“Mafie delocalizzate”: il contrasto (non) risolto dalle Sezioni Unite
Il concetto di “mafie storiche” raffrontato con le c.d. “mafie senza nome” e con le “mafie autoctone” alla luce dei nuovi orientamenti giurisprudenziali.
Il fenomeno mafioso ha, nel corso del tempo, mostrato il suo carattere estremamente complesso e duttile, stravolgendo la presunta staticità dei dati esperienziali mediante una continua capacità di adattamento ai sempre diversi e mutevoli settori criminali, alle variazioni economiche e sociali, nonché ai nuovi contesti territoriali.
Il modello di mafia ancorato ad una concezione sociologica e culturalistica di accadimento strettamente circoscritto e limitato al contesto d’origine, in particolare alle zone del Mezzogiorno d’Italia, appare ormai grandemente superato, nonché destinato ad estinguersi. La mafia ha manifestato un’ineffabile capacità espansiva, mediante una progressiva diramazione in zone geograficamente e culturalmente differenti da quelle d’origine, come il nord Italia, giungendo ad acquisire un carattere ormai transnazionale. Tramutati anche gli strumenti operativi e relazionali, nonché le dinamiche comportamentali rispetto alle storiche e padroneggiate realtà associative [1]. Tale natura camaleontica delle consorterie mafiose ha sollevato diversi e inediti problemi interpretativi, inerenti la configurabilità della fattispecie associativa a struttura mista prevista e punita dall’art. 416 bis c.p. rispetto agli affiorati e distinti fenomeni delle c.d. “mafie senza nome”, “mafie autoctone” ed alle “mafie delocalizzate all’estero”.
Prima di addentarsi nell’analisi delle articolate questioni giuridiche sottese alle diverse fenomenologie in parola, occorre tracciare un palpabile discrimen tra le stesse.
È la stessa giurisprudenza di legittimità a fornire dirimenti spunti etimologici sui vari fenomeni.
Sotto il genus di “mafie senza nome”, meglio identificate come “mafie silenti” ovvero “mafie innominate”, vengono sussunte le neoformazioni criminali che presentano “struttura autonoma ed originale”, “ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche” [2].
La natura autoctona dell’associazione criminale, invece, si riscontra con riguardo alle nuove articolazioni periferiche di sodalizi criminali ben radicati nelle tradizionali aree di competenza. Si tratta di cellule distaccate che conservano uno stabile collegamento con la “struttura madre” del sodalizio di riferimento e che dalla stessa coniano le modalità organizzative, la distinzione dei ruoli, i rituali di affiliazione e l’imposizione di regole interne[3].
Simile demarcazione può tracciarsi con riguardo alle “filiali operative o silenti all’estero”, “costituenti diramazioni estere di mafie storiche italiane”[4], dotate della medesima struttura organizzativa, nonché facenti applicazione dell’identico modus operandi delle c.d. “case madri”.
Di fronte a tale variegato e inusuale scenario, la scienza penalistica è chiamata a stabilire se, ed eventualmente a quali condizioni, queste nuove formazioni possano essere annoverate sotto lo schema punitivo dell’art. 416 bis c.p. ovvero essere classificate come mere associazioni per delinquere comuni o qualificate.
Il legislatore del Codice Rocco pensò il delitto di associazione mafiosa come una figura criminosa bifronte, all’interno della quale si riversano due distinte fattispecie, accomunate dai postulati requisiti che delineano il carattere “mafioso” del sodalizio.
La tipologia delittuosa principale, delineata dal comma terzo della norma, pone le sue fondamenta su un ben individuato archetipo criminale ovvero referente, qual è la struttura associativa della mafia siciliana, nonché quella delle tradizionali mafie storiche, diversamente definibili in virtù del contesto sociale di riferimento, in un’ottica che inevitabilmente si rivolge al passato.
Il sottotipo fenomenologico proposto dal comma ottavo dell’art. 416 bis c.p., invece, presenta una formulazione assai più elastica, pensata per conformarsi alle possibili future situazioni associative non ancora conosciute, per mezzo dell’analogica clausola finale[5].
