martedì, Dicembre 3, 2024
Criminal & Compliance

Favoreggiamento personale e partecipazione

Prosegue l’analisi del reato di favoreggiamento di cui all’art. 378 c.p. già ritenuta ammissibile la sua configurabilità durante la fase della permanenza, rimanendo da affrontare la questione relativa al criterio da utilizzare per distinguere quando, in tale ipotesi, si è di fronte ad una condotta di favoreggiamento e quando ad una forma di partecipazione.

Secondo un orientamento dottrinario, per risolvere tale quesito, è necessario partire dall’analisi della disciplina del concorso di persone accolta dal legislatore del 1930. Gli artt .110 e ss c.p. sono ispirati ad un modello unitario, basato sull’efficienza causale delle singole condotte nei confronti dell’evento lesivo. Nella fattispecie concorsuale, quindi, tutte le condotte confluiscono nella lesione o nella messa in pericolo di un unico bene giuridico. E’ quindi attraverso un attento esame del bene giuridico offeso che possiamo stabilire quando ci troviamo di fronte ad una condotta di favoreggiamento e quando ad un concorso in un reato permanente: se la condotta va ad incidere sul complesso delle attività di investigazione e ricerche svolte dall’Autorità ad esse preposta, sarà configurabile il reato di cui all’art. 378 c.p.; se invece l’azione di ausilio si pone in contrasto con lo stesso oggetto giuridico tutelato dal reato presupposto, sarà prospettabile una responsabilità concorsuale ai sensi degli artt. 110 e ss. c.p. Questa impostazione privilegia, come strumento per selezionare le diverse fattispecie, l’elemento oggettivo, cioè la condotta posta in essere dall’agente in relazione alla lesione o messa in pericolo del bene tutelato dalla specifica norma.

Secondo un altro orientamento, la griglia selezionatrice delle diverse condotte illecite viene individuata nella valutazione dell’elemento psicologico. In particolare si afferma come sia limitativo dare peso esclusivamente al connotato oggettivo dell’efficacia causale della condotta, in quanto non sempre, in presenza di una condotta che contribuisce casualmente al mantenimento dello stato antigiuridico creato dalla fattispecie permanante, è possibile escludere il favoreggiamento e ritenere sussistente una forma di partecipazione. Si pensi al caso del soggetto che opera senza essere a conoscenza che un reato è stato commesso e che è tuttora in corso, essendo di natura permanente: in tal caso non si può ravvisare alcuna responsabilità, nè ai sensi dell’art 378 c.p., nè ex art 110 c.p., per mancanza dell’elemento soggettivo di entrambe le fattispecie. Può poi accadere che l’agente sappia che un reato è stato commesso, ma supponga erroneamente che la permanenza sia cessata (ex perchè l’ostaggio è stato liberato): tale soggetto, se ha agito per aiutare ad eludere le investigazioni e le ricerche dell’autorità, potrà rispondere per favoreggiamento.
Secondo tale orientamento quindi, se in capo all’agente non si è configurato l’elemento soggettivo concorsuale, ma quello diverso dell’art 378 c.p., è ravvisabile una responsabilità a titolo di favoreggiamento.

Sul punto la Corte di Cassazione ha disposto che: ” se, nel corso dell’azione relativa al reato permanente posto in essere da taluno, altri intervenga per prestare la propria opera, in quest’ultima condotta deve ravvisarsi alternativamente il concorso nel reato permanente o il delitto di favoreggiamento personale, secondo una concreta valutazione dell’elemento soggettivo. Il giudice di merito deve, perciò, portare il suo esame sull’animus dell’agente per accertare se in lui vi fosse l’intenzione di partecipare positivamente all’azione già posta in essere da altri oppure di aiutare il responsabile del reato ad eludere le investigazioni dell’autorità.“(I)
Riteniamo però che il ricorso in via esclusiva alla valutazione dell’animus dell’agente non sia un metodo efficace ed idoneo per selezionare i casi di favoreggiamento rispetto a quelli di concorso, in quanto sul piano probatorio, non consente una netta demarcazione. Inoltre sotto il profilo probatorio è spesso difficile accertare, sulla base delle risultanze processuali, quale sia stata l’esatta rappresentazione e volizione dell’agente.
L’accertamento è già complicato nelle ipotesi di reati a dolo generico, in cui il soggetto deve rappresentarsi e volere il fatto che realizza la consumazione del reato(II), ma la questione si complica laddove ci si trovi di fronte ad un reato a dolo specifico, cioè ad una fattispecie che si caratterizza per la circostanza che l’agente si rappresenta e vuole la realizzazione di un fatto, con lo scopo di provocare un ulteriore evento, il cui verificarsi non è necessario per la consumazione del reato (ad esempio l’associazione a delinquere, ove l’associato, oltre alla coscienza e alla volontà di associarsi con altri, che peraltro è un fatto pienamente lecito, deve agire con lo scopo di commettere più delitti).

