio dal minimo edittale di cui al co. 1 della succitata norma. O, ancora, si ponga mente al “nuovo” art. 73, co. 1, T.u. Stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990) come rideterminato dalla Corte a seguito della sentenza n. 40/2019 (sei anni di reclusione in luogo dei precedenti otto, per eccessiva sproporzione del trattamento precedente per il delitto di spaccio di non lieve entità avente ad oggetto droghe c.d. “pesanti” ).

Tutte ipotesi, quelle testé citate, che evidenziavano misure sanzionatorie ben poco difendibili sotto la lente della proporzionalità. Ma, come accennato, sono state molte le occasioni in cui la Corte costituzionale ha “salvato” misure edittali che, prima facie, potevano apparire molto severe[8]. E’ il caso della sentenza n. 117/2021 in argomento. Nella pronuncia in questione il giudice delle leggi non si spinge fino ad assegnare un “patentino di legittimità” al minimo edittale dell’art. 624-bis cod. pen., (anzi, tra le righe compare, come visto, un monito a denti stretti), ma dichiara l’inammissibilità del primo petitum sulla scorta di due considerazioni.

La prima di esse attiene alla mancata indicazione di una o più misure sanzionatorie già esistenti nell’ordinamento ed idonee a colmare la lacuna conseguente alla declaratoria di illegittimità. Una delle incombenze che permangono in capo al giudice rimettente, quale souvenir del pregresso indirizzo giurisprudenziale caratterizzato dalla teoria delle “rime obbligate”, consiste nell’onere per il giudice a quo di indicare una o più soluzioni sanzionatorie che la Corte potrebbe impiegare per la rideterminazione del quantum edittale (chiarendo tuttavia, ed in apparente contraddizione con la natura obbligatoria di tale indicazione, di non sentirsi vincolata rispetto alle prospettazioni del rimettente[9]). In effetti, il giudice leccese, come rileva la Consulta, ha omesso di indicare una o più misure con le quali rimediare all’asserita incostituzionalità del trattamento sanzionatorio[10]. In linea con le pregresse vicende in tema di dosimetria sanzionatoria, il rimettente ha impugnato il minimo edittale, previsto dai co. 1 e 3. Ma nel fare ciò, avrebbe solamente denunciato l’<<eccessivo iato>>[11] che separa il trattamento di cui all’art. 624-bis cod. pen. da quelli previsti per altre fattispecie delittuose presenti nel medesimo Titolo (furto semplice o aggravato, truffa semplice o aggravata, circonvenzione di persone incapaci, ricettazione, danneggiamento di sistemi informatici, frode in emigrazione, usura), prospettando una eccessiva sproporzione tra reato e reazione punitiva. C’è però un’obiezione fondamentale mossa dal giudice delle leggi, pure a fronte dei numerosi tertia comparationis evocati: nessuno di quelli richiamati “esprime un’offensività omogenea a quella del furto in abitazione, caratterizzata, quest’ultim[o], dalla lesione dell’inviolabilità del domicilio assicurata dall’art. 14 Cost.[12].

La seconda considerazione ha poi a che fare con la natura plurioffensiva del reato in questione, laddove, oltre al patrimonio, viene arrecata offesa anche al bene della libertà domiciliare, tutelato dall’art. 14 Cost. Proprio in relazione al carattere dell’illecito de quo, chiosa la Corte che “un tertium omogeneo potrebbe semmai trovarsi nell’art. 628, terzo comma, numero 3-bis), cod. pen.”[13]. Così, “la mancata indicazione di una grandezza predata, non meno che la palese eterogeneità dei tertia comparationis, rende inammissibile la questione[14].

5) La mancata previsione di una fattispecie di lieve entità entro il perimetro dell’art. 624-bis cod. pen.

Venendo alla seconda questione con cui il giudice a quo sollecitava l’intervento della Corte, giova osservare che questo si doleva dell’assenza, dalla formulazione normativa di cui all’art. 624-bis cod. pen. di una previsione di “lieve entità”, atta cioè a ricomprendere quelle declinazioni del fatto tipico che, pur non integrando gli estremi della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., risultassero di modesta portata offensiva. Di talché, la reazione sanzionatoria risulterebbe così mitigata per effetto di una simile previsione, accompagnata da una comminatoria astratta meno severa di quella prevista dalla fattispecie base.

