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Violenza contro le donne nella giurisprudenza della Corte EDU: da Opuz c. Turchia al caso Talpis

La violenza domestica e la violenza contro le donne rappresentano una delle principali sfide per i paesi del Consiglio d’Europa e per la Corte europea dei diritti dell’uomo. Una sfida, peraltro, di non facile soluzione: le donne vittima di violenza si trovano spesso in una situazione di soggezione all’interno del nucleo familiare e, senza adeguato supporto, decidono, per questo, di non denunciare gli autori di abusi e violenze. Conseguenza diretta di questo silenzio è la mancanza di statistiche realmente affidabili e che ci diano una concreta dimensione del fenomeno; in ogni caso, alcuni studi[1], compiuti sia a livello nazionale che internazionale, dimostrano come il fenomeno sia estremamente radicato nella società, diventando quasi un problema strutturale[2].

A livello internazionale sono svariati i documenti, le raccomandazioni e le convenzioni con cui si è cercato di contrastare il fenomeno[3], prima di tutto tentando di definire la questione[4] e cercando di ampliare il più possibile il novero di casi in cui le donne possono essere sottoposte a violenza, siano esse fisiche, verbali, psicologiche e finanche economiche[5]. Ciò dimostra come la comunità internazionale sia particolarmente sensibile alla questione: sugli Stati grava infatti l’obbligo di “esercitare la debita diligenza nel prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime[6].

Senza negare il valore di queste fonti di diritto internazionale, non vi è dubbio che una adeguata protezione per le donne vittime di violenza possa essere garantita solo mediante una più forte tutela di natura giurisdizionale[7]. In questo senso, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si è dimostrata altrettanto attenta al tema, dimostrando come sia necessario ampliare il più possibile la tutela per le donne vittime di violenza domestica qualora queste non siano adeguatamente protette dalle autorità nazionali.

Autentico leading case in materia è Opuz c. Turchia[8], in cui la Corte si è dovuta pronunciare su un ricorso presentato da una donna che ha subito, in svariate occasioni, violenze e abusi da parte del compagno e del patrigno. Pur avendo presentato più volte denunce ed esposti, la ricorrente è stata quasi sempre ignorata dalle autorità locali, che consideravano la questione un semplice “affare di famiglia”; questa indifferenza delle autorità ha poi portato ad una escalation di violenze e minacce sempre più gravi, culminate nell’uccisione della madre. La ricorrente lamenta, in questo senso, violazione degli artt. 2 e 3 CEDU in quanto le autorità si sono dimostrate incapaci di proteggere la vita e l’incolumità fisica della ricorrente e dei membri della sua famiglia.

Per determinare la responsabilità delle autorità, i giudici di Strasburgo seguono il criterio del cosiddetto Osman test, elaborato nell’omonima sentenza[9]. Secondo questo strumento metodologico, obblighi positivi di intervento in capo alle autorità sorgono qualora vi sia un rischio certo ed immediato[10] per la vita di un individuo; rischio che le stesse autorità conoscevano o avrebbero dovuto conoscere. I giudici di Strasburgo hanno però meglio definito i requisiti anzidetti, anche alla luce delle peculiari caratteristiche dei casi di violenza domestica: nella stessa pronuncia sul caso Opuz, la Corte specifica che un rischio sussiste anche qualora questo sia continuo[11], ovvero sia probabile, anche tenendo conto di precedenti casi di abusi e violenze, che si ripresenti in futuro. In questo senso, si segnalano le parole del giudice Pinto de Albuquerque nella sua dissenting opinion sul caso Valiulienė c. Lituania[12]: secondo il giudice portoghese, infatti, un rischio per la vita di una donna vittima di violenza domestica può anche non essere immediato in quanto “it is already a serious risk when it is present”. Per quanto riguarda l’esistenza del rischio, dunque, la Corte sta adottando un approccio sempre meno formalistico, considerando la questione alla luce delle circostanze di ogni singolo caso e alle esigenze di tutela e protezione delle donne vittime di violenza domestica.