In tale tipo di reati, quindi, secondo l’orientamento sopra riportato(III), si dovrebbe dimostrare, per ritenere sussistente il concorso nel reato permanente, che in capo all’agente si è configurata, oltre alla coscienza e alla volontà di concorrere alla realizzazione del fatto materiale, anche la volontà di quell’evento ulteriore, che può anche non essersi verificato. Questa impostazione abbraccia la teoria della funzione costitutiva dell’elemento psicologico ai fini della rilevanza penale delle condotte di partecipazione accessoria. E’ tuttavia preferibile quella diversa concezione secondo cui l’elemento soggettivo della fattispecie concorsuale non ha la funzione di caratterizzare la partecipazione ma, al contrario, si adatta alla circostanza che il reato viene commesso da più persone. Da ciò deriva che, l’elemento soggettivo segue la regola generale secondo cui tutto ciò che costituisce il fatto criminoso deve riflettersi nel complesso delle rappresentazioni e volizioni dell’agente. Il concorrente dovrà quindi avere la coscienza e la volontà del fatto, a cui si accompagna, necessariamente, la consapevolezza e la volontà di concorrere con più persone alla realizzazione di un reato comune.(IV) “Nel ‘fatto’ viene ricompreso anche l’elemento psicologico altrui, che subisce cosi un processo di oggettivizzazione. “(V)
Seguendo tale impostazione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ammesso la possibilità di concorso con dolo generico in un reato a dolo specifico. Nel configurare una volta per tutte il concorso esterno in associazione mafiosa hanno stabilito che: “non è affatto richiesto che in questo reato, il concorrete eventuale abbia la volontà di far parte dell’associazione e la volontà di realizzare i fini propri dell’associazione, essendo sufficiente che abbia la consapevolezza che altri fa parte ed ha voglia di far parte dell’associazione e agisce con la volontà di perseguirne i fini. Ciò significa che il concorrente eventuale, pur consapevole di agevolare, con quel contributo, l’associazione, può disinteressarsi della strategia complessiva di quest’ultima e degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire.”(VI)
Tale principio è stato ribadito da sentenze successive(VII), ma è stato anche stemperato da una decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte che, sempre ammettendo al configurabilità del concorso ex art. 110 c.p. nel reato di cui all’art. 416 bis, richiede in capo all’extraneus un elemento soggettivo di colorazione più intensa rispetto al dolo generico sopra descritto, in quanto ritiene sempre necessaria la sussistenza di un dolo diretto, così motivando: ”Nel reato di associazione per delinquere l’evento è la sussistenza ed operatività del sodalizio, siccome idoneo a violare l’ordine pubblico ovvero gli altri beni giuridici tutelati dalle particolari previsioni legislative, la cui attuazione avviene attraverso la realizzazione del programma criminoso. Ne consegue, di necessità, che non può postularsi la figura di un concorrente esterno, nel cui agire sia presente soltanto la consapevolezza che altri agisca con la volontà di realizzare il programma di cui sopra. Deve, al contrario, ritenersi che il concorrente è tale quando, pur estraneo all’associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.”(VIII)

Per saggiare il grado di incertezza riscontrabile nella giurisprudenza che si è occupata della distinzione tra responsabilità a titolo associativo, da un lato, e favoreggiamento personale aggravato, dall’altro, è utile prendere le mosse da un’articolata sentenza pronunziata dalla Cassazione, nella cui premessa in diritto si afferma, tra l’altro, che: “l’elemento differenziale, oltre che nell’atteggiamento psicologico, consiste propriamente nelle modalità con cui l’aiuto viene dato, nel senso che l’aiuto sistematicamente e permanentemente prestato configura l’ipotesi di reato associativo, mentre l’episodicità di tale aiuto dà vita all’ipotesi di favoreggiamento, sia pure aggravato ex secondo comma dell’art. 378 c.p.“(IX)

