Diritto alla riservatezza e raccolta differenziata: il caso dei sacchetti trasparenti
Compito del seguente contributo è comprendere se l’imposizione dei sacchetti trasparenti ai fini della raccolta differenziata sia in qualche modo lesiva del diritto alla riservatezza in ordine ai propri dati personali. Non è raro per i Comuni italiani infatti imporre alla cittadinanza prescrizioni di tal sorta, si tratta certamente di non biasimevoli provvedimenti volti a smascherare e sanzionare i furbetti della differenziata, che molto spesso per indolenza non la fanno o la fanno male, e quindi a rinsaldare nei cittadini quel sentimento ecologista che di frequente viene purtroppo disatteso. Premesso che il sacchetto trasparente permette di osservarne agevolmente il contenuto, occorre chiedersi se tale imposizione sia ammissibile nel nostro ordinamento, un quesito legittimo se si considera che per mezzo dei rifiuti domestici è possibile risalire a certe informazioni riconducibili alla persona che quei rifiuti li ha prodotti, e che tali informazioni potrebbero essere classificate come dati personali.
Per prima cosa è opportuno verificare se ciò sia vero. La definizione di dato personale è oggi contenuta nel Regolamento dell’Unione Europea n. 679 del 27 aprile 2016, anche detto GDPR (General Data Protection Regulation), il quale, all’articolo 4, statuisce che per dato personale deve intendersi “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile” dove per identificabile deve considerarsi “la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”. Ed effettivamente proprio attraverso i rifiuti è possibile risalire a informazioni di tal sorta, si pensi ai dati anagrafici ricavabili da una fattura di pagamento, si pensi alle abitudini alimentari ricavabili dagli involucri dei cibi consumati ovvero si pensi, guardando ad ambiti ancor più delicati, alle condizioni di salute, alle opinioni politiche, all’adesione ad una certa confessione religiosa, all’orientamento sessuale, alla partecipazione sindacale e via dicendo.
Assodato che attraverso i rifiuti solidi urbani è possibile risalire ad informazioni classificabili come dati personali è necessario chiedersi in che modo e perché l’imposizione dei sacchetti trasparenti, a maggior ragione nell’ambito di una raccolta porta a porta, possa risultare contraria all’ordinamento. La risposta va ovviamente ricercata nella normativa sulla protezione dei dati personali, la quale attribuisce a ciascun individuo il diritto a che tutte le informazioni che lo riguardano non vengano rese note e non circolino liberamente ma anzi rimangano strettamente riservate e rientrino, tranne casi eccezionali, nella disponibilità esclusiva dell’individuo stesso[1]. Al riguardo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, stipulata a Nizza nel 2000, stabilisce all’articolo 8 che “ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano”. Il concetto viene ribadito nel già menzionato GDPR, il cui considerando numero 1 prevede che “la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale è un diritto fondamentale”. Ma una tutela alla riservatezza circa i propri dati personali è certamente ravvisabile anche nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il cui articolo 8 tutela la persona da ogni ingerenza nella propria vita privata e familiare, e altresì nella nostra Costituzione, più precisamente nell’articolo 2, genericamente posto a tutela dei diritti fondamentali della persona, oltre che negli articoli 10, 11 e 117 che aprono l’ordinamento interno a quello internazionale.
Quello alla riservatezza dei dati personali rappresenta quindi un diritto fondamentale della persona che tuttavia inevitabilmente viene leso se si rende possibile la conoscibilità di tali dati ai terzi ovvero la loro libera circolazione.
La fattispecie nella quale i dati personali fuoriescono dalla sfera privata dell’individuo assume la denominazione di trattamento dei dati personali che ai sensi del GDPR consiste in una qualunque operazione effettuata sui dati personali che, in quanto potenzialmente lesiva degli stessi, deve necessariamente rispettare i limiti insiti nella vigente normativa. In sostanza, il trattamento dei dati deve possedere i caratteri della trasparenza, della correttezza e, soprattutto, della liceità la quale si realizza generalmente per mezzo del consenso della persona interessata del trattamento. Invero esistono altre circostanze, enunciate dall’articolo 6 GDPR, nelle quali il trattamento può ritenersi lecito e tra queste rientra, per ciò che ai fini di questo contributo interessa, la necessità di eseguire “un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. Alla luce di quanto detto si potrebbero pertanto qualificare le scelte dei Comuni come necessarie rispetto ad una corretta ed efficace differenziazione dei rifiuti e raccolta degli stessi e quindi perfettamente lecite. Non a caso il Garante della privacy, con un provvedimento datato 14 luglio 2005[2], ravvisando la qualità di attività di interesse pubblico rivestita dalla gestione dei rifiuti urbani ha sostenuto che le modalità di raccolta differenziata prospettate all’Autorità[3] “appaiono correlate alle finalità cui sono preordinate, che mirano ad una soluzione ecologicamente compatibile della gravosa questione dei rifiuti solidi urbani”.