Anche le riforme normative del 2008 e del 2010 hanno attribuito alla norma un taglio contemporaneo ed elastico, che rompe gli schemi dei prototipi criminali presi in considerazione nel lontano 1982, esplicitando, in rubrica, il riferimento alle mafie straniere e, nel corpo del testo, quello alla c.d. ‘ndrangheta[6].
Se siffatte considerazioni evidenziano, per un verso, il carattere duttile del delitto associativo, il quale non risulta meramente ancorato al paradigma sociologico delle mafie storiche, d’altro canto, al contrario, intavolano un problema interpretativo.
Difatti, la ridetta clausola di equivalenza, prevista dal comma ottavo della norma per le consorterie diverse dalle mafie storiche, pare esclusivamente riferirsi al requisito della “forza intimidatrice” e non già alle “condizioni di soggezione e omertà” che ne derivano, le quali, invece, andrebbero a contraddistinguere solamente l’operato di tali mafie tradizionali.
Da tale assunto si sono diramati variegati e spesso dissonanti orientamenti giurisprudenziali, che hanno portato la Suprema Corte a rimettere per ben due volte la questione al vaglio delle Sezioni Unite, le quali, tuttavia, omettendo di formulare un principio nomofilattico dirimente, non hanno ravvisato un’antinomia interpretativa[7].
Punto nodale quella questione, indi, va rinvenuto nella c.d. “esteriorizzazione del metodo mafioso”, il quale si compone del duplice lemma della “forza di intimidazione” e delle “condizioni di assoggettamento e omertà” che da essa derivano.
Con specifico riguardo alle mafie delocalizzate operanti ora all’estero, ora nell’area settentrionale della penisola, si sono registrati due contrapposti filoni interpretativi.
Un primo orientamento ha ritenuto impossibile prescindere dai requisiti di tipicità postulati dalla fattispecie normativa, con riguardo all’espressa ed effettiva esplicazione, nel territorio di riferimento, della duplice componente della forza intimidatrice, nonché delle condizioni di omertà e assoggettamento, a mente delle quali la consorteria periferica andrebbe annoverata sotto l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 416 bis c.p.
La mancanza di dette condizioni implicherebbe, infatti, una palmare violazione del principio di legalità, senonché un’obliterazione dei requisiti esplicitati dalla norma[8].
Con antitetici arresti giurisprudenziali, invece, è stato delineato un divergente criterio ermeneutico, che eleva il collegamento delle cellule periferiche mafiose con la “casa madre” di riferimento a criterio probante la mafiosità delle stesse, vanificando in tal modo, i requisiti normativi.
Non sarebbe necessario, indi, il riscontro probante l’effettiva capacità di intimidazione del sodalizio, risultando sufficiente la mera forma potenziale, piuttosto che effettiva e attuale, in ragione del fatto che la nuova colonia andrebbe a mutuare le metodologie di controllo del territorio dalla “casa madre” di riferimento[9].
Tali discrasie ermeneutiche, acuitesi anche a seguito delle note vicende “Minotauro”, “Albachiara” e “Crimine-Infinito”, portarono la Seconda Sezione della Corte di Cassazione a rimettere alle Sezioni Unite la questione relativa alla natura mafiosa o meno delle articolazioni periferiche delle mafie storiche insediatesi nel nord Italia[10].
Il quesito non fu mai sottoposto al vaglio del Consesso riunito nella sua più autorevole composizione, ritenendolo il Primo Presidente, con provvedimento del 28 aprile 2015, inammissibile per assenza di contrasto interpretativo sul punto: “l’integrazione della fattispecie di associazione mafiosa implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua esistenza, una capacità d’intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”.
Le opzioni esegetiche susseguitesi al 2015 hanno rimarcato la bipartizione dei due distinti e discordanti orientamenti infra evidenziati, con specifico riguardo alle vicende “Pesce”, “Vicidomini” e “Barranca”.
Orbene, il primo convincimento di carattere formalistico e restrittivo, inerente le locali mafiose insediate all’estero ed in Italia, richiederebbe l’accertamento in concreto, in termini di effettiva attualità, della sussistenza del metodo mafioso come delineato nei suoi costituenti normativi posti dal comma terzo dell’art. 416 bis c.p.