Conseguentemente, qualora questo rischio effettivamente sussista, la responsabilità delle autorità sorge qualora queste non abbiano preso tutti quei provvedimenti che, ragionevolmente, avrebbero potuto evitare la materializzazione del predetto rischio[13]. Certamente, nel caso di specie, le ripetute inadempienze delle autorità, sia in sede di denuncia, rimanendo sostanzialmente inerti di fronte agli esposti della vittima, sia nel mettere in atto qualsivoglia provvedimento adeguato a proteggere la vita della ricorrente e degli altri membri del nucleo familiare. Altrettanto fuori di dubbio è però il fatto che la questione resta particolarmente spinosa, in quanto potrebbe facilmente porre in capo alle autorità un onere eccessivo o sproporzionato rispetto al particolare rischio a cui l’individuo è esposto. Una risposta pratica può essere desunta dalla pronuncia della Corte sul caso Rumor c. Italia[14]: in questo caso, la Corte non ha ravvisato responsabilità delle autorità in quanto queste avevano prontamente agito a seguito delle denunce presentate dalla ricorrente nei confronti del compagno violento, arrestandolo e condannandolo ad un periodo di carcere per le violenze commesse. Un altro caso che può essere utile considerare è la recente sentenza Talpis c. Italia[15]: in questo caso, la ricorrente ha subito svariate minacce e violenze fisiche e ha più volte presentato esposti contro il marito, salvo poi ritirare la denuncia e ridimensionare o minimizzare l’accaduto. Anche su questo punto, la Corte sta adottando un atteggiamento molto pragmatico: come evidenziato da diverse ricerche[16], infatti, episodi di violenza domestica possono avvenire anche su un lungo periodo di tempo e non sempre seguendo una escalation regolare in intensità e frequenza; è necessario dunque guardare alla questione da una prospettiva che tenga conto delle circostanze complessive del caso, nonché della situazione di forte disagio, debolezza e oppressione che la donna si trova ad affrontare[17]. È sicuramente criticabile[18], per questo motivo, l’opinione dissenziente del giudice Spano allegata alla sentenza sul caso Talpis, il quale non ritiene vi sia una responsabilità delle autorità in quanto non rispettato il criterio dell’immediatezza previsto dall’Osman test: non vi è dubbio che una prospettiva più ampia sull’intera vicenda possa permettere alle autorità non solo di prevedere il rischio, ma anche di agire con i provvedimenti più adatti a garantire effettiva tutela alla vittima[19].

Un’ulteriore evoluzione la si può osservare anche per quanto riguarda l’esistenza di un profilo discriminatorio nella condotta delle autorità[20]. La pronuncia sul caso Talpis, nella quale la Corte ha ravvisato violazione dell’art. 14 CEDU, è infatti frutto di un progressivo cambiamento nel modo in cui la Corte considera l’esistenza di una possibile discriminazione fondata sul genere.

In un primo momento[21], la Corte dichiara violato il divieto di discriminazione in presenza di tre elementi, ossia (1) ripetute inadempienze delle autorità, (2) un generale atteggiamento di disinteresse delle stesse ovvero il tentativo di minimizzare l’accaduto e (3) il fatto che le autorità nazionali non si siano ancora adeguate agli standard internazionali relativamente alla protezione di donne vittime di violenza domestica. Su quest’ultimo punto, occorre precisare che la Corte ha più volte ribadito come, dall’art. 14 CEDU, discende l’obbligo, in capo alle autorità nazionali, di trattare in maniera diversa soggetti che, in relazione alle particolari circostanze del caso di specie, si trovano in situazioni sensibilmente differenti[22]; ciò è necessariamente ancora più vero quando il soggetto in questione sia una donna vittima di violenza di genere e violenza domestica, la quale necessita di una particolare protezione da parte delle autorità in quanto vulnerabile ed esposta ad un rischio per la sua incolumità[23]. Quanto detto, rende quantomeno necessario che gli Stati appartenenti al sistema del Consiglio d’Europa si adeguino ad un minimo standard di tutela e protezione.

Senonché, nella pronuncia Mudric c. Moldavia[24], la Corte lascia cadere il secondo requisito il quale, pur mantenendo una certa importanza, può comunque essere desunto dalle ripetute inadempienze delle autorità; dette inadempienze possono infatti dimostrare come le autorità non abbiano avuto la capacità e la sensibilità di comprendere la serietà della questione[25]. Ciò è confermato dalla pronuncia nel caso Talpis, nel quale la Corte ha ribadito come “l’inadempimento – anche involontario – di uno Stato al suo obbligo di proteggere le donne dalla violenza domestica costituisce una violazione del diritto di queste ultime ad una pari tutela da parte della legge[26].

[1] Secondo lo “Studio rappresentativo dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) “Violenza contro le donne: un’indagine a livello di Unione europea”, condotto dalla European Union Agency for Fundamental Rights (FRA) nel 2014 quasi una donna su quattro ha subito violenza fisica e/o sessuale durante una relazione e solo il 14% di queste ha poi denunciato l’accaduto; a livello globale, la World Health Organization (WHO) nel suo rapporto “Global and regional estimates of violence against women: prevalence and health effects of intimate partner violence and non-partner sexual violence” del 2013, ha stimato che più del 30% delle donne ha subito violenza e, in particolare, il 38% degli omicidi che ha visto coinvolta una donna è stato compiuto da un partner o da un ex partner.

[2] Si veda in questo senso, Spinelli B., Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Milano, Franco Angeli, 2008.

