ARBITRATO E TRANSLATIO IUDICII: SENTENZA 223/2013 E RIFORMA DEL 2006
Con la sentenza n. 223 del 19 Luglio 2013, la Consulta ha latamente inteso stringere il cerchio in materia di riavvicinamento ed equiparazione tra la giurisdizione pubblica e privata. Il tema in discussione è alquanto rilevante, vista la crescente rilevanza che assume la risoluzione alternativa delle controversie civili, dovuta agli incresciosi numeri che accompagnano lo svolgimento della risoluzione ordinaria.
La discussione prende le mosse da una storia e recente sentenza (citata sopra), la quale è frutto diretto di due ordinanze, una emessa dal Tribunale di Catania e l’altra da un Arbitro di Bologna. Entrambi dubitavano della legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, secondo comma, del codice di procedura civile, in quanto in contrasto con gli art. 3,24,111 cost.
Tale comma negava infatti l’applicabilità dell’art. 50 (“Riassunzione della causa”) in caso di pronuncia del giudice ordinario di diniego della propria competenza a favore di quella dell’arbitro e viceversa, e di conseguenza l’impossibilità di far salvi gli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda proposta dall’attore davanti al giudice/arbitro.
Già nel 2007 la stessa corte aveva abbattuto le barriere tra ordini giurisdizionali diversi, permettendo la riassunzione della causa facendo salvi gli effetti sostanziali e processuali (corte cost. sentenza 77/2007).
Arriva così la Consulta alla conclusione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 819-ter comma due, dopo la riunione dei giudizi per identità delle questioni sollevate.
A parere di chi scrive, la decisione della Consulta si pone in continuità logica con le tendenze legislativa e giurisprudenziali del nuovo millennio, ovvero quelle di rafforzare la caratteristica sostitutiva del giudizio arbitrale rispetto alla giurisdizione ordinaria. Con la riforma del 2006, infatti, sono stati introdotti nel codice di rito importanti disposizioni volte a sottolineare questa caratteristica. Su tutti ; l’introduzione dell’art. 816-quinquies che prevede l’ammissibilità dell’intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale e sull’applicabilità allo stesso dell’art. 111 in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso, ; dell’art. 819-bis comma uno n.3, il quale attribuisce agