Appropriazione culturale e proprietà intellettuale nell’industria della moda: le “espressioni culturali tradizionali”
1. Introduzione
Già altrove si è avuta l’opportunità di analizzare come, nell’industria della moda, esista un grave ed effettivo problema relativo a quel fenomeno che l’antropologia ha definito come “appropriazione culturale” e, inoltre, si è constata la rilevanza non solo sociale, ma anche giuridica dello stesso[1], rapportandolo al concetto di proprietà intellettuale.
Si è potuto concludere che nonostante “le condotte di appropriazione perpetrate da parte delle grandi case di moda non sempre s[ia]no qualificabili, ad oggi, come illecite, certo è che i brands dovrebbero da un lato, prendere atto degli effetti che, su diversi piani, come rilevato dall’antropologia, conseguono all’appropriazione culturale e dall’altro, prendere atto che, sotto il profilo giuridico, le loro condotte risultano lesive di uno dei diritti umani solennemente riconosciuto dalla normativa pattizia internazionale”[2].
In particolare, è stato rilevato come le manifestazioni culturali talvolta soggette ad appropriazione culturale risultino essere riconosciute e tutelate in forza dell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR, in seguito) così come interpretato dal General Comment No. 17. Lo stesso identifica queste manifestazioni come diritti culturali e forme di proprietà intellettuale che non possono non essere tutelati[3].
La teoria istituzionale dei diritti umani impone tre tipi di obbligazioni agli Stati[4]: quella di rispettare, di proteggere e di garantire[5]. Per tale ragione risulta necessario, prima d’introdurre nuove normative, verificare se tra i sistemi di tutela già esistenti, ne esista uno capace di soddisfare quel grado di protezione e garanzia del diritto imposto dalla teoria e dalla prassi internazionale.
Alla luce di quanto fino ad ora riepilogato, pertanto, tutte quelle produzioni artistiche originarie di comunità indigene e locali si qualificano come forme, seppur anomale, di proprietà intellettuale e per tale ragione, prima di valutare l’opportunità di introdurre nuove normative, è necessario vagliare il sistema di proprietà intellettuale al fine di valutare se -ed in che misura- questo sia in grado di fornire una tutela sufficiente.
Il presente contributo si costituisce come il primo di una serie e, nello specifico, è volto a presentare al lettore l’evoluzione storico-normativa del tema. In particolare, verrà presentata l’evoluzione della definizione di Espressioni culturali tradizionali in modo da poter successivamente analizzare quali siano i caratteri delle stesse e il rapporto tra queste ed il regime autoriale.
2. Le espressioni culturali tradizionali: il difficile percorso verso la definizione del concetto.
Prima di procedere e sottoporre al vaglio il regime di proprietà intellettuale per valutare se questo sia capace di tutelare le manifestazioni culturali non si può non procedere contestualizzando il discorso e fornendo le definizioni necessarie per discuterne[6].
Quelle che, fino ad ora, sono state comunemente chiamate “manifestazioni culturali”o “folklore”, da ormai diverso tempo, vengono definite come “Traditional Cultural Expressions” (TCEs, in seguito) o “Expressions of Folklore” (EoF, in seguito).
Ad oggi, nonostante gli ampi interventi dei legislatori (internazionale e nazionali) e degli accademici, non è possibile fornire una nozione unanime ed univoca delle TCEs. È opinione diffusa che, tra queste, rientrino ““poems, novels, paintings, sculptures, textile designs, potteries, ceramics, musical compositions, theatrical and cinematographic works, performances and oral traditions”[7], ma la specifica delimitazione dei confini all’interno dei quali costruire la categoria, risente inevitabilmente delle difficoltà che, in ambito antropologico, si sono presentate nel definire i concetti di cultura e folklore[8] e, pertanto, una parte di dottrina ha osservato quanto sia “necessario […] tentare una definizione o meglio un’individuazione delle opere appartenenti al folclore che, pur prescindendo da qualunque rigore scientifico e dottrinario, abbia un valore essenzialmente pratico”[9]. Per questa ragione, spesso, il legislatore ha accompagnato definizioni alquanto ampie a liste di beni che sono indubbiamente TCEs.
Nonostante ancor oggi difetti una definizione, l’interesse della comunità internazionale verso le TCEs è piuttosto datato e, fin dalle sue origini, la questione assunse rilevanza in relazione al diverso regime cui erano sottoposte le opere occidentali, protette da diritto d’autore, e quelle invece di buona parte dei paesi in via di sviluppo che non risultavano tutelate da alcun diritto di privativa poiché considerate folkloriche e, pertanto, ricadenti in pubblico dominio.
2.1. Alle origini della questione sulle TCEs.
In particolare, a livello internazionale, un primo richiamo alle TCEs, sembra potersi far risalire al 1952, data in cui la rappresentanza jugoslava, in occasione della conferenza intergovernativa di Ginevra sul diritto d’autore promossa dall’Unesco, chiese che venissero inserite tra le opere soggette a copyright anche le “opere dell’arte nazionale”[10]. Non si parlava ancora, quindi, di folklore.