Ineluttabile risulterebbe accertare che «l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, quale forma di condotta positiva»[11].
Un secondo indirizzo ermeneutico, d’impronta sostanziale ed estensiva, di contro, riterrebbe meramente sufficiente l’accertamento del collegamento tra la “cellula delocalizzata” e la “casa madre”, nonché la mutuazione da parte della prima delle connotazioni dell’ultima, circostanze necessarie al fine di considerare sussistente il c.d. “pericolo presunto per l’ordine pubblico” caratterizzante un’associazione mafiosa.
Più specificamente, l’articolazione periferica verrebbe sussunta sotto l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 416 bis c.p. a prescindere dall’effettiva esplicazione del metodo mafioso nel territorio di riferimento, per il sol fatto di costituire una ramificazione di una consorteria mafiosa storica, dotata della potenziale capacità di intimidazione e pertanto idonea di per sé, quasi di riflesso, a piegare alle sue condizioni tutti i soggetti che con essa vengano a contatto, mediante l’imposizione di condizioni di assoggettamento e omertà[12].
In questi termini veniva ricostruita l’esistenza di un contrasto interpretativo sul punto, da parte della Prima Sezione della Suprema Corte, che con la citata ordinanza del 19 aprile 2019 rimetteva al vaglio nomofilattico delle Sezioni Unite il seguente quesito: “Se sia configurabile il reato di cui all’art. 416-bis c.p. con riguardo a una articolazione periferica (cd. «locale ») di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione « madre », anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento”[13].
L’ordinanza in commento parrebbe circoscrivere scrupolosamente il petitum, precisando che rimangono escluse dal vaglio interpretativo le associazioni di nuovo conio, con autonomia strutturale e organizzativa, prive d’ogni qualsivoglia collegamento con un gruppo criminale preesistente, rispetto alle quali sarebbe sempre necessaria l’effettiva esteriorizzazione del metodo mafioso.
Cionondimeno, il Presidente Aggiunto della Suprema Corte di Cassazione ha nuovamente rigettato la questione, confermando, con ordinanza di restituzione degli atti alla Sezione rimettente ex art. 172 disp. att. c.p.p., il convincimento già espresso nel 2015[14].
Per il Presidente aggiunto, il panorama giurisprudenziale sulle mafie delocalizzate «appare consolidato nell’affermare che ai fini della configurabilità di un’associazione di tipo mafioso è necessaria una effettiva capacità intimidatrice del sodalizio criminale da cui derivino le condizioni di assoggettamento ed omertà di quanti vengano con esso effettivamente in contatto »[15].
È la stessa ordinanza di restituzione degli atti a tracciare la linea di demarcazione tra neoformazioni mafiose e articolazioni periferiche, precisando che il discrimen tra le due manifestazioni non riguarda la capacità di intimidazione del sodalizio, requisito imprescindibile ai fini della configurazione del reato, bensì la forma di “esteriorizzazione del metodo mafioso”.
Invero, con riguardo alle mafie di nuova creazione, costituite al di fuori dei territori di appartenenza con strutture autonome ed originali, “pur proponendosi di adottare la medesima metodica delinquenziale delle “mafie storiche”, sarebbe pur sempre necessario verificare, nel nuovo ambiente di riferimento, l’esteriorizzazione del metodo mafioso in tutte le sue componenti, “in termini di assoggettamento e omertà”.
In ordine, invece, a quegli aggregati che si pongono quale “mera articolazione territoriale di una tradizionale organizzazione mafiosa”, sufficiente sarebbe soltanto la prova dell’esistenza di un “collegamento funzionale e organico” per inferire nella cellula i tratti distintivi di un’associazione mafiosa, “compresa la forza intimidatrice e la capacità di condizionare l’ambiente circostante”[16].
Tuttavia, siffatta operazione esegetica non risulta scevra di profili di criticità.
Anzitutto si evidenzi che, per quanto astrattamente condivisibili, tali argomentazioni partono da un assunto inesatto, rectius l’assenza di un contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità del reato associativo di cui all’art. 416 bisc.p., circostanza questa, smentita dalla pletora di pronunce discordanti sul punto.
Tanto è vero, che dopo il pronunciamento in oggetto continuano a registrarsi orientami sul punto difformi, ora aderenti al criterio della mera potenzialità intimidatrice delle mafie locali[17], ora aderenti all’opposto criterio della necessaria esteriorizzazione del metodo mafioso, sia per i sodalizi di nuovo conio, sia per i sodalizi costituenti diramazione delle consorterie mafiose tradizionali[18].
Secondo alcune scuole di pensiero, la mancata presa di posizione della Corte andrebbe classificata come una mera “valutazione di opportunità”, non dovendo escludersi la possibilità che il Collegio abbia volutamente negato “l’esistenza di un conflitto interpretativo sincronico nella giurisprudenza di legittimità”, al fine di evitare lo stesso “effetto a cascata” prodotto dalla sentenza della Corte EDU “Contrada c. Italia” del 2015[19], sulle precedenti decisioni di condanna.
La componente di rischio consisterebbe nella possibilità che gli stessi imputati della vicenda affrontata dalle Sezioni Unite, deducessero innanzi alla Corte di Strasburgo la violazione dell’art. 7 CEDU, con riguardo all’irretroattività della legge penale, in tutti i casi in cui le eventuali sentenze di condanna passate in giudicato per la partecipazione a consorterie delocalizzate, sarebbero state pronunciate sulla scorta dell’esistenza del collegamento con la “casa madre”, a prescindere dall’effettivo riscontro del metodo mafioso[20].
Ulteriore criticità, cui tale interpretazione esegetica ha dato luce, riguarda la portata espansiva del criterio del potenziale pericolo ravvisato nel “collegamento funzionale e organico” della cellula mafiosa distaccata con la “casa madre”, il quale ha portato ad un recente pronunciamento giurisprudenziale, la cui caratura assai originale ed espansiva, risulta poco condivisibile.
Con la citata sentenza n. 20926 del 13 maggio 2020, infatti, la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte ha riproposto, come criterio di identificazione di un sodalizio mafioso insistente in un territorio diverso da quello in cui si è storicamente radicato, il criterio del collegamento con l’organizzazione principale, estendendolo anche alle realtà territoriali già intrise dalla presenza di mafie storiche.
Nel caso di specie veniva in rilievo un nuovo gruppo denominato “Terzo Sistema”, operante nel territorio di Torre Annunziata, storicamente inquinato da fenomeni camorristici.
Secondo il dictum della Corte “l’insorgenza di un nuovo “gruppo” finalisticamente e metodologicamente orientato al perseguimento di finalità mafiose, ben possa “sfruttare” – volgendole a proprio vantaggio di sodalizio “neonato” – proprio la notorietà e il conseguente assoggettamento omertoso derivante dalla attività – pregressa e perdurante – di gruppi mafiosi già occupanti in maniera stabilmente radicata il medesimo ambito territoriale”.
In particolare, laddove un nuovo gruppo criminale nasca “per gemmazione” da una cosca già storicamente e stabilmente radicata su un determinato territorio (anche) attraverso il “passaggio” di un esponente di vertice dalla vecchia alla nuova consorteria, “non si assiste ad una novazione, bensì di una successione a titolo particolare di un consesso che utilizza lo stesso metodo e si pone le medesime finalità criminali del precedente, nell’ambito di un pactum avente eguale natura – perfettamente riconducibile alla medesima societatis sceleris per modello e tipo – e destinato ad insistere in una realtà territoriale notoriamente già adusa a confrontarsi con realtà criminali di tal fatta”.
Si è in tal modo ritenuto, il criterio del collegamento valevole anche rispetto alle nuove organizzazioni che si radicano in un territorio già attinto da fenomeni mafiosi, mediante un’interpretazione assai forzata e poco condivisibile con riguardo al caso concreto.
L’applicazione allargata del ridetto criterio si pone, tra l’altro, in contrasto con la “storica” sentenza Crimine[21], nonché con la più recente sentenza Albanese[22], entrambe della Prima Sezione della Corte, con cui i giudici di legittimità hanno evidenziato come la sussistenza del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. non costituisce una questione nominalistica, bensì di sistematizzazione della relazione “prova – tipicità del fatto”.
Il convincimento espresso è quello secondo cui non basterebbe ad integrare il requisito di tipicità, richiesto dalla norma, la mera riproduzione all’interno del neo-costituito sodalizio, di regole, strutture e ripartizioni gerarchiche dei ruoli, analoghe a quelle dei gruppi mafiosi storici, essendo imprescindibile l’esteriorizzazione in concreto della capacità di intimidazione e la connessa produzione di un assoggettamento omertoso diffuso.
Una divergente esegesi andrebbe a privare del suo contenuto sostanziale la norma in parola, laddove la stessa richiede come condizione tipizzante, rispetto alla associazione semplice, “l’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”[23].
La soluzione estensiva a mente della quale sarebbe possibile prescindere dalla manifestazione concreta ed attuale del metodo mafioso incontra, ancora, diverse argomentazioni critiche riferite specificamente alla “lettera” del disposto normativo dell’art. 416 bis c.p..
“Il criterio del collegamento”, infatti, non potrebbe da solo costituire l’unico indice di riferimento per la sussunzione delle consorterie delocalizzate sotto al genus normativo dell’art.416 bis c.p., poiché un sistema di diritto penale costituzionalmente incentrato sul principio di legalità dei reati e delle pene, non può che ammettere la riconduzione di una determinata fattispecie criminosa sotto l’ipotesi normativamente prevista, esclusivamente in presenza di tutti gli elementi strutturali ex lege previsti.
Interpretazioni in tal senso difformi andrebbero ad enfatizzare, dunque, valutazioni di stampo prevalentemente sociologico, limitatamente ancorate ai mutamenti socio-strutturali della criminalità organizzata, riconducendo al novero della figura delittuosa de qua, formazioni criminali molto diverse da quelle originariamente previste, silenti e scevre della necessaria vis intimidatrice esplicata nel nuovo contesto di riferimento, in aperta violazione del ridetto principio di legalità.
Il delitto andrebbe, di guisa, a qualificarsi come “fattispecie dalla geometria variabile”[24], i cui elementi costituivi verrebbero ritenuti ora necessari, ora voluttuari, a seconda della natura del sodalizio preso in considerazione (neoformazioni o mafie delocalizzate)[25].
Una siffatta concezione, inoltre, andrebbe ad equiparare ingiustificatamente, con precipuo riguardo alla dosimetria della pena, vicende criminali fortemente eterogenee, come le storiche consorterie attuanti il metodo mafioso per la realizzazione del loro programma criminale, a sodalizi criminali ricavanti la loro caratura mafiosa da un mero processo per relationem, non essendo ancora operative nel contesto di nuovo insediamento con le metodologie di cui all’art. 416 bis, comma 3 c.p.
Così facendo, si attribuirebbe all’art. 416 bis c.p., in via del tutto aberrante, la natura di reato di pericolo presunto, la cui consumazione verrebbe a provarsi con la mera e potenziale sussistenza della forza intimidatrice del sodalizio, mediante un riecheggiare dei connotati mafiosi dalla “casa madre” alla cellula periferica.
In conclusione, tracciati tali rilievi, l’unica eventualità prospettabile al fine di allargare le maglie della fattispecie delittuosa associativa prevista dall’art. 416 bis c.p., consentendone l’applicazione alle nuove forme di espressione delle realtà mafiose, sarebbe quella di un paventato intervento legislativo espresso, volto ad estendere il concetto di “metodo mafioso” oltre gli attuali confini normativi.
In mancanza, per supplire a tale lacuna, la Giurisprudenza dovrebbe, con maggiore nitidezza, rimarcare che il ridetto “criterio del collegamento” non può rivestire una sterile valenza “interna” al gruppo, dovendosi enfatizzare la necessaria presenza del carattere dell’esteriorizzazione del metodo mafioso, mediante un riscontro probatorio ancorato all’effettiva capacità di intimidazione posseduta dal sodalizio, nonché alla tangibile percezione che di essa ne ha il territorio di riferimento[26].
[1] Cfr. G. Amarelli, “Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto”, Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 3, 1 settembre 2019.
[2] Cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. II, n.24850 del 28/03/2017; Cass. Pen., Sez. VI, n.57896 del 26/10/2017; Cass. Pen., Sez. II, n. 10255 del 29/11/2019; Cass. Pen., Sez. II, n. 20926 del 13/07/2020.
[3] Cfr. ex multis: Cass. Pen., Sez. VI, n. 44667 del 12/05/2016; Cass. Pen., Sez. II, n. 24850 del 28/03/2017; Cass. Pen., Sez. V, n.47535 del 11/07/2018; Cass. Pen., Sez. II, n. 20926 del 13/05/2020;
[4] Cfr. G. Amarelli, pag.3, cit.;
[5] Cfr. C. Visconti-I. Merenda, “Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente”, 24 gennaio 2019, 3, disponibile qui: ;
[6] Cfr. G. Turrone, “Il delitto di associazione mafiosa”, edizione 2016;
[7] Cfr. G. Amarelli, cit.;
[8] Cfr. G. Amarelli, cit.;
[9] Cfr. ex multis: Cass. Pen., Sez. I, n.252418 del 15/02/2012; Cass. Pen., Sez. V, 7/05/2013, Maiolo; Cass. Pen., Sez. V, 5/06/2013, Cavallaro. In argomento cfr. C. Visconti-I. Merenda, cit.;
[10] Cfr. ex multis: Cass. Pen., Sez. VI, n. 30059 del 05/06/2014, c.d. “processo Infinito-1”; Cass. Pen, Sez. II, n. 34147 del 21/04/2015, c.d. processo Infinito-2; Cass. Pen. Sez. VI, n. 18459 del 22/01/2015, c.d. “processo Cerberus”; ed in relazione a locali piemontesi Cass. Pen., Sez. II, n. 15412 del 23/02/2015, c.d. “processo Minotauro”; Cass. Pen., Sez. V, n. 31666 del 3/03/2015, c.d. “processo Albachiara”.
[11] In tal senso, cfr. ad es. Cass. Pen., Sez. I, del 30/12/2016, Pesce e altri; Cass. Pen., Sez. VI, del 13/09/2017, Vicidomini. Nonché, in un obiter, anche la stessa ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, Cass. Pen, Sez. I, n.15768 del 10/04/2019;
[12] Cfr. ex multis: Cass. Pen., Sez. II, n. 29850 del 18/05/2017, Barranca; Cass. Pen., Sez. V, n. 28722 del 24/05/2018, Demasi; Cass. Pen., Sez. V, n. 47535 dell’11/07/2018, Nesci;
[13] L’ordinanza di rimessione è consultabile in Dir. pen. cont., 6 giugno 2019, con una nota di L. Ninni, “Alle Sezioni unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso con riguardo ad articolazioni periferiche di un sodalizio mafioso in aree <<non tradizionali>>”;
[14] Provvedimento consultabile in www.cassazionepenaleweb.it , del 17 luglio 2019. Sul punto, per tutte le considerazioni critiche, cfr. anche I. Merenda-C. Visconti, cit.;
[15] Cfr. pag. 1 Ordinanza di restituzione, cit.;
[16] Cfr. pag. 1 e 2 Ordinanza di restituzione, cit.;
[17] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, n. 20926, del 13/05/2020;
[18] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, n. 18125 del 16/10/2019:“Ai fini dell’esistenza del reato di associazione mafiosa, sia che si tratti delle cosiddette diramazioni locali [cellule di derivazione da mafie storiche] operanti in territorio diverso da quello “tradizionale”, sia che si tratti delle c.d. “nuove mafie” [nella specie, trattavasi di un’organizzazione criminale “non tradizionale” operante nella città di Roma], è necessario che il gruppo abbia fatto un effettivo e concreto esercizio della forza di intimidazione, manifestata all’esterno e produttiva di assoggettamento omertoso, non essendo sufficiente che l’associazione si fondi su precise regole interne, su rigidi e anche violenti protocolli solo interni, anche se in grado di esporre a pericolo chi se ne voglia allontanare”;
[19] Provvedimento disponibile su www.italgiure.giustizia.it ;
[20] Cfr. G. Amarelli, cit.;
[21] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, n. 55359 del 30/12/2016;
[22] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, n.51489/2019 del 20/12/2019;
[23] Sul punto cfr. I. Gennaro, “Come cambia l’associazione mafiosa: le nuove organizzazioni autonome dai clan mafiosi storicamente operanti sul medesimo territorio”, 26/10/2020, disponibile qui: www.ilpenalista.it ;
[24] Cfr. G. Amarelli, cit.;
[25] In questo senso, infatti, vi è chi ha osservato che l’art. 416 bis c.p. rappresenti, al pari degli altri reati associativi, una “fattispecie a formazione processuale”, osservando che «il processo è la cartina di tornasole delle sue ambiguità e della sua labilità contenutistica; dietro questa insostenibile inconsistenza aleggia lo spettro — mai fugato — dell’inquisitio generalis. Il processo costruisce il suo oggetto: la fattispecie di reato è svilita a pretesto, a elemento propulsore contingente e fungibile», così A. Cerulo, “Il trionfo dei reati associativi e l’astuzia della ragione”, in Ind. pen., 2004, 1009. Così anche chi ha parlato dei reati associativi come “strumenti di coazione processuale”, così G. Insolera, “L’associazione per delinquere”, Padova, 1983.