Impostata così la questione, appare da subito chiaro che i giudici di legittimità tendono ad allontanarsi dal tradizionale discrimine tra le due figure delittuose fondato sul criterio della destinazione della prestazione di aiuto, se cioè fornita al singolo associato ovvero all’associazione nel suo complesso, per seguirne un altro fondato viceversa sulla continuità o episodicità della condotta di fiancheggiamento tenuta dall’agente. Sennonchè, andando a sbirciare all’interno del sindacato di legittimità ci si accorge che le cose non stanno proprio così come sembrerebbe che stiano ad una lettura della sentenza soltanto per ‘massime’. Prendiamo il caso riguardante un tal Giaconia, condannato in primo e secondo grado per favoreggiamento pluriaggravato. La difesa sosteneva nel ricorso che , tra l’altro, “gli elementi emersi avrebbero dovuto indurre i giudici di merito a ritenere che l’imputato avesse la volontà di favorire soltanto il capo e non l’associazione in quanto tale e che, per tale ragione, fossa da escludere la sussistenza dell’aggravante del fine di agevolare l’associazione medesima.” (X)

Ebbene, in termini generali , la Cassazione, da un canto , mette in guardia l’interprete dall’avvalersi in punto di fatto di meccanismi presuntivi per decidere simili questioni , osservando che “il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un’associazione mafiosa non determina di per sé in ragione esclusivamente dell’importanza di questi all’interno dell’associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, la sussistenza dell’aggravante prevista dall’art 7, D. L. n. 152/1999“.

D’altro canto, sempre in termini generali ma stavolta volendo argomentare più marcatamente in punto di diritto, la Cassazione rileva che per ritenere integrato il favoreggiamento nella forma aggravata, occorre “distinguere l’aiuto prestato alla persona da quello prestato all’associazione“: in tal modo recuperando, quindi, il tradizionale criterio distintivo tra concorso nell’associazione e favoreggiamento per segnare stavolta il confine oltre il quale poter applicare congiuntamente a quest’ultima fattispecie l’aumento di pena derivante dal riscontro in capo all’agente al fine di agevolare l’associazione mafiosa.

Tutto ciò premesso, i giudici di legittimità, passando a vagliare il caso di specie, considerano non fondate le suddette prospettazioni difensive, in quanto “proprio in base a tale distinzione si è ritenuta la sussistenza dell’aggravante in questione, laddove la volontà del Giaconia di favorire l’associazione è stata dedotta non soltanto dall’aiuto prestato sotto molteplici aspetti all’esponente del vertice, ma anche dall’utilizzo del suo negozio come punto di scambio di messaggi riservati per mantenere i contatti con gli altri associati; dalla collaborazione da lui data, insieme ad altri esponenti dell’associazione, nel trasporto di armi da un paese all’altro ecc“.

E non paga di aver motivato il rigetto del ricorso difensivo facendo leva soprattutto sul rilievo dato dai giudici di merito alla pluralità di apporti forniti agli associati dall’extraneus, la Cassazione ritiene anche di poter trarre dal caso specifico una sorta di massima d’esperienza potenzialmente generalizzabile ad altri casi “i frequenti e proficui rapporti di collaborazione con più esponenti, anche di spicco, di una associazione mafiosa ben possono essere valutati come elementi di prova validi per suffragare la sussistenza dell’aggravante di cui all’art 7″.

Ora, non si può far a meno di rilevare come la condotta così minuziosamente descritta dai giudici di legittimità è vero che, oggettivamente, offre una base congeniale per affermare che l’imputato ha agito al fine di agevolare le attività dell’associazione mafiosa e che quindi nel caso di specie sussistevano i presupposti per l’applicazione della relativa aggravante; ma non si capisce per quale ragione la stessa condotta espressamente ritenuta sfornita di quel carattere di episodicità necessario – secondo i medesimi giudici – per farla rientrare nella fattispecie di favoreggiamento, non sarebbe dovuta rientrare, piuttosto, nel paradigma punitivo del reato associativo, se non a titolo di partecipazione, quantomeno in forza del concorso criminoso.