Nella versione finale della Convenzione Universale del diritto d’autore (CUA, in seguito) non è presente alcuna menzione della questione, ma, il richiamato evento determinò l’instaurarsi dei dibattiti internazionali sul tema della tutela del folklore. Pochi anni dopo, infatti, nel 1963, a Brazzaville venne convocata congiuntamente dall’UNESCO e dal Bureaux internationaux réunis pour la protection de la propriété intellectuelle (BIRPI) una conferenza volta a definire i principi generali per la protezione del diritto d’autore per gli Stati africani[11]. In tale occasione diversi stati si lamentarono della differenza di regime tra le opere letterarie e artistiche occidentali, protette dal diritto d’autore, e quelle africane legate al folklore che ricadevano sotto pubblico dominio ed erano quindi liberamente utilizzabili da tutti[12]. La conferenza si concluse con una raccomandazione adottata dai delegati in cui si stabiliva che “copyright in folklore should be vested in each of the African Nation”[13]. Per la prima volta, in un documento internazionale, compariva un espresso richiamo al folklore.
L’interesse continuò a crescere e, nel 1967, la nuova protagonista fu l’India che, durante il seminario sul diritto d’autore dell’Asia Occidentale tenutosi a Nuova Deli, costituì un apposito gruppo di lavoro avente il compito di studiare il rapporto tra proprietà intellettuale e folklore e presentare le proprie conclusioni durante l’appuntamento volto alla revisione della Convenzione di Berna del 1886 per la protezione delle opere letterarie e artistiche. La delegazione indiana presso la Conferenza di Stoccolma propose l’inserimento tra le opere protette, delle “opere di folklore”[14].
Successivamente, durante la Conferenza di Parigi nel 1971, l’India presentò la relazione cui aveva lavorato ed in cui le opere di folklore risultavano parificate alle opere anonime[15]. Il nuovo testo della Convenzione di Berna, adottato con l’Atto di Parigi, recepì tale terminologia e all’art. 15.4 vennero inserite le “opere non pubblicate di cui è ignota l’identità dell’autore”[16]. venne così aggirata la questione relativa alla definizione precisa di cosa fosse il folklore attraverso l’introduzione di una e nuova più ampia categoria[17]. Negli stessi anni, la questione emerse anche a livello nazionale e regionale. In particolare, nel 1966, la Tunisia approvò la Legge N. 66-12 del 14 febbraio 1966 sulla proprietà letteraria e artistica ed inserì tra le opere tutelate quelle “ispirate al folklore” definite come “creazioni intellettuali ottenute tramite l’ausilio di elementi tratti dal patrimonio nazionale della Repubblica tunisina”[18]. Diverse nazioni africane seguirono l’esempio e il modello tunisino[19].
Come è possibile notare i paesi che hanno sollevato e/o cercato di normare il fenomeno delle espressioni e del sapere tradizionali furono perlopiù i paesi in via di sviluppo o sottosviluppati. Ciò potrebbe ricondursi a diverse variabili. Da un lato, alcuni di questi Paesi erano appena usciti dal periodo di decolonizzazione e, di conseguenza, avevano necessità d’ implementare nuove normative sul diritto d’autore[20]. In tale contesto di “rinascita”, l’elemento nazionalista, capace di esaltare le specificità etniche e storiche di un popolo -talvolta attraverso forzature (come già era avvenuto per talune nazioni europee nei secoli precedenti)[21] – poteva rappresentare il principio sulla base del quale fondare il nuovo stato in quanto capace di ribadire l’indipendenza e la differenza di questo dagli stati coloniali. A tal proposito, si aggiunga che, spesso, i territori dei nuovi stati, almeno quelli africani, erano stati definiti a “tavolino” dai precedenti stati coloniali, senza che fosse effettivamente rispettata la tradizionale divisione tra territori ed etnie di popoli e tribù locali[22]. Di conseguenza, il nuovo stato, nonostante la formale indipendenza, in maniera più o meno ufficiale si trovava costretto a fare continuo riferimento, venendo quindi continuamente influenzato, alla ex potenza coloniale[23]. La concessione di diritti, anche economici, sulle quelle che, di fatto, erano le tradizioni e le usanze delle diverse popolazioni originarie del territorio, poteva rappresentare un buon modo per evitare contrasti interni. Secondariamente, vuoi per ragioni storiche, vuoi per ragioni antropologiche, i paesi dell’Africa, dell’Asia e del Sud America, ancor oggi, risultano essere quelli a più alta concentrazione di autoctoni che, come noto, hanno mantenuto le proprie tradizioni fino ad epoca moderna, possedendo con queste un legame e dando loro un significato ben più intenso di quello che gli occidentali danno alle proprie tradizioni[24]. È quindi logico che proprio tali paesi -e popoli- risultino come quelli principalmente interessati al riconoscimento di diritti sugli elementi della propria cultura. Da ultimo, una possibile ragione potrebbe individuarsi con riferimento alla teoria del “north-south”. Ciò che spesso, infatti, lamentavano gli stati, era un’appropriazione delle conoscenze e degli elementi appartenenti alla sfera del tradizionale da parte di Paesi occidentali[25]. Sembra potersi riproporre, seppur con diverse accezioni e in un diverso contesto, la distinzione proposta nell’86 da Merryman tra “source nations”, i.e. nazioni in cui l’offerta di beni culturali è maggiore della domanda, e “market nations”, in cui vige il principio opposto[26].
