lunedì, Dicembre 2, 2024
Criminal & Compliance

Immigrazione e diritto penale: tra paura del diverso ed esigenze di tutela

“All’inizio non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare.”

[Italo Calvino – Le Cosmicomiche]

 

Il fenomeno migratorio ha, soprattutto negli ultimi anni, monopolizzato il dibattito politico-istituzionale Italiano, concentrando su di sé l’attenzione di gran parte dell’opinione pubblica: molto spesso, nel frastornato flusso di opinioni ed idee, vengono però trascurate le esigenze basilari di tutela poste alla base di qualsiasi Stato di diritto moderno.
I massicci flussi migratori hanno velocizzato notevolmente la formazione di un ordinamento sempre più multiculturale, trasformando l’Italia in una società di tipo polietnico [1]. L’immigrato si confronta con regole di condotta e norme penali diverse da quelle presenti nel paese d’appartenenza: tale diversità induce molto spesso il soggetto a compiere una determinata azione considerata come reato nel Paese di destinazione, in virtù di dettami socio-culturali — provenienti dalla propria cultura — i quali ne tollerano o giustificano il compimento nell’ordinamento d’appartenenza [2]. Il diritto penale deve quindi interrogarsi sui rapporti tra le singole comunità e l’ordinamento giuridico nazionale: è proprio nelle aule giudiziarie che si è posto il problema di come trattare l’imputato appartenente ad un dato gruppo culturale di minoranza; un ruolo determinante viene attribuito al giudice, il quale integra le proprie conoscenze mediante l’apporto di interventi antropologici e sociali, mirando così alla efficace risoluzione dei conflitti interculturali.

L’enucleazione del  delitto di “tratta di esseri umani” [3] può essere molto utile per la comprensione del fenomeno migratorio rapportato all’intervento del diritto penale: questa attività criminale ha infatti una dimensione mondiale, coinvolgendo, secondo dati forniti dalle organizzazioni internazionali, tra i ventisette ed i duecento milioni di persone, con proventi tra i cinque e dieci miliardi di dollari all’anno.   Fondamentale, da un punto di vista criminologico, è la distinzione tra trafficking in persons e smuggling of migrants: tale classificazione è stata recepita non solo nel diritto internazionale e comunitario, ma anche nelle legislazioni nazionali (si faccia l’esempio dell’ordinamento italiano che con la l.228 del 2003 ha distinto le due ipotesi).

Con trafficking in person viene individuato il traffico di esseri umani al fine di un successivo sfruttamento, focalizzando la tutela sul bene giuridico della dignità della persona umana; con smuggling of migrants si intende il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina mediante l’introduzione illegale di migrati clandestini. Fondamentale per la definizione del reato in questione, ponendo fine ad una lunga e confusa evoluzione normativa, è il “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata”: in particolar modo l’art. 3 del Protocollo di Palermo sul traffico di persone, accogliendo la distinzione operata poc’anzi, definisce la tratta di persone come «il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o  di  una  posizione  di  vulnerabilità  o  tramite  il  dare  o  ricevere  somme  di  denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento  della  prostituzione  altrui  o  altre  forme  di  sfruttamento  sessuale,  il  lavoro  forzato  o  prestazioni  forzate,  schiavitù  o  pratiche  analoghe,  l’asservimento o il prelievo di organi […]».

Per delineare brevemente il quadro nazionale Italiano in materia è necessario enucleare l’art. 601 c.p. novellato dal d.lgs. n. 24/2012 per cui «è punito con la reclusione da otto a venti anni chiunque recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l’autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano nelle condizioni di cui all’articolo 600, ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi. Alla stessa pena soggiace chiunque, anche al di fuori delle modalità di cui al primo comma, realizza le condotte ivi previste nei confronti di persona minore di età. La pena per il comandante o l’ufficiale della nave nazionale o straniera, che commette alcuno dei fatti previsti dal primo o dal secondo comma o vi concorre, è aumentata fino a un terzo. Il componente dell’equipaggio di nave nazionale o straniera destinata, prima della partenza o in corso di navigazione, alla tratta è punito, ancorché non sia stato compiuto alcun fatto previsto dal primo o dal secondo comma o di commercio di schiavi, con la reclusione da tre a dieci anni».

