Il caso Volodina, la Corte EDU denuncia la sistematicità della violenza domestica in Russia
“Il governo russo non vede la violenza domestica come un ‘problema serio’ e ritiene che le sue dimensioni siano esagerate”. Così è scritto in una lettera, recentemente pubblicata sul quotidiano moscovita Kommersant, [1] del Ministero della giustizia russo alla Corte europea dei diritti dell’uomo in merito allo stato della violenza sulle donne nella Federazione. La lettera era stata inviata in risposta a quattro ricorsi presentati alla Corte europea da donne russe, vittime di violenza, che si lamentavano di non aver ottenuto giustizia presso i tribunali nazionali tra il 2016 e il 2018. Il Ministero avrebbe, così, negato l’aumento della violenza di genere nel paese.
Quanto affermato dal Governo russo è tuttavia smentito dalla realtà dei fatti. Secondo un sondaggio del Levada Center pubblicato un anno fa, un terzo delle donne in Russia ha subìto forme di violenza domestica. Numerosi report di organizzazioni internazionali denunciano costantemente la diffusa violenza contro le donne in Russia: già tre anni fa le Nazioni Unite avevano rilevato che circa 14 mila donne russe perdono la vita a causa di violenza da parte del marito o del partner [2].
La questione in esame è stata, di recente, portata all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito, “Corte EDU”), che, con la storica sentenza Volodina v. Russia ha condannato Russia per violazione dell’art. 3 e dell’art. 14 CEDU, riconoscendo l’esistenza di un problema strutturale su larga scala quando si parla di violenza domestica.
I fatti e la sentenza Volodina
La ricorrente, Valeriya Volodina, ha lamentato di aver sofferto una serie di violenze domestiche perpetrate dal suo ex partner (Mr. S). Durante i tre anni della relazione, S. avrebbe aggredito, stalkerato, minacciato, derubato e intimidito la donna. La stessa ha riferito di aver subìto un aborto a causa di un pugno nello stomaco. S. avrebbe anche pubblicato online senza consenso fotografie private della richiedente e avrebbe nascosto nella sua borsa un rintracciatore GPS. La ricorrente ha inoltre denunciato la totale inerzia ed indifferenza delle forze di polizia locali, nonostante le ripetute denunce. Nel 2018, non avendo trovato alcuna forma di protezione da parte delle autorità nazionali, la ricorrente è stata costretta a cambiare identità perché S. non la trovasse.
Nell’esame della situazione di Volodina, la Corte EDU ha fatto riferimento a svariate fonti di diritto internazionale per giungere alla sentenza di condanna della Russia. In particolare, la Corte europea ha richiamato numerosi report, incluse le conclusioni del Comitato della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW Committee’s conclusion [3]) in cui si afferma che il divieto di violenza su base di genere è un principio di customary international law (di diritto internazionale consuetudinario). La Corte ha anche citato il report dello Special Rapporteur on Violence against Women a seguito della sua missione in Russia nel 2004, in cui racconta di esser venuto a contatto con norme patriarcali e valori sociali che considerano il marito superiore alla moglie, la violenza domestica un problema privato, incolpano le donne di provocare gli abusi, non puniscono le violenze stesse, e permettono alle autorità di reiterare che “un uomo che picchia è un uomo che ama”, secondo un vecchio proverbio russo.
Sulla scorta di tali fonti, la Corte ha riconosciuto innanzitutto la sussistenza di una violazione dell’art. 3 CEDU. Ad opinione dei giudici, i sentimenti di paura, ansia e senso di impotenza che la donna aveva provato a causa del comportamento coercitivo dell’aggressore avevano raggiunto quel determinato “level of severity” tale da integrare un “trattamento inumano” ai sensi della Convenzione [4].
La Corte ha poi analizzato la questione sotto il profilo degli obblighi incombenti sullo Stato in tali situazioni, individuandone tre: i) l’obbligo di stabilire ed applicare un adeguato framework legale e di adottare misure positive di protezione delle vittime; ii) l’obbligo di prevenire il rischio consapevole di trattamenti inumani; iii) l’obbligo di condurre un’indagine effettiva in casi di violenza. Innanzitutto, l’ordinamento giuridico russo risultava carente, non prevedendo la violenza domestica come crimine e non punendo tale comportamento neppure sotto forma di aggravante. Le norme russe considerano la violenza domestica come inclusa nel generale concetto di “violenza contro una persona”[5]. Inoltre, la violenza domestica è presa in considerazione solo nel momento in cui viene commessa per la seconda volta nell’arco di 12 mesi e assume valore solo qualora sia di una “certa gravità” (fisica), con la conseguenza che forme non fisiche, ma psicologiche, di violenza, non sono minimamente considerate. Infine, la violenza può essere fatta valere solo su iniziativa del privato, mancando l’obbligo dell’azione penale da parte del PM, come accade invece in italia [6]. Con riguardo al caso di specie, i giudici della Corte EDU hanno evidenziato che le autorità russe non avevano preso alcuna precauzione in seguito alla denuncia delle prime violenze da parte della donna (ad es. nessun ordine restrittivo era stato emesso nei confronti dell’aggressore) [7]. In ultimo, la Corte EDU ha rilevato che nel caso della ricorrente, la polizia si era limitata ad avviare delle mere indagini preliminari a distanza di due anni dalle denunce presentata dalla stessa. Non soltanto, dunque, nessun processo era stato avviato, ma un tale eccessivo decorso del tempo aveva portato a un deterioramento delle prove riguardanti la violenza domestica subìta (soprattutto per quanto riguarda la mancanza di un riscontro medico immediato)[9]. La Corte ha quindi concluso per la condanna della Russia anche sotto il profilo procedurale.