Analizzando le normative presentate sopra, emerge distintamente come, salvo qualche tautologico richiamo al concetto di “patrimonio nazionale” o “patrimonio culturale tradizionale”, nessuna di queste forniva alcuna chiara esplicitazione di cosa dovesse intendersi per “folklore” o per “opere di folklore”; al massimo, le normative nazionali, presentavano liste di beni accompagnate dalla qualità di essere “ispirate al folklore” o “ispirate alla tradizione”. La definizione era essenzialmente pratica[27], ma mancavano i riferimenti puntuali riguardo a quando un determinato bene possedesse carattere demologico o tradizionale. Il dato su cui tutte piuttosto si concentravano, era quello dell’appartenenza di tali opere, talvolta parificate a opere di proprietà intellettuale, talaltra invece accompagnate dalla previsione di regimi sui generis in cui la gestione e/o titolarità venivano riconosciute in capo a una qualche autorità nazionale.
2.2. TCEs e le normative modello.
La questione non venne più portata all’attenzione delle organizzazioni internazionali fino al 1973 quando la Bolivia, leggenda vuole a causa del successo ottenuto dalla cover di Simon & Garfunkel de “El Condor Pasa” (canzone ispirata alle melodie andine)[28], trasmise una comunicazione all’ Intergovernamental Copyright Commetee (ICC, in seguito) in cui chiedeva che venisse aggiunto alla CUA un protocollo a garanzia di tutti i diritti connessi al folklore. Chiedeva, in particolare, che venissero riconosciuti agli Stati sul cui territorio era stato elaborato o acquisito l’elemento tradizionale o demologico i diritti d’autore sull’elemento[29], lamentandosi di come il folklore “[was] undergoing the most intensive clandestine commercialization […]in a process of commercially oriented trascuration destructive of traditional cultures”[30]. La questione venne rimessa al segretariato generale dell’UNESCO che intraprese una serie di studi tra il 1975 e il 1977 al termine dei quali venne stilato un rapporto in cui veniva affermata l’impellente necessità, vista la particolarità dell’oggetto, di procedere a ricerche integrate su base interdisciplinare[31]. Negli stessi anni, diversi stati adottarono normative nazionali a tutela del folklore basate sul modello del diritto d’autore[32].
Si arrivò così alle prime definizioni giuridiche del concetto in atti di soft law: le Tunis Model Law on Copyright for Developing Countries (Tunis Model Law, in seguito) del 1976, le Model Provisions on the Protection of Folklore Against Illecit Exploitation and Other Prejudicial Actions (Model Provisions, in seguito) del 1982 ed infine nella Raccomandazione Unesco sulla Salvaguardia della Cultura Tradizionale e del Folklore (la Raccomandazione, in seguito) del 1989.
Le prime, frutto della volontà del legislatore internazionale di fornire un modello normativo agli Stati africani per la disciplina del diritto d’autore capace di armonizzarsi e di non confliggere con gli archetipi occidentali del copyright ed il droit d’auteur, all’art. 18.4., parlando di “work of Folklore”, le definisce come “all literary, artistic and scientific works created on national territory by authors presumed to be nationals of such countries or by ethnic communities, passed from generation to generation and constituting one of the basic elements of the traditional cultural heritage”[33].
È lampante l’evoluzione della definizione, probabilmente derivante dall’apporto degli esperti chiamati ad elaborare il documento.
Diversamente, le Model Provisions, parlando di “Expressions of Folklore”, proprio a voler sottolineare il diverso approccio rispetto alle Tunis Model Law[34],le definiscono come “productions consisting of characteristic elements of the traditional artistic heritage developed and maintained by a community of [name of the country] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community, in particular: (i)il verbal expressions, such as folk tales, folk poetry and riddles; (ii)musical expressions, such as folk songs and instrumental music; (iii)expressions by action, such as folk dances, plays and artistic forms or rituals; (iv) whether or not reduced to a material form; and (iv) tangible expressions, such as: (a) productions of folk art, in particular, drawings, paintings, carvings, sculptures, pottery, terracotta, mosaic, woodwork, metalware, jewellery, basket weaving, needlework, textiles, carpets, costumes; (b) musical instruments; (c) architectural forms.” (Art. 2)
2.3. La Raccomandazione del 1989.
La Raccomandazione del 1989, riferendosi al solo Folklore, lo descrive come l’insieme delle creazioni, fondate sulla tradizione di una comunità culturale, espresse da parte di un gruppo o da individui e rispondenti alle aspettative della comunità interessata poiché espressione della sua identità culturale e sociale, delle norme e dei valori trasmessi oralmente, per imitazione o in altri modi[35]. Anche in questo strumento, seguiva l’elencazione aperta, delle forme attraverso cui il folklore poteva manifestarsi. La Raccomandazione, infatti, afferma che “le sue forme comprendono, fra l’altro, la lingua, la letteratura, la musica, la danza, i giochi, la mitologia, i riti, i costumi, l’artigianato, l’architettura ed altre arti”.
La nozione fornita nella Raccomandazione, sicuramente, fu la più elaborata tra quelle proposte fino a quel momento in quando prendeva in considerazione aspetti di primaria rilevanza per il folklore quali, per esempio, quelli relativi ai metodi di trasmissione ed al know how dei detentori, tuttavia, in parte perché contenuta in una normativa di soft law[36], riscosse poco successo[37].
La definizione, comunque, non può dirsi priva di criticità: “It[…] urges a more inclusive definition of folklore and traditional culture itself, one that includes not only artistic products like tales, songs, decorative designs, and traditional medicines but also the knowledge and values that enable their production, the living act that brings these products into existence, and the modes of interaction with which the products are appropriately received and appreciatively acknowledged[38]“.