Va subito osservato che l’invasione di campo, ai danni della discrezionalità legislativa, pare in questo caso esorbitare dai limiti che la stessa Corte ha voluto porsi, pur avendo intrapreso un cammino più deciso rispetto al passato in tema di controllo sulla misura della pena. Una cosa è, infatti, ovviare a sproporzioni sanzionatorie che denunciano un arbitrario ed irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa, altra cosa è calpestare quest’ultima chiedendo alla Corte addirittura di creare ex novo una nuova fattispecie incriminatrice, seppur più lievemente sanzionata[15]. Peraltro, la formulazione del petitum appare così fumosa da non consentire al giudice delle leggi di poter chiarire se la richiesta del giudice rimettente fosse orientata a denunciare l’assenza di un circostanza attenuante speciale ovvero di una fattispecie di “lieve entità”.

Concludendo in quest’ultimo senso, premette la Consulta che è ben possibile che, a fattispecie “base” (anche caratterizzate da trattamenti sanzionatori severi) possano accompagnarsi aree “ritagliate”, entro le quali ricomprendere quei fatti integranti gli estremi della fattispecie ma non tali da raggiungere sogli di offensività così elevate da meritare un quantitativo di pena pari a quella comminabile in forza della forchetta edittale di base. Sono molteplici, del resto, le fattispecie delittuose presenti nell’ordinamento in cui il legislatore ha usato questa “tecnica del ritaglio” e la Corte ne elenca alcune: bancarotta, spaccio, ricettazione, violenza sessuale. Il tratto comune a questi illeciti, le cui declinazioni più modeste possono beneficiare di trattamenti mitigati, sono caratterizzate da costruzioni normative “nelle quali il reato-base ha una formulazione molto ampia[16]. Così, per temperare il rigore punitivo di previsioni di non ineccepibile tassatività, gli spazi di lieve entità divengono sottoinsiemi entro i quali ricondurre concretizzazioni della condotta tipica di modesto disvalore. Spazi, questi ultimi, che costituiscono “scelta massimamente discrezionale del  legislatore, poiché att[engono] alla costruzione della fattispecie-base, secondo criteri di maggiore o minore latitudine[17].

Da ultimo, come se non bastasse questa sicura riaffermazione delle prerogative dell’organo parlamentare, chiarisce la Corte come la fattispecie impugnata non si presterebbe ad una estensione di questo tipo, nemmeno se quella dell’addizione di un’area di “lieve entità” fosse una strada astrattamente praticabile. Osserva in proposito la Consulta che “[q]uella del furto in abitazione è una fattispecie descritta dall’art. 624-bis cod. pen. in termini piuttosto definiti[18], di talché non si renderebbe necessaria la previsione di uno spazio normativo apposito, atto ad evitare che declinazioni del fatto tipico di modesto disvalore possano essere sproporzionalmente sanzionate. Inoltre, “il giudice a quo non evidenzia specifiche ragioni che rendano costituzionalmente necessaria l’introduzione di una fattispecie attenuata nel perimetro della norma incriminatrice[19].

Più che un serio petitum, questo secondo quesito appariva in definitiva un mero interrogativo a vuoto rivolto alla Corte: più un tentativo con scarsissime possibilità di successo che una seria prospettazione d’incostituzionalità. Non stupisce l’esito: inammissibilità per “genericità e oscurità del petitum”[20].

6) Il divieto di bilanciamento di cui all’art. 624-bis, co. 4, cod. pen.

L’ultimo interrogativo portato all’attenzione dei giudici costituzionali riguardava il divieto di bilanciamento tra circostanze eterogenee di cui all’art. 624-bis, co. 4, cod. pen. La norma in esame, infatti, prevede che “[l]e circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 625-bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 625, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti”.

In premessa, occorre osservare come la Corte abbia dovuto circoscrivere la portata del quesito, che era stato formulato dal giudice a quo in termini non proprio chiarissimi. A tal proposito, osserva il giudice delle leggi che il terzo petitum deve ritenersi riferito alle sole circostanze attenuanti ricorrenti nel caso pendente di fronte al medesimo giudice, e non già rivolto ad uno scrutinio dell’intero divieto di prevalenza in sé e per sé considerato. Sicché, la quaestio non avrebbe avuto ad oggetto la totalità del divieto di cui al co. 4, bensì quel divieto in relazione alle circostanze attenuanti da applicare sub iudice nel giudizio pendente (e cioè quella di cui all’art. 62, co. 1, n. 4 circa la particolare tenuità del danno e quelle generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.).

Seppure il quesito avesse consentito alla Corte di entrare nel merito, la doglianza è stata ritenuta non fondata. Preliminarmente, la Consulta osservava che il divieto di bilanciamento non fosse in sé illegittimo. Le deroghe all’ordinaria modalità di computo delle circostanze ben possono rientrare nelle scelte di politica criminale perseguite dalle maggioranze contingenti, generalmente al fine di prevedere risposte sanzionatorie più decisive, specie per fattispecie caratterizzate da forte allarme sociale. Tutto ciò rientrerebbe in un’area di legittimità, che incontrerebbe la censura della Corte solo allorché tali scelte si configurassero come manifestamente irragionevoli od arbitrarie[21]. Un altro limite posto dal giudice delle leggi riguarda quelle deviazioni dal normale sistema di computo che determinassero “un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale[22]. Al di fuori, però, di queste ipotesi, la scelta di “blindare” talune circostanze a scapito di altre deve ritenersi legittima e rientrante nella sfera discrezionale del legislatore.