Sempre il Garante continua tuttavia affermando che l’imposizione di dette modalità di raccolta potrebbero “comportare, in caso di misure sproporzionate e di eventuali abusi, seri inconvenienti alle persone interessate, le quali conferiscono i rifiuti nella fondata aspettativa che gli effetti personali da esse inseriti nei sacchetti…siano oggetto solo di eventuali controlli proporzionati di cui i cittadini siano adeguatamente informati, e non anche di indebita visione ed utilizzazione da parte di terzi”. Si è pertanto venuta a creare un’antinomia tra due interessi contrapposti ma entrambi tanto leciti quanto meritevoli di tutela, da un lato quello dei cittadini alla riservatezza in ordine ai propri dati personali, dall’altro quello di natura pubblicistica a che la raccolta differenziata sia svolta nella maniera più efficace.
La risoluzione dell’antinomia ha visto il Garante, attraverso il medesimo provvedimento, prospettare per il soggetto pubblico preposto alla raccolta dei rifiuti l’osservanza di due principi fondamentali, vale a dire il principio di necessità, secondo il quale il trattamento deve essere ridotto al minimo se non addirittura escluso qualora l’interesse pubblico possa essere perseguito anche senza la raccolta dei dati, e il principio di proporzionalità, secondo il quale tutte le fasi del trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità perseguite.
E così l’imposizione relativa ai sacchetti trasparenti è stata giudicata non proporzionata in quanto “chiunque si trovi a transitare sul pianerottolo o, comunque, nello spazio antistante l’abitazione, è posto in condizione di visionare agevolmente il contenuto esteriore” ma anche non necessaria, dal momento che l’efficace raccolta dei rifiuti può essere lecitamente effettuata ricorrendo ad altri metodi quali il contrassegnare i sacchetti con codici a barre, microchip o RFID (Radio Frequency Identification) attraverso i quali è possibile “delimitare l’identificabilità del conferente ai soli casi in cui sia stata accertata la mancata osservanza delle prescrizioni in ordine alla differenziazione[4] e non quindi in qualunque caso.
Insomma, per il Garante della privacy non è lecito, da parte dei Comuni o in generale dei soggetti preposti, imporre l’utilizzo di sacchetti trasparenti ai fini della raccolta differenziata porta a porta. Si tratta di una fattispecie contraria alla normativa posta a tutela della riservatezza dei dati personali e quindi lesiva di un diritto fondamentale della persona, con la conseguenza che il perseguimento dell’interesse pubblico alla corretta differenziazione dei rifiuti, comunque giudicato meritevole di tutela, deve fondarsi su metodi differenti.
[1] A. Torrente, P. Schelsinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2019.
[2] Garante per la protezione dei dati personali, Raccolta differenziata dei rifiuti: indicazioni del Garante, 14 luglio 2005, disponibile qui: https://www.gpdp.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1149822.
[3] Al Garante erano infatti pervenute numerose lamentele da parte dei cittadini proprio circa l’imposizione dei sacchetti trasparenti e altre modalità di raccolta, tra cui quella che prevedeva l’applicazione di un’etichetta nominativa sui sacchetti ritenuti non in linea con le disposizioni sulla differenziata, Ibidem.
[4] “Al momento dell’apertura del sacchetto, i soggetti preposti alla verifica dell’omogeneità dei materiali inseriti, che comunque sono tenuti al rispetto della riservatezza, vengono, infatti, a conoscenza del contenuto, ma non anche, in prima battuta, degli elementi identificativi del soggetto conferente. Invece, i soggetti preposti all’applicazione della sanzione, mediante la decodifica del codice a barre o del microchip, acquisiscono il nominativo del soggetto cui il sacchetto si riferisce, solo in relazione alla non conformità del contenuto del sacchetto”, Ibidem.
Nato a Castrovillari, in provincia di Cosenza, il 9 giugno 1994. Dopo aver conseguito la maturità scientifica si iscrive al corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università della Calabria presso la quale consegue nel 2020 il titolo di dottore magistrale discutendo una tesi in Diritto processuale penale dal titolo “Le nuove frontiere delle neuroscienze nel processo penale”. Dallo stesso anno, oltre ad aver intrapreso la pratica legale, ha iniziato a collaborare con Ius in itinere per l’area “IP & IT”.