La Raccomandazione, come emerse anche dal questionario fatto circolare dall’Unesco tra i suoi Stati membri nel 1994,[39] rimase uno strumento “largamente deficitari[o]”[40].
In primo luogo, trattandosi di un documento di soft law, questa non riscosse, sul piano della legislazione interna dei singoli Stati, il successo che ci si sarebbe potuti aspettare[41]. Alcuni, hanno attribuito tale fallimento all’artificiosa distinzione operata nella Raccomandazione tra la tutela in generale offerta per il folklore e gli aspetti concernenti il rapporto dello stesso con la proprietà intellettuale[42].
Secondariamente, una parte della dottrina ha notato come la stessa prestasse grande attenzione ai meccanismi di inventariazione e archiviazione delle TCEs, sottovalutando invece, se non ignorando, i meccanismi tradizionali di mantenimento e trasmissione del sapere[43].
Quest’ultimo aspetto, si ricollega ad una terza critica che è stata mossa nei confronti della Raccomandazione: questa si riferiva principalmente a ricercatori e studiosi senza invece prevedere, nei diversi interventi che il testo suggeriva, alcun coinvolgimento delle comunità e degli individui portatori delle espressioni della cultura tradizionale, e senza nemmeno prevedere coinvolgimenti delle NGOs che da anni già si battevano e intervenivano per tutelare gli aspetti immateriali della cultura e dei diritti a questa connessi[44]. Detto altrimenti, la Raccomandazione prendeva in considerazione il folklore, al fine di salvaguardarlo, solo in quanto “oggetto”, ignorando invece la necessità di salvaguardare a monte i sistemi di produzione, mantenimento e trasmissione del folklore, ossia il “procedimento”[45].
La necessità di un nuovo intervento, che già si era manifestata all’indomani della Raccomandazione, venne, prepotentemente, ribadita nel 1999 durante la Conferenza di Washington organizzata congiuntamente dall’Unesco e dal Center for Folklife and Cultural Heritage, in occasione della quale si sottolinearono due ulteriori fondamentali esigenze: da un lato, quella di assumere una diversa definizione di “folkl group” in quanto “while it is nowhere specified in that document, one assume from reading the Reccomendation that envisions a dangerous nintheenth-century idealization of the ‘one nation, one ethnicity’”[46]; dall’altro, la necessità di modificare in chiave maggiormente “democratica” i ruoli dei diversi soggetti coinvolti nelle politiche di tutela del patrimonio culturale immateriale, in quanto, si sosteneva, la sola attenzione rivolta verso ricercatori, archivisti e studiosi comportava un’insensata e ingiusta esclusione degli originali detentori dall’accesso e dalle informazione eventualmente catalogate[47].
2.4. Draft Articles on the Expressions of Folklore dell ’Intergovernamental Committee on Intellectual Property, Traditional knowledge and Folklore.
Da ultimo, di recente, l’Intergovernamental Committee on Intellectual Property, Traditional knowledge and Folklore[48] appositamente istituito nel 2001 presso la Wipo, a seguito di quegli studi e quei progetti della fine degli anni novanta,[49] ha pubblicato i Draft Articles on the Expressions of Folklore, in cui queste vengono alternativamente definite all’art. 1 come “qualsiasi forma attraverso cui le pratiche e il sapere culturali tradizionali sono espressi, appaiono o si manifestano o come il risultato di attività, esperienze o intuizioni intellettuali di popoli indigeni, comunità locali e/o [altri beneficiari] in o da un contesto tradizionale”. Tali espressioni, specifica la Wipo, possono avere carattere dinamico e mutevole e comprendono espressioni verbali, musicali e di movimento, forme di espressione tangibili e intangibili o una combinazione di queste due[50]. A tale articolo, si accompagna l’art. 3 che prevede tre requisiti per la configurazione della fattispecie delle TCEs: sono la forma attraverso cui una cultura si manifesta, sono parte integrante dell’identità e del patrimonio di una comunità tradizionale o indigena e sono trasmesse di generazione in generazione[51].
3. Osservazioni circa le definizioni di TCEs.
Il quadro definitorio che emerge dalle fonti sopra menzionate non sembra essere chiaro e l’unico punto fermo circa la nozione oggetto della presente indagine sembra essere quello relativo alle “forme” delle TCEs che, in via di prima approssimazione, posso essere tripartite in “tangibili”, “intangibili” o una combinazione delle due. Tale distinzione è di fatto artificiale, più utile a livello teorico e didattico che pratico. Si prendano, per esempio, i lavori tessili dei Wayuu colombiani: i prodotti finali, quali borse, amache, tappeti, coperte, ecc sono beni tangibili caratterizzati dalla sopraffina tecnica d’intreccio, dai colori sgargianti e contrastanti e dalla complessità delle fantasie; d’altro lato tuttavia vi è un ampio aspetto immateriale rappresentato non solo dalle tecniche utilizzate ma anche dal significato stesso delle fantasie: in ciascuna di esse vi è inscindibilmente rappresentato il modo in cui la gente Wayuu interpreta e da significato al mondo che la circonda. Ogni fantasia esprime una storia legata alla famiglia, alla tribù, agli dei o alle terre e racconta la storia del popolo stesso tramandata di generazione in generazione anche, per l’appunto, attraverso la lavorazione tessile. Separare quindi la fantasia, la tecnica con cui la stessa è creata e l’aspetto immateriale risulta essere difficile. Ciò che rileva piuttosto sottolineare è forse che la distinzione tra l’una e l’altra forma potrebbe suggerire la necessità di un diverso modello di tutela legale.