[3] Si segnalano, ex multis, non soltanto la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (2011), ma anche la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW, 1981), la Dichiarazione sull’eliminazione di ogni violenza contro le donne (DEVAW, 1993) nonché la Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulla protezione delle donne contro la violenza, Rec(2002)5.

[4] Si segnala in questo senso l’art 3 lett. a), b) e c) della Convenzione di Istanbul, secondo le quali la violenza contro le donne e la violenza di genere corrispondono a “tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti (…), sia nella vita pubblica, che nella vita privata (…) diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”; in particolare, la violenza domestica sussiste quando queste violenze “si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.

[5] Rientrano in questa categoria tutti quegli atti che possono in qualche modo ostacolare la possibilità che una donna possa accedere a risorse economiche, ad esempio sfruttandone il lavoro o vietandone o limitando l’accesso al mondo del lavoro.

[6] Convenzione di Istanbul, art. 5 §2.

[7] Che comunque non manca anche a livello internazionale, si vedano in questo senso le pronunce della Corte Interamericana sui casi González e altri (“Campo Algodonero”) c. Messico, 16 novembre 2009, e Pueblo Bello Massacre c. Colombia, sentenza 31 giugno 2006.

[8] Corte EDU, Opuz c. Turchia, ricorso n. 33401/02, sentenza 9 giugno 2009.

[9] Corte EDU, Osman c. Regno Unito, ricorso n.  23452/94, sentenza 28 ottobre 1998, §116.

[10] Per certezza si intende la concreta possibilità che un rischio si materializzi qualora non vengano poste in essere adeguate misure di protezione; al contrario, l’immediatezza sussiste invece qualora detto rischio si possa materializzare in qualsiasi momento, in un dato lasso di tempo. In questo senso si veda Ebert F. C., Sijniesky R. I., Preventing Violations of the Right to Life in the European and the Inter-American Human Rights Systems: From the Osman Test to a Coherent Doctrine on Risk Prevention?, Human Rights Law Review, 2015, 15, p. 344

[11] Corte EDU, Opuz c. Turchia, cit., §134.

[12] Corte EDU, Valiulienė c. Lituania, ricorso n. 33234/07, 26 marzo 2013.

[13] Corte EDU, Opuz c. Turchia, cit., §129.

[14] Corte EDU, Rumor c. Italia, ricorso n. 72964/10, sentenza 27 maggio 2014.

[15] Corte EDU, Talpis c. Italia, ricorso n. 41237/14, sentenza 2 marzo 2017.

[16] Spinelli B., Manjoo R., Femicide and feminicide in Europe. Gender-Motivated Killings of women as a results of intimate partner violence, Expert group meeting on gender-motivated killings of women organized by the UN Special Rapporteur on Violence against Women, its causes and consequences, 2011.

[17] Situazione che, come abbiamo già avuto modo di vedere, può portare le vittime a decidere di non denunciare i propri aggressori, temendo violente ripercussioni.

[18] E si veda anche, in questo senso, Van Leeuwen F., The ‘limits of human rights law’: dissenting androcentric voices in Talpis v. Italy, Strasbourg Observer, 30 maggio 2017 (https://strasbourgobservers.com/2017/05/30/the-limits-of-human-rights-law-dissenting-androcentric-voices-in-talpis-v-italy/).

[19] Possiamo altresì riprendere le parole del giudice Pinto de Albuquerque il quale, nella già citata opinione dissenziente nel caso Valiulienė c. Lituania, afferma come una applicazione troppo formale dell’Osman test ai casi di violenza domestica sarebbe somehow artificial, even deleterious”.

[20] Peroni L., Talpis v. Italy: Elements to Show An Article 14 Violation in Domestic Violence Cases, Strasbourg Observer, 19 aprile 2017 ).

[21] Corte EDU, Eremia c. Moldavia, ricorso n. 3564/11, sentenza 28 maggio 2013; Corte EDU, T.M. e C.M. c. Moldavia, ricorso n. 26608/11, sentenza 28 gennaio 2014.

[22] Ex multis, Corte EDU, Thlimmenos c. Grecia, ricorso n. 34369/97, sentenza 6 aprile 2000, §38.

[23] Viviani A., La violenza contro le donne nell’interpretazione della Corte di Strasburgo in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2010, p. 411; Corte EDU, Bălșan c. Romania, n. 49645/09, 23 maggio 2017, §82; Corte EDU, T. M. e C. M. c. Moldavia, cit., §60.

[24] Corte EDU, Mudric c. Moldavia, ricorso n. 74839/10, sentenza 16 luglio 2013.

[25] Per usare le parole della Corte nella pronuncia Opuz c. Turchia, si può affermare come vi sia stato “insufficient commitment to take appropriate action to address domestic violence” (§200).

[26] Corte EDU, Talpis c. Italia, cit., §141.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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