[26] I. Gennaro, cit.
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La dott.ssa Ilaria Marchì nasce a Enna il 29 ottobre del 1993.
Dopo aver conseguito diploma di maturità scientifica nell’anno 2012 presso l’I.S.I.S.S. “G. Falcone” di Barrafranca (EN), si iscrive presso l’Università degli Studi Kore di Enna, conseguendo nell’ottobre 2017 laurea magistrale in Giurisprudenza.
Il suo percorso post-universitario risulta ricco di esperienze formativo-professionali.
Dal novembre 2017 fino al novembre 2019, ha svolto la pratica forense presso lo studio legale “Piazza & Associati”, occupandosi della redazione di atti giudiziari di varia natura, penale e civile, nonché di attività di udienza.
A far data dal maggio 2018 fino all’ottobre 2019, ha svolto tirocinio giudiziario ex art. 73 d.l. n. 79/2013, presso la Corte d’Appello di Caltanissetta.
Durante i primi sei mesi di tale periodo formativo ha coadiuvato il Presidente della Seconda Sezione Penale della Corte D’Appello di Caltanissetta, partecipando alle attività di udienza, alle successive camere di consiglio, predisponendo relazioni di inizio processo, stralci di sentenze, provvedimenti giudiziali di vario genere, nonché partecipando a procedimenti di applicazione di misure di prevenzione.
E’ stata impegnata anche presso l’Ufficio del Processo, svolgendo adempimenti di vario genere.
I successivi 12 mesi di formazione li ha eseguiti presso la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, coadiuvando strettamente il Presidente, ed il Giudice a latere, partecipando a diversi processi di estremo rilievo, quali, tra gli altri, Borsellino quater e Capaci bis.
La sua specifica attività è stata quella di redigere le relazioni di inizio processo- crono-storia del primo grado di giudizio- nonché sintesi di atti d’appello e redazione bozze motivazionali di sentenza.
Nel luglio 2019 ha conseguito un master di II livello presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, Università degli Studi Kore di Enna.
Ad oggi lavora presso un noto studio legale in Sicilia, “Studio Legale Sinatra & Partners”, occupandosi di attività giudiziale e stragiudiziale e, più specificamente, della redazione di atti giudiziari di vario tipo, di natura penale (come redazione di esposti, querele, atti di gravame, istanze, etc…) e civile.
Con precipuo riguardo al diritto penale, branca specializzante del ridetto studio, si occupa di fornire consulenza ed assistenza legale personalizzata al cliente, trattando reati contro la persona (omicidio, lesioni personali), contro il patrimonio (rapina, estorsione, furto, ricettazione, riciclaggio), reati in materia di sostanze stupefacenti (detenzione a fini di spaccio, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga), reati associativi e di criminalità organizzata (associazione a delinquere, associazione di stampo mafioso, associazione sovversiva), reati sessuali e prostituzione (violenza sessuale, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione), reati contro la famiglia (stalking) e reati contro la Pubblica Amministrazione.
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