Si nota che la normativa si è più volte alternata nell’utilizzo dei termini: da folklore ad espressioni di folklore a opere di folklore. La questione circa l’opportunità di definire una categoria generale piuttosto che far invece riferimento alle sole espressioni del folklore è ancor oggi un tema dibattuto. Certo è che la domanda va contestualizzata in un’ottica di politica legislativa: le definizioni sono e vengono presentate in quanto funzionali agli scopi che la normativa in cui sono inserite si prefigge. Si può tranquillamente convivere con più definizioni che si sovrappongono tra loro, ognuna delle quali sarà rilevante in relazione all’applicazione del regime previsto dalla normativa in cui inserita, salvi, chiaramente, i principi rilevanti in tema d’interpretazione e applicazione delle stesse.
La soluzione, pertanto, circa l’opportunità di riferirsi più generalmente al folklore o, invece, optare più specificatamente per un riferimento alle espressioni di folklore dipende essenzialmente dallo scopo ultimo della definizione: se lo scopo è quello di normare i profili proprietari del folklore è forse più conveniente un riferimento alle sole espressioni.
Si noti poi, che l’espressione “folklore” il passato e per un certo tempo ha avuto accezione negativa e, pertanto, i paesi in via di sviluppo gli hanno preferito termini quali “indigenous cultural and intellectual property”[52] o “folklife expressions”[53] e solo di recente si è tornati ad utilizzare “Expressions of Folklore” grazie alla riacquisita popolarità del termine.
Infine, analizzando la normativa e la dottrina, non è per niente chiaro quale sia la differenza, e se ve ne sia, tra TCEs e TK. Di volta in volta, la dottrina, ha sostenuto posizioni differenti, così come, di volta in volta, la normativa ha dato nomenclature diverse. A tal proposito, un tentativo di ricostruzione delle relazioni tra i concetti venne intrapreso in uno degli Issue Papers[54] del “Project on Intellectual Property Rights and Sustainable Development”[55] di UNCTAD[56] e ICTSD[57]. Il saggio, tuttavia, fallisce nell’intento, presentando solo una scarna distinzione per poi proseguire nell’esame dei due concetti in maniera autonoma.[58]
4. Conclusioni.
Nonostante quanto sopra osservato, tutte le normative sopra richiamate, pur non permettendo una puntuale e precisa definizione della categoria, richiamano alcuni caratteri della stessa che permettono di chiarire la morfologia e la struttura delle TCEs e, pertanto, discutere la questione relativa al rapporto tra le TCEs e la disciplina autoriale.
In particolare, le TCEs si qualificano sulla scorta dei seguenti caratteri:
- sono espressioni culturali ed identitarie ossia, inglobano, simboleggiano e veicolano diritti culturali;
- sono tradizionali ossia, la tecnica di produzione, trasmissione o preservazione e/o l’uso che ne viene fatto sono tradizionali;
- sono tramandate di generazione in generazione ed ogni soggetto contribuisce alla creazione, al mantenimento ed all’eventuale mutamento della TCEs;
- hanno carattere dinamico, ossia, mutano nel tempo;
- hanno carattere artistico o sono comunque riconducibili a categorie di opere aventi tale carattere;
- hanno essenza collettiva ossia, non è possibile individuarne lo specifico autore poiché, l’intera comunità, a diverso titolo, contribuisce alla loro creazione.
[1] R. Ricifari, “L’appropriazione culturale nell’industria della moda: tra antropologia e diritti culturali”, in Fashion law- Ius In Itinere, 15 maggio 2020, su cui si analizza il concetto di proprietà intellettuale in riferimento all’appropriazione culturale. Disponibile al link: https://www.iusinitinere.it/lappropriazione-culturale-nellindustria-della-moda-tra-antropologia-e-diritti-culturali-27967
[2] Ibidem.
[3] Cfr. E/C.12/GC/17, General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant), United Nations Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR), 2006.
[4] Per maggiori informazioni a riguardo si vedano N. Luhmann, “Grundrechte als Institution. Ein Beitrag zur politischen Soziologie”, 3rd ed., Duncker and Humblot, Berlin, 1986 (1965); H. Willke, “Stand und Kritik der neueren Grundrechtstheorie. Schritte zu einer normativen Systemtheorie”, Berlin: Duncker and Humblot, 1975, pp. 111–156.
[5] Per approfondimenti circa il rapporto tra i diritti umani e l’appropriazione culturale, nonché circa l’applicazione della teoria istituzionale al tema dell’appropriazione culturale si vedano: H. Hans Morten. “Traditional Knowledge and Human Rights.”, in Journal of World Intellectual Property, vol. 8, no. 5, 2005, pp. 663-678;E/C.12/GC/17, General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant), United Nations Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR) 2006 ; C. B.Graber, “Using Human Rights to Tackle Fragmentation in the Field of Traditional Cultural Expressions: An Institutional Approach”, in C. B. Graber, M. Burri-Nenova (a cura di), Intellectual Property And Traditional Cultural Expressions in a Digital Environment, Cheltenham, UK: Edward Elgar, 2008. pp. 96-120. Disponibile al link: https://ssrn.com/abstract=2175465; R. Ricifari, “L’appropriazione culturale nell’industria della moda: tra antropologia e diritti culturali”, cit.