E se certamente in quell’occasione non competeva alla Cassazione riqualificare penalmente la condotta, forse non si può dire altrettanto in ordine alla ragionevolezza e coerenza del governo dei principi di diritto a cui i giudici di merito hanno dichiarato di uniformarsi. E invero, affermare che per distinguere la responsabilità a titolo associativo da quella per favoreggiamento si farà ricorso, rispettivamente, alla continuità o episodicità dell’aiuto prestato, da cui dedurre appunto, la funzionalità della condotta all’intera associazione ovvero al singolo associato, e poi inquadrare invece un caso concreto entro la fattispecie di favoreggiamento, facendo leva, da un lato, sulla natura episodica dell’aiuto per evitare il possibile inquadramento entro la fattispecie associativa, ma , dall’altro, sulla pluralità di apporti volti a favorire una pluralità di associati per contestare l’aggravante del fine di agevolare l’associazione, significa portare a corto circuito le fila dell’intero ragionamento decisorio.

In tal modo, infatti, una stessa condotta viene valutata, una prima volta – cioè nel momento in cui si decide se applicare la fattispecie associativa o il reato di favoreggiamento – oggettivamente episodica e diretta ad aiutare il singolo associato, e , una seconda volta – e cioè quando si tratta di accertare i requisiti dell’aggravante speciale – soggettivamente diretta ad agevolare l’intera associazione in quanto oggettivamente funzionale alla vita dell’organizzazione mafiosa nel complesso considerata. Sembrerebbe quindi che in questa materia una buona parte dei problemi sorgano anche a causa di una sorta di tendenziale ripulsa giurisprudenziale verso la stabilizzazione di criteri interpretativi in qualche misura suscettibili di rendere meno esposta a ripetuti e imprevedibili mutamenti l’applicazione della legge penale.

Soltanto un anno dopo la sentenza commentata, i giudici di legittimità tentano di imprimere una svolta a questa sorta di anarchia interpretativa in materia di rapporti tra responsabilità associativa e favoreggiamento aggravato. E’ la sezione VI della Cassazione che, proseguendo una impegnativa <> diretta a rivisitare addirittura l’intera giurisprudenza formatasi in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso, non rinuncia a dire la sua sull’argomento in discorso, ma stavolta su un terreno congeniale al pronunciamento in sede di legittimità, ossia la contestazione ai giudici di merito palermitani di aver commesso veri e propri errori di diritto, e in particolare di essersi serviti nel caso di specie di criteri giuridicamente censurabili nel distinguere a fini applicativi il concorso nel reato associativo dal favoreggiamento personale aggravato.
La Corte di Appello di Palermo, confermando la condanna ai sensi degli art 110 e 416 bis c.p. riportata in primo grado da due soggetti ai quali si imputava di “avere contribuito sistematicamente alle attività ed agli scopi dell’associazione criminosa cosa nostra, in particolare fornendo a Zanca Carmelo e Alfano Paolo, appartenenti con ruolo di particolare caratura al sodalizio ed entrambi latitanti perché condannati, fra l’altro, per associazione mafiosa, apporti logistici al fine di salvaguardarne lo stato di latitanza e di svolgere attività riconducibili all’organizzazione mafiosa e comunque mantenendo i contatti con appartenenti all’associazione allo scopo di agevolare il perseguimento dei fini dell’associazione medesima”, aveva spiegato in sentenza le ragioni per le quali le condotte su descritte andavano ricondotte all’ipotesi concorsuale esterna e non al favoreggiamento. E proprio sui criteri a cui i giudici di merito dichiarano di affidarsi si appunta la severa censurare della Cassazione, la quale riporta alcuni passi della motivazione della sentenza impugnata per evidenziarne l’erroneità in punto di diritto. Innanzitutto, l’aver ritenuto non ipotizzabile il favoreggiamento continuato in ordine ad un reato presupposto di tipo permanente come l’associazione per delinquere in quanto traducentesi sempre in una condotta in concorso: secondo i giudici di legittimità è “davvero facile contestare che la configurabilità del  delitto di favoreggiamento, sotto il profilo del rapporto cronologico con il reato principale, postula necessariamente che la commissione di quest’ultimo, nel suo momento iniziale, sia anteriore alla condotta assunta come favoreggiatrice, ma non anche che il reato principale sia già esaurito nell’atto in cui detta condotta viene posta in essere”.