La Corte ha dovuto poi stabilire se le autorità avessero violato anche il divieto di discriminazione imposto dall’art. 14 CEDU, affermando che “substantive gender equality requires a gender-sensitive interpretation and application of the Convention” e tenendo conto delle ineguaglianze fattuali tra uomini e donne e del loro impatto sulle donne. La Corte ha reiterato che la violenza contro le donne, inclusa la violenza domestica, è una forma di discriminazione contro le donne e ha concluso affermando che la violenza domestica è sproporzionatamente diffusa in Russia. Le autorità interne non hanno preso in considerazione misure legislative atte a diffondere equità di genere (c.d. gender equality) e, per di più, si sono mostrate riluttanti ad affrontare il problema (che ormai è serio e capillare) e il suo legame con la discriminazione di genere, tollerando inoltre comportamenti che hanno portato ad atti di violenza domestica. La Corte, dunque, si è pronunciata nel senso di una violazione dell’art. 14 CEDU.
È stato il primo giudizio in materia di violenza domestica in cui la Russia è risultata responsabile, ed è arrivato subito dopo le recenti modifiche nella legge interna del paese, che avevano ridotto o eliminato le sanzioni a chi fosse stato giudicato colpevole di violenza domestica.
[1] Yuri Colombo, “Russia, «la violenza di genere non esiste»”, Il Manifesto, 22 novembre 2019. Disponibile a https://ilmanifesto.it/russia-la-violenza-di-genere-non-esiste/
[2] Olga Merlin, “Violence against women in Russia: 13 million victims every year”, 30 maggio 2013. Disponibile a http://feriteamorte.it/eng/violence-against-women-in-russia-13-million-victims-every-year/
[3] Committee on the Elimination of Discrimination against Women, General recommendation No. 35 on gender-based violence against women, updating general recommendation No. 19, 14 luglio 2017. Disponibile a https://tbinternet.ohchr.org/Treaties/CEDAW/Shared%20Documents/1_Global/CEDAW_C_GC_35_8267_E.pdf
[4] Corte EDU, “Volodina v. Russia“, 9 luglio 2019, par. 74. Disponibile a https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-194321%22]}
“The violence suffered by the applicant at the hands of her former partner had reached the required level of severity under Article3. The feelings of fear, anxiety and powerlessness that the applicant must have experienced in connection with his controlling and coercive behaviour were sufficiently serious as to amount to inhuman treatment within the meaning of this provision.”
[5] Idem, par. 80. “Russia had not enacted specific legislation to address violence occurring within the family context. Neither a law on domestic violence nor any other similar laws had ever been adopted. The concept of “domestic violence” or any equivalent thereof was not defined or mentioned in any form in the Russian legislation. Domestic violence was not a separate offence under either the Criminal Code or the Code of Administrative Offences. Nor had it been criminalised as an aggravating form of any other offence. The Russian Criminal Code made no distinction between domestic violence and other forms of violence against the person.”
[6] Idem, par. 81. “[..] assault on family members was now considered a criminal offence only if committed for a second time within twelve months or if it had resulted in at least “minor bodily harm”. The Court had previously found that requiring injuries to be of a certain degree of severity as a condition precedent for initiating a criminal investigation undermined the efficiency of the protective measures in question, because domestic violence could take many forms, some of which did not result in physical injury – such as psychological or economic abuse or controlling or coercive behaviour.”
[6] Idem, par. 82. “Russian law left the prosecution of charges of “minor harm to health” and “repeat battery” to the private initiative of the victim. The effective protection of the Convention right to physical integrity did not require public prosecution in all cases of attacks by private individuals.”
[7] Idem, par. 90. “A criminal case had been opened for the first time more than two years after the first reported assault. It had not related to any violent act but to the much lesser offence of interference with the applicant’s private life.”
[8] Idem, par. 95. “When confronted with credible allegations of ill-treatment, the authorities had had a duty to open a criminal case; a “pre-investigation inquiry” alone had not met the requirement for an effective investigation under Article 3. That preliminary stage had too restricted a scope and could not lead to the trial and punishment of the perpetrator, since the opening of a criminal case and a criminal investigation were prerequisites for bringing charges that might then be examined by a court.”
[9] Idem, par. 96. “Police officers’ reluctance to initiate and carry out a criminal investigation in a prompt and diligent fashion had led to a loss of time and undermined their ability to secure evidence concerning the domestic violence. Even when the applicant had presented visible injuries, a medical assessment had not been scheduled immediately after the incident. The police officers had employed a variety of tactics that enabled them to dispose of each inquiry in the shortest possible time.”
Classe 1996, laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università degli studi di Trieste. Studentessa presso la Scuola di giornalismo Lelio Basso a Roma. Collaboratrice dell’area di diritto internazionale con particolare interesse per i diritti umani.