[6] Nel presente articolo si prenderanno in considerazione solo le fonti e le definizioni che hanno preso in considerazione il rapporto tra il tema delle TCEs e la proprietà intellettuale o che lo hanno toccato trasversalmente e, pertanto, non si farà riferimento alla normativa che tratta la questione solo relativamente alle TCEs come beni culturali.
[7] E/C.12/GC/17, General Comment No. 17: The Right of Everyone to Benefit from the Protection of the Moral and Material Interests Resulting from any Scientific, Literary or Artistic Production of Which He or She is the Author (Art. 15, Para. 1 (c) of the Covenant), United Nations Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR) 2006, par. 9.
[8] Per approfondimenti riguardo queste sfaccettature della proprietà intellettuale si vedano le voci “cultura” e “folklore” in Fabietti U.-Remotti F., “Dizionario di Antropologia”, Zanichelli, 1971.
[9] V. De Sanctis,” La conferenza diplomatica di Stoccolma della proprietà intellettuale”, in Rivista italiana di diritto d’autore, p. 338.
[10] Cfr. Doc. DA/27, in Actes de la Conference intergouvernamentale du droit d’auteur, UNESCO,1954.
[11] La seconda metà del 1900 ha rappresentato per molti stati africani un periodo di transizione e costruzione, anche per ciò che concerne il concetto primordiale di proprietà intellettuale. A seguito della decolonizzazione questi, da un lato, si erano trovati senza normative sul diritto d’autore, dall’altro, erano assoggettati alle pressioni degli Stati industrializzati che spingevano nei fori internazionali affinché adottassero la Convenzione di Berna. Era quindi necessario un supporto di esperti affinché si discutesse della questione. Cfr. A.Roy, “Intellectual property rights: western tale”, in Asia Pacific Law Review, Vol. 16, fasc.2, 2008, pp. 219-240.
[12] Cfr. RADA/10 UNESCO and International Union for the Protection of Literary and Artistic Property, African Study Meeting on Copyright, Brazzaville, 1963.
[13] Ibidem.
[14] Cfr. Doc. S/73, in Actes de la Conférence de Stockholm de la propriété intellectuelle (1967), Genève, Ompi, Vol. I e II, 1971 pp. 704 (https://www.wipo.int/edocs/pubdocs/fr/wipo_pub_311_vol_i.pdf) e 892 (https://www.wipo.int/edocs/pubdocs/fr/wipo_pub_311_vol_ii.pdf).
[15] Cfr. G. GaltierI, “Folklore e diritto d’autore”, in Il Diritto d’Autore, fasc. 3,1973, p. 381. L’autore nota come “è da rilevare che la proposta del Gruppo di Lavoro non parlava espressamente di ‘opere folkloriche’, trattandosi di espressione di difficile definizione: si riteneva tuttavia che la categoria ‘opere di autore sconosciuto’, oggetto della nuova disposizione proposta, data la sua ampiezza, ben potesse comprendere tutte le produzioni che sono generalmente individuate come ‘opere folcloriche’”.
[16] Atto di Parigi, Art. 15.4: “a) Per le opere non pubblicate di cui è ignota l’identità dell’autore, il quale può tuttavia presumersi come appartenente ad un Paese dell’Unione, è riservata alla legislazione di questo Paese la facoltà di designare l’autorità competente a rappresentare l’autore e abilitata a salvaguardarne a e farne valere i diritti nei Paesi dell’Unione.”
[17] Cfr. V.De Sanctis, “La Conferenza diplomatica di Stoccolma della proprietà intellettuale”, in Il Diritto d’Autore, fasc. 3, 1967, p. 338
[18] Cfr. G. Galtieri, “Folklore e diritto d’autore”, cit., pp.391-392.
[19] Il Marocco, con la L. n. 1-69.135 del 29 luglio 1970 sul diritto d’autore che richiama le opere di folklore e le ricollega al patrimonio nazionale in diverse sue disposizioni e il Senegal che con la L. 73-52 del 1973 (oggi sostituita dalla L. n. 9 del 2008) in cui si leggeva “ il folklore e le opere ad esso ispirate si considerano in detta legge come opere dell’indegno a tutti gli effetti”, op. cit., G. Galtieri, Folklore e diritto d’autore, cit., pp.393-394.
[20] A tal proposito, Roy nota due elementi particolarmente interessanti: da un lato, alcuni Paesi (per esempio l’India) per anni mantennero le precedenti normative fornite dalle potenze coloniali o comunque al momento dell’indipendenza si trovarono ad essere già parte dei trattati sulla proprietà intellettuale in quanto precedentetemente adottati e implementati anche nelle colonie dalle potenze coloniali ; dall’altro, altri Paesi proprio nell’ottenere l’indipendenza si videro imporre come condizione dalla Potenza madre la condizione di accedere a accettare il sistema di proprietà intellettuale basato sulla Convenzione di Berna. Cfr. A.Roy, “Intellectual property rights: western tale”, in Asia Pacific Law Review, Vol. 16, fasc.2, 2008, pp. 219-240.
[21] Si prendano per esempio le politiche di uniformazione linguistica del fascismo, che fallirono tuttavia a causa, o meglio, grazie ai dialetti.
[22]Cfr.B. Droz, “Storia della decolonizzazione nel XX secolo”, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
[23] A tal proposito Lazar, nota come al momento post indipendenza, quando 11 Paesi sub-sahariani si unirono come membri all’Unione di Berna erano “’so totally dependent economically and culturally upon France (and Belgium) and so inexperienced in copyright matters that their adherence was, in effect, politically dictated by the ‘mother country’ during the aftermath of reaching independence”. Cfr. A.L. Lazar “Developing Countries and Authors’ rights in copyright”, in Copyright symposium, vol. 19, Columbia University press, New York e London, 1971. p. 14, citato in P. DRAHOS, “Negotiating IP rights: between coertion and dialogue”, in P: Drahos e R. Mayne (a cura di), “Global Intellectual Property rights: Knowledge access and development”, Palgravemacmillan, Hampshire (GB) e New York, 2002, p. 165.
[24] Sono tanti gli antropologi e gli etnologi che hanno studiato e messo in luce tale relazione. Un interessante intervento a tal proposito, che sottolinea proprio l’approccio olistico per cui uomo-società-terra-espressioni sono un tutt’uno nella visione di popolazione indigene e e tradizionali, con specifico riferimento ai Yolngu Australiani, è dato da R. Mazzola, “Indigenous Intellectual Property, a conceptual Analysis”, Franco Angeli, Milano, 2018.
[25] Questo è ciò che d’altronde viene affermato e confermato da una comunicazione inviata dal governo boliviano al direttorato generale UNESCO, se ne parlerà meglio nel prossimo paragrafo.
[26] Cfr.J. H. Merryman, “Two ways of thinking about cultural proprieties”, in The American journal of International law, vol. 80, fasc. 4, 1986, pp. 831-853.
[27] Cfr. V. De Sanctis, cit.
[28] Cfr. V.Hafstein, “Célébrer les differences, renforcer la conformité”, in C. Bortolotto, A. Arnaud e S. GRENET (a cura di) Le Patrimoine culturel immatériel: Wnjeux d’une nouvelle catégorie,Maison des Sciences de l’homme, Paris, 2011, pp.76-77.
[29] Cfr DG 01/1006-79, “Communication from the Republic of Bolivia”, 24.4.1973.
[30] Ibidem.
[31] La commissione di esperti per la protezione giuridica del folklore si insediò ed iniziò i suoi lavori nello stesso anno a seguito della decisione del Direttore Generale dell’Unesco. La necessita’ di uno studio su base interdisciplinare venne riconosciuto anche da parte della commissione escecutiva dell’Unione di Berna e della commissione intergovernativa della CUA che commentarono: “the problem has many aspects [which] are interdipendent and call for a global study on the protection of folklore which is being dealt with on a interdisciplinary basis within the framework of an overall and integrated approach by Unesco. Nevertheless, special efforts should be made to find solutions to the problem of the intellectual property aspects of the legal protection of folklore”. Si veda sul punto Commentario delle Model Provisions 1985, p. 6.
[32] Si prendano ad esempio: Papua Nuova Guinea e Tunisia nel 1967, Bolivia nel 1968, Cile e Marocco nel 1970, Algeria e Senegal nel 1973 e Kenya nel 1975.
[33] Il riferimento alla creazione delle TCEs sul territorio dello Stato è da attribuirsi agli scopi che si era prefissato il legislatore internazionale predisponendo le Tunis Model Law: fornire una disciplina del diritto d’autore per i PVS che fosse armonica a quella prevista dalla Convenzione di Berna sulle opere artistiche e letterarie.
[34] Da un lato, le Model Provisions si preoccupavano di predisporre un sistema di tutela sui generis del folklore che potesse essere utilizzato come modello per gli Stati, incentivandoli anche quindi a adottare discipline uniformi, forse in vista di una più agevole e futura uniformazione a livello sovranazionale; dall’altro lato, invece, le Tunis Model Law erano un modello normativo volto a suggerire provvisioni inerenti la proprietà intellettuale e pertanto prendevano in considerazione la questione del folklore solo in quanto materia connessa a quella della proprietà intellettuale strictu sensu.
[35] “The totality of tradition-based creations of a cultural community, expressed by a group or individuals and recognized as reflecting the social identity; its standards and values are transmitted orally, by imitation or by other means. Its forms are, among others, language, literature, music, dance games, mythology, rituals, customs, handicrafts, architecture and other arts”.
[36] Come notato dalla stessa Unesco che pochi anni dopo ha operato un’analisi della raccomandazione.
[37] Solo sei Stati all’inizio degli anni ’90 avevano reagito, come auspicato dal segretariato UNESCO, all’attuazione del testo sul piano nazionale. Cfr. C. Zuddas, “Strumenti e modelli per la tutela giudica delle espressioni culturali tradizionali”, Edizioni scientifiche italiane, Napoli,2015, p.25 s.
[38] Op. Cit., A. McCann, “The 1989 Recommendation Ten Years On: Towards a Critical Analysis”, in Safeguarding Traditional Cultures: A Global Assessment of the 1989 Unesco Reccomendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, 2001, pp. 57-61; disponibile al link: https://folklife.si.edu/resources/unesco/mccann.htm.