Fino a questo punto, pertanto la Corte ribadisce un principio oramai consolidato in giurisprudenza, ossia quello che afferma la configurabilità del favoreggiamento anche nei casi in cui il reato principale è di tipo permanente come quello associativo; principio, però, che stranamente risulta ciclicamente disatteso alla bisogna dai giudici di merito, come del resto già notato in alcuni indirizzi della giurisprudenza sul terrorismo politico degli anni ’70 e ’80. A ben vedere , però, nel caso di specie i giudici di merito si erano limitati ad affermare che generalmente una condotta di favoreggiamento tenuta in costanza del reato permanente- associativo reca in sé i requisiti della condotta concorsuale: si trattava, quindi, di un rilievo a carattere empirico o addirittura di una deduzione probatoria, ma giammai di un principio di diritto.
In secondo luogo, la Cassazione concentra l’attenzione su quei passaggi argomentativi ove la sentenza scrutinata “richiama, co esplicito riferimento alla decisione della Sezioni Unite, la latitanza di uno o più associati come condizione sempre riconducibile ad un momento di emergenza dovendosi in tali frangenti adottare misure contingenti ed eccezionali, che non attengono alla normale attività illecita del gruppo“, da qui facendo discendere, nota la Corte riprendendo sempre le osservazioni dei giudici di merito, che “dovrà accertarsi se vi sia stato uno o più episodi di favoreggiamento in quanto solo nel secondo caso potrà configurarsi in astratto il reato associativo sotto il profilo del concorso esterno”. I giudici di merito, quindi, ripropongono in qualche maniera, secondo la ricostruzione che della sentenza impugnata fanno i giudici di legittimità, i criteri della continuità e della episodicità per distinguere, rispettivamente, il concorso nell’associazione dal favoreggiamento personale: sul punto la Cassazione non si sofferma più di tanto.

Piuttosto, l’aspetto della sentenza di merito a causa del quale è il complessivo tessuto argomentativi a risultarne rimedi abilmente compromesso, è rappresentato, sempre secondo la sezione VI della Cassazione, dal fatto che i giudici non hanno “correttamente precisato se l’emergenza, derivante dalla latitanza, riguardi l’associazione ovvero il singolo associato”.

Ma, in realtà, sin dall’incipit della sentenza si arguisce il vero obiettivo perseguito dai giudici di legittimità: ” andrebbero in linea di massima, rivisti o forse, meglio maggiormente approfonditi taluni approdi ermeneutici che sembrano costruire il concorso esterno in reato associativo trascurando la tipologia di condotta cui dovrebbe aderire il concorrente atipico, una rivisitazione dalla quale questa corte non può restare esonerata in quanto le situazioni descritte dalla sentenza denunciata se pur sembrano concretamente iscriversi nelle ipotesi di favoreggiamento continuato, proprio seguendo le soluzioni interpretative alle quali sono pervenute le decisioni che -con varietà di accenti- sembrano essersi conformate al dictum delle Sezioni unite (sentenza Demitry), impongono di precisare i percorsi ermeneutici ed i relativi approdi giurisprudenziali.
E allora, sostiene la Corte, occorre adesso mettere ordine nel disordine fomentato dagli indirizzi attecchiti sull’onda delle Sezioni Unite del 1994, e quindi profondere “uno sforzo interpretativo ulteriore al fine di meglio individuare…il discrimine esistente tra fattispecie di favoreggiamento aggravato ex art 7, D.L. n.152 del 1991 e il concorso esterno nel reato di cui al l’art 416 bis c.p.”

Ecco, pertanto, l’imperdonabile errore di diritto rimproverabile ai giudici di merito: non aver motivato adeguatamente su un asserito requisito essenziale della fattispecie concorsuale esterna così come individuato dalle Sezioni Unite, ossia la sussistenza di una situazione di emergenza riferibile all’associazione.