Sul punto la Corte era già intervenuta con una delle più significative sentenze afferenti al recente filone giurisprudenziale in tema di dosimetria sanzionatoria, e cioè la sentenza n. 88/2019. Tale pronuncia si era espressa (tra l’altro) in ordine alla legittimità del divieto di bilanciamento di cui all’art. 590-quater cod. pen., in tema di omicidio o lesioni colpose stradali, come introdotto dalla legge n. 41 del 2016. Ha considerato la Corte illo tempore che simili scelte, pur conducendo ad un significativo aggravamento del trattamento punitivo, rientrassero “nell’ambito dell’esercizio non irragionevole della discrezionalità del legislatore che ha ritenuto, secondo una non sindacabile opzione politica in materia penale, di contrastare in modo più energico condotte gravemente lesive dell’incolumità delle persone, che negli ultimi anni hanno creato diffuso allarme sociale[23].

Analoga statuizione riguardava il caso in esame, pur a fronte di un diverso bene giuridico tutelato. Nella legittimazione della scelta legislativa agli occhi della Consulta, assumono un peso decisivo gli interessi tutelati dalla norma in questione, giacché “il divieto di bilanciamento è posto a servizio di un bene giuridico di primario valore – l’intimità della persona raccolta nella sua abitazione –, al quale il legislatore ha scelto di assegnare una tutela rafforzata, con opzione discrezionale e non irragionevole[24]. Sviluppando il suo pensiero, la Corte costituzionale approfondisce il punto, chiarendo che <<nel furto in abitazione l’offensività patrimoniale assume una peculiare connotazione personalistica, in ragione dell’aggancio con l’inviolabilità del domicilio assicurata dall’art. 14 Cost., domicilio inteso come “proiezione spaziale della persona” (sentenza n. 135 del 2002)”. Ecco che l’importanza del bene tutelato gioca un ruolo fondamentale nel consentire di ritenere legittimo e non sproporzionato il pur severo trattamento sanzionatorio conseguente all’operatività del divieto di bilanciamento di cui all’art. 624-bis, co. 4, cod. pen.

Conclusioni

La sentenza in questione arricchisce ulteriormente un filone, invero molto nutrito che, a partire dalla sentenza “capostipite” (Corte cost., sentenza n. 236/2016) inaugura quello che la dottrina maggioritaria ha salutato come un “nuovo corso” nella giurisprudenza costituzionale in tema di controllo sulle opzioni punitive adottate dal legislatore[25]. Un controllo che, c’è da dire, si è esplicato fin d’ora in interventi mirati e ragionevoli, rimediando a sproporzioni sanzionatorie di particolare evidenza e regalando nuova linfa vitale al principio di proporzione fra pena e reato, invero già timidamente comparso decenni addietro nelle riflessioni della Consulta[26].

Al di là della portata innovativa delle recenti sentenze successive al 2016 in materia di misura della pena, sarebbe esagerato (e sbagliato) affermare che la discrezionalità legislativa in materia penale sia ormai acqua passata, configurandosi pronunce come quelle in esame solo self-restraint di facciata. Tutt’altro. Laddove è intervenuta, la Corte ha ricercato un attivo dialogo con il Parlamento, soprattutto mediante il carattere cedevole dei sostituti sanzionatori da lei prescelti per colmare, in via transitoria, la lacuna venutasi a creare come conseguenza della declaratoria d’illegittimità dei minimi edittali di alcune cornici edittali. E nel rispetto del clima di dialogo che la Consulta persegue, ha in più occasioni rifiutato di intervenire laddove la manipolazione avrebbe potuto costituire uno sconfinamento troppo evidente in un terreno che è, e resta, giusta l’art. 25, co. 2, Cost., di esclusiva pertinenza del legislatore.

Se dunque quello cercato dalla Corte sin dal 2016 è, come è evidente, un proficuo dialogo con il Parlamento in chiave di tutela dei diritti fondamentali (segnatamente, della libertà personale illegittimamente incisa da trattamenti sanzionatori sproporzionati), ecco che il buonsenso non può non costituirne il presupposto principale. Un senso della misura piuttosto negletto al giorno d’oggi. Un buonsenso, inteso come un delicato gioco di equilibri istituzionali (e costituzionali) perseguito, anche, con sapienti passi indietro allorché necessari a preservare un rapporto civile tra organi costituzionali: la sentenza n. 117/2021 ne costituisce un felice esempio.