La norma in questione ha il pregio di descrivere dettagliatamente le condotte costituenti la fattispecie di reato: al fine di porre un ulteriore freno al fenomeno, inoltre, sono stati inseriti con il d.lgs. n.21 del 2018 gli ultimi due commi i quali puniscono con un’apposita circostanza aggravante specifica il comandante o l’ufficiale della nave che trasporta i soggetti indicati.

Analizzando il “Diritto Penale dell’Immigrazione” [4] sembra emergere un sistema teso a nascondere lo spirito illiberale della disciplina in materia, dove l’intervento si discosta dal modello del diritto penale del fatto, assumendo in particolar modo le sembianze — da ciò la precisazione terminologica che qualifica l’insieme delle disposizioni in materia come “diritto penale dell’immigrato irregolare” — di un diritto penale contro la persona [5] dell’immigrato irregolare.

Conseguentemente il sistema così delineato sembra assumere, dunque, le sembianze di un paradigma simile al diritto penale del nemico, tipica forma di legittima deviazione da alcune garanzie fondamentali, attuata per il contrasto al terrorismo nazionale. I reati di immigrazione irregolare sono contraddistinti, dunque, da un atteggiamento repressivo che mira a neutralizzare l’immigrato irregolare considerato socialmente pericoloso: si faccia l’esempio dell’Art 14 del Testo Unico sull’Immigrazione, il quale ha subito numerose modifiche normative in seguito ai condizionamenti subiti dalle legislazioni susseguitesi nel tempo.

Dalla emanazione con il D.lgs. n. 286 del 1998, alla modifica prevista dalla legge Bossi-Fini del 2002 (con cui si è previsto l’obbligo dell’arresto in flagranza) ai pacchetti sicurezza 2008 e 2009 (i quali hanno introdotto delle pene edittali particolarmente elevate, come la reclusione da sei mesi a cinque anni dello straniero che senza giustificato motivo, violando l’ordine d’espulsione impartito dal questore, permanesse illegalmente sul territorio dello Stato).

Nell’ultima formulazione del TUIMM — in seguito alle recenti modifiche, apportate al TUIMM dal Decreto Legge 4 ottobre 2018, n. 113 convertito, con modificazioni, dalla L. 1° dicembre 2018, n. 132, dal Decreto Legislativo 11 maggio 2018, n. 71 e dalla Legge 11 gennaio 2018, n. 3 — l’art. 14, in particolar modo ai commi 5 ter e quater, prevede che «allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione o di respingimento, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di sette giorni, qualora non sia stato possibile trattenerlo in un Centro di permanenza per i rimpatri ovvero la permanenza presso tale struttura non ne abbia consentito l’allontanamento dal territorio nazionale, ovvero dalle circostanze concrete non emerga più alcuna prospettiva ragionevole che l’allontanamento possa essere eseguito e che lo straniero possa essere riaccolto dallo Stato di origine o di provenienza […] La violazione dell’ordine di cui al comma 5-bis è punita, salvo che sussista il giustificato motivo, con la multa da 10.000 a 20.000 euro, in caso di respingimento o espulsione disposta ai sensi dell’articolo 13, comma 4, o se lo straniero, ammesso ai programmi di rimpatrio volontario ed assistito, di cui all’articolo 14-ter, vi si sia sottratto».

Analisi statistica dei reati

Strumentale al fine di concedere un quadro maggiormente completo del “diritto penale dell’immigrazione” è l’analisi statistica dei reati commessi dai soggetti immigrati. Chiarimento fondamentale, inderogabile ed assolutamente necessario: i dati statistici forniti, così come le relative analisi, vanno presi con cautela, evitando di alimentare dibattiti politici assolutamente incompatibili con uno stretto approccio giurisprudenziale [6].

Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia aggiornate al 2016  su una popolazione detenuta di circa 55 mila soggetti ben il 33% del totale viene costituita da immigrati irregolari: fondamentale è però presentare dei correttivi alla statistica in questione. La maggior parte degli immigrati clandestini è costituita da soggetti maschi, giovani e privi di famiglia: rispetto all’intera popolazione italiana è giustificabile dunque un tasso proporzionale di delittuosità maggiormente elevato, in virtù della considerazione di come la possibilità di compiere un delitto aumenti nella popolazione di soggetti maschi e giovani. Incide sulla statistica in questione — determinando un aumento percentuale di immigrati nelle carceri — soprattutto la maggior difficoltà di tali soggetti ad accedere a misure alternative: tale criticità viene alimentata innanzitutto dalla presenza di mezzi di difesa tecnica notevolmente inferiori; nonché dalla mancanza di condizioni lavorative, abitative e familiari tali da permettere la concessione di tali misure. Tanto che secondo le statistiche Idos del 2015, tra il 2004 ed il 2012 il tasso di delittuosità degli italiani risulterebbe maggiore rispetto a quello degli stranieri (37% contro il 30%).

A conclusione dell’analisi statistica è utile ricordare come lo studio in questione dovrebbe presupporre la distinzione tra stranieri regolari ed irregolari, tanto che proprio nel rapporto 2015 del Ministero degli Interni si prevede che «solo depurando gli stranieri denunciati della componente irregolare potremo dire se l’incidenza degli stranieri regolari tra i denunciati è superiore rispetto a quella che si riscontra nella popolazione residente in Italia».

Tanto premesso, la diversità importata dagli immigrati sembra ad oggi mettere in crisi gli equilibri socio-culturali degli ordinamenti di destinazione, nonché il diritto penale stesso. Un percorso utile da seguire per superare tale stallo potrebbe essere rappresentato dal prendere innanzitutto atto, anche soprattutto in un’ottica di coscienza sociale, della oramai irriducibile pluralità di culture che caratterizzano l’Italia e l’Europa tutta, evitando l’assurgere di dati modelli culturali quali unità di misura per ogni altra e diversa cultura. Inoltre, ai fini di una corretta lettura dei dati proposti, è necessario ipotizzare come le condizioni di marginalizzazione degli immigrati irregolari siano alla base dell’alto tasso di delittuosità dei soggetti analizzati: la scelta solidaristica non può limitarsi alla sola accoglienza (che genera marginalizzazione ed irregolarità), dovendo correre lungo una opera d’integrazione complessa che possa contenere gli effetti criminogeni connessi al fenomeno dell’immigrazione.

 

[1] Si veda Will Kymlicka in “La cittadinanza multiculturale”.

[2] Sul punto sono numerose le opere di Fabio Basile (Titolare della cattedra di “Diritto penale – parte generale” presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche C. Beccaria dell’Università degli Studi di Milano). Strumentali all’analisi in questione saranno soprattutto: “Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali” e “Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili)” in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale.

[3] Si veda Luciana Goisis “L’immigrazione clandestina ed il delitto di tratta di esseri umani” in Diritto Penale Contemporaneo.

[4] Sul punto Licia Siracusa “Il diritto penale dell’immigrato: brevi spunti per una riflessione sul diritto penale della paura”.

[5] Si veda Alessandro Spena “Criminalization of Immigrants and the Basic Principles of the Criminal Law”.

[6] Pubblicazione di riferimento per l’analisi proposta è di Francesco Palazzo “Immigrazione e Criminalità” in Diritto Penale Contemporaneo.

Antonio Esposito

Dottore in Giurisprudenza, laureato presso la Federico II di Napoli: si occupa prevalentemente di Diritto Penale e Confessionale. Sviluppa la propria tesi di laurea intorno all'affascinante rapporto tra fattore religioso e legislazione penale (Italiana ed Internazionale), focalizzandosi su argomenti di notevole attualità quali il multiculturalismo, il reato culturalmente motivato e le "cultural defense".

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