Appunto sul versante dell’esegesi del dictum delle Sezioni Unite, i giudici di legittimità investono tutta la loro autorevolezza, e osservano che nella pronuncia del massimo organo di nomofilachia si è precisamente manifestata “l’esigenza che l’intervento esterno si introduca in un momento in cui il sodalizio criminoso si trovi in situazione di difficoltà, tendendo a far sì che l’associazione venga, proprio per il contributo dell’esterno, salvata; il tutto se e sempreché – ma ciò concerne il profilo soggettivo dell’agente – il concorrente sappia di questa situazione di difficoltà, pur se non intenda realizzare i fini dell’associazione“. E proprio sulla base di questa sorte di interpretazione autentica del pensiero delle Sezioni Unite, i giudici della VI sezione della Cassazione traggono la conseguenza che “il concorso vale a qualificare l’eventuale reato posto in essere per salvare associazione non come reato fine ma come reato mezzo realizzato per gli scopi del sodalizio, in mancanza della volontà di far propri, ponendo in essere uno o più comportamenti che, per la situazione in cui versa l’associazione, divengono funzionali al superamento dei pericoli che rischiano di compromettere la permanenza dell’associazione mafiosa”.

La dottrina, tuttavia, ritiene discutibile questa ricostruzione operata dalla Cassazione in quanto scritta con un linguaggio a metà tra il giuridico e il romanzesco. Di diversa caratura è, invece, l’ultima censura formulata dalla Cassazione ai giudici di merito, in quanto stavolta i giudici di legittimità argomentano seriamente in punto di diritto.

Né può essere trascurato  come il concorrente esterno, proprio perché risponde ai sensi dell’art 110 c.p., deve avvalersi (anche se con dolo soltanto generico, ma pur sempre intenzionale), della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della situazione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Un dato sul quale la sentenza impugnata resta del tutto silente, pur trattandosi di un aspetto dell’elemento oggettivo del reato decisamente designante, solo considerando che il concorrente non risponde di concorso nell’associazione ma nel far parte dell’associazione.

(I) Cass., sez. VI, 6 giugno 1995, Monteleone, in Cass. pen., 1996, p.1151.
(II) Il dolo generico si caratterizza per il fatto che vi è congruenza tra volontà e realizzazione, nel senso che è necessario che il contenuto del volere trovi attuazione nella realtà, almeno nella forma del delitto tentato, si veda per tutti G. FIANDACA- E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p.324.
(III) Corte di Appello di Milano, 27 maggio 1982, Merlo, in Riv. it dir. proc. pen., 1983, p. 1159.
(IV) F. RINALDINI, Il favoreggiamento personale, CEDAM, 2005, 133.
(V) M. ZANOTTI, Studi in tema di favoreggiamento personale, CEDAM 1984, 98.
(VI) Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, Demitry in Cass. pen., 1995, p.842.
(VII) Si vedano Cass., sez. VI, 27 marzo 1995, Alfano, in Cass. pen., 1997, 983, con nota di M.CERASE, Sul dolo richiesto per il concorso esterno nel reato di associativo; Cass., sez. un,, 27 settembre 1995, Mannino, in Cass. pen., 1996, 1807; Cass., sez., V, 22 dicembre 2000, Cangialosi, in Cass. pen., 2002, 1964.
(VIII) Cass., sez. un., 30 ottobre 2003, Carnevale, in Guida al diritto, 2003, n.30, 64, con nota di G. LEO, Un altro passo avanti delle sezioni unite verso la definizione dell’istituto.
(IX) Cass. 28 settembre 1999, Bruno e altri, massimata in Rep. Foro it., 1999, voce Ordine pubblico.
(X) F. RINALDINI, Il favoreggiamento personale, CEDAM, 2005.

Alfredo Caruso

Alfredo Caruso, nato a Napoli nel 1992. Dopo aver conseguito la maturità presso il Liceo Scientifico "Ettore Majorana", decido di intraprendere gli studi giuridici presso l'Università Federico II di Napoli laureandomi,nel luglio 2017, con una tesi in Diritto Penale dal titolo "Delitti in materia di criminalità organizzata tra legge e giudice: rapporto tra norme ed interpretazione giurisprudenziale riguardo alle principali figure criminose". Partecipo al progetto Erasmus presso la University of national and world economic (Sofia, Bulgaria). Da sempre appassionato alla cultura anglosassone/americana nell'agosto 2016 prendo parte un corso intensivo di diritto americano presso la George Washington University (Washington D.C.). Frequento, da ultimo, un master di II livello in Diritto Penale dell'Impresa presso L'Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano).

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