 

[1] Corte cost., sentenza n. 117, 7 giugno 2021, cit.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Sul punto, vedi anche Corte cost., sentenza n. 190, 31 luglio 2020.

[5] Corte cost., sentenza n. 117, 7 giugno 2021, cit.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Si prendano in considerazione, ad esempio, Corte cost., sentenza n. 284, 21 dicembre 2019, in tema di trattamento sanzionatorio previsto per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, di cui all’art. 341-bis cod. pen. oppure Corte cost., sentenza n. 30, 5 marzo 2021, in tema di esclusione dall’ambito applicativo dell’art. 131-bis cod. pen. del delitto testé menzionato.

[9] Così Corte cost., sentenza n. 233, 7 novembre 2018.

[10] “[l’] ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’entità della pena edittale è subordinata all’indicazione da parte del giudice a quo di previsioni sanzionatorie già rinvenibili nell’ordinamento, le quali, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore, una volta emendata dai vizi di illegittimità costituzionale addotti e riscontrati”, Corte cost., sentenza n. 117, 6 giugno 2021, cit. In tema, cfr., altresì, le già richiamate sentenze n. 40, 8 marzo 2019 e n. 233, 7 novembre 2018.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem. Soluzione comunque non praticabile, posto che il minimo edittale previsto dalla norma in questione è superiore a quello di cui all’art. 624-bis c.p. Il che solleciterebbe indebitamente la Corte ad aggravare in via pretoria il trattamento sanzionatorio.

[14] Ibidem.

[15] Ricorda a tal proposito la Corte che già in un’altra occasione aveva dichiarato la manifesta inammissibilità di una questione avente ad oggetto la richiesta di aggiungere ad una fattispecie delittuosa previsione di un’ipotesi attenuata di reato per le fattispecie di minore gravità (Corte cost., ordinanza n. 184, 10 giugno 2018).

[16] Corte cost., sentenza n. 117, 7 giugno 2021, cit. Si pensi, ad esempio, alla formulazione molto ampia (e problematica) del termine <<atti sessuali>> di cui all’art. 609-bis cod. pen., laddove l’ultimo comma della predetta norma consente una consistente riduzione di pena per le fattispecie di lieve entità.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] In tal senso, ex plurimis, la stessa Corte costituzionale richiama le sentenze n. 55, 31 marzo 2021; n. 73, 24 aprile 2020; n. 205, 29 dicembre 2017; n. 74, 20 aprile 2016; n. 251, 21 novembre 2012

[22] Ad esempio, si vedano Corte cost., sentenze n. 55, 31 marzo 2021;  n. 73, 24 aprile 2020;  n. 106 e n. 105,  17 giugno 2014; n. 251, 22 novembre 2012.

[23] Corte cost. sentenza n. 88, 8 maggio 2019, cit.

[24] Corte cost., sentenza n. 117, 7 giugno 2021, cit.

[25] Il riferimento a questa espressione per designare il nuovo orientamento della Corte costituzionale si deve a B. Liberali, “Le nuove dimensioni del volto costituzionale del sistema penale (sentenza n. 236 del 2016)”, in Quad. Cost., 2017, 381 ss. Per una comprensione piena della svolta giurisprudenziale in atto in tema di controllo sulla misura della pena, si rimanda alla lettura della (completissima) monografia di F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Giappichelli, Torino, 2021.

[26] Il riferimento va a Corte cost., sentenza n. 341, 3 agosto 1994.

Alvise Accordati

Alvise Accordati, veneziano, nato nel 1996 e residente a Venezia, consegue il diploma di maturità classica presso il Liceo-Ginnasio Statale "R. Franchetti" di Mestre nel 2015. Nel luglio 2021 si laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Ferrara, discutendo una tesi in Giustizia costituzionale dal titolo "Addio alle rime obbligate. La recente giurisprudenza costituzionale sulla dosimetria sanzionatoria" (relatore Prof. Pugiotto).Appassionato di giustizia costituzionale, diritto penale e diritto amministrativo, collabora con Ius in itinere dall'estate 2021. Vincitore del concorso Europa&Giovani 2020 bandito dall'Istituto Regionale di Studi europei di Pordenone con un tema di diritto amministrativo "L'Unione europea e la tutela dei dati personali: storia, sfide e prospettive". Particolarmente interessato alla storia tardoantica e medievale, alle lettere classiche e alla teologia, partecipa al gruppo under35 del Centro Studi R. Livatino. Attualmente è tirocinante ex art. 73, legge n. 98 del 2013, presso la Prima sezione penale della Corte d'appello di Venezia.

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