[39] Per un approfondimento circa le risultanze dello stesso si veda: R.Kurin, “The Unesco Questionnaire on the Application of the 1989 Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore: Preliminary Results”, in P.Seiten (a cura di) Safeguarding Traditional Cultures: A Global Assessment of the 1989 Unesco Reccomendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, 2001, pp. 20-35. Disponibile al link: https://folklife.si.edu/resources/unesco/kurin.htm.
[40] Op.Cit., L. ZAGATO, “La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile”, in L. Zagato (a cura di), Le identità culturali nei recenti strumenti Unesco. Un approccio nuovo alla costruzione della pace? I, Padova, 2008, p. 31.
[41] Op.Cit., Blake J., “Developing a new standard-setting instrument for the safeguarding of intangible cultural heritage-elements for consideration”, Paris, 2001, p. 383.
[42] Cfr. S.Sherkin, “A Historical Study on the Preparation of the 1989 Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore ”, in P. Seiten (a cura di) Safeguarding Traditional Cultures: A Global Assessment of the 1989 Unesco Reccomendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, 2001, pp. 42-56. Disponibile al link: https://folklife.si.edu/resources/unesco/sherkin.htm.
[43] Cfr. Blake J., “On Developing a New International Convention for Safeguarding Intangible Cultural Heritage”, in Art Antiquity and Law, vol. 8, fasc. 4, 2003, pp. 381-412.
[44] È stato affermato, in relazione al concetto di proprietà intellettuale: “The creators and sustainers of folk and traditional cultures are clearly the most important constituency to be considered in formulating policy, for without them there is no living folklore and the crucial role it plays at many points in society. Ways must be found of actively involving these local producers of folklore and traditional culture—whether organized into corporate enterprises or as individual practitioners—in the process of researching, framing, and implementing any UNESCO Recommendation that may become binding on member nations. They bring perspectives and have vested interests that are central to the issues involved. The same can be said of the many NGOs whose practices regularly address the traditional cultures and folklore of local groups, usually for the purpose of devising and implementing plans for sustainable economic development. Many NGOs have extensive knowledge about the important role that traditional culture can play in education and development and about the intersection between local groups and global economic and cultural industries”. Cfr. A. McCann, “The 1989 Recommendation Ten Years On: Towards a Critical Analysis”, in Safeguarding Traditional Cultures: A Global Assessment of the 1989 Unesco Reccomendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, cit.
[45] Op.Cit, C.Bortolotto, “”From objects to processes: Unesco’s ‘intangible cultural heritage”, in Journal of Museum Ethnography, vol.19, 2007, p. 26.
[46] Cfr., A. McCann, “The 1989 Recommendation Ten Years On: Towards a Critical Analysis”, in Safeguarding Traditional Cultures: A Global Assessment of the 1989 Unesco Reccomendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, cit.
[47] Ibidem.
[48] Per approfondimenti circa l’organo si veda: F. Robinson, A.A. Latif E P. Roffe, (a cura di), Protecting Traditional Knowledge: The WIPO Intergovernamental Committee on Intellectual Property, Genetic Resources and Folklore., Earthscan, The Hague, 2017;
[49] Si veda a riguardo: Latif A.A. “Revisiting the Creation of the IGC, The limits of constructive ambiguity?”, in F.Robinson, A.A.Latif, P. Roffe, Protecting Traditional Knowledge, cit., pp. 1 ss.;
[50] Cfr, Art.1, Wipo, The Protection of Traditional Cultural Expression: Draft Articles. “any forms in which traditional culture practices and knowledge are expressed, [appear or are manifested] [the result of intellectual activity, experiences, or insights] by indigenous [peoples], local communities and/or [other beneficiaries] in or from a traditional context, and may be dynamic and evolving and comprise verbal forms, musical forms, expressions by movement, tangible or intangible forms of expression, or combinations thereof”.
[51] Art.3, Wipo,The Protection of Traditional Cultural Expression: Draft Articles.
[52] Termine proposto da Irene Daes, attivista, accademica e relatrice speciale per il United Nations Working Group on Indigenous Populations tra il 1984 e il 2001.
[53] Cfr. L.M. Morgan, “intellectual property law protection for traditional and sacred folklife expressions: will remedies become available to cultural authors and communities? in University of Baltimore Intellectual Property Law Journal, vol. 6, fasc. 2, 1984, pp. 1-99.
[54] Questi, erano una collana di saggi, ciascuno dei quali dedicato ad uno specifico aspetto del rapporto tra proprietà intellettuale e sviluppo sostenibile, commissionati ad esperti ed accademici. Sono reperibili al seguente link:
[55] Il progetto nasce tra il 2001 e il 2002 con lo scopo di promuovere la ricerca sulle possibilità di utilizzo della proprietà intellettuale per favorire uno sviluppo sostenibile.
[56] United Nation Conference on Trade and Sustainable Development
[57] International Center for Trade and Sustainable Development
[58] Cfr. G. Dutfield senior, “Protecting Traditional Knowledge and Folklore”, in UNCTAD-ICTSD Project on IPRs and Sustainable Development, fasc. 1, 2003.
Rebecca si è laureata all’Università degli studi di Milano nel 2020 con votazione 110/ 110 cum laude discutendo una tesi di diritto internazionale e, attualmente, sta svolgendo la pratica forense a Milano. Rebecca collabora con la rivista da aprile 2020 e si occupa di diritto internazionale pubblico e privato e di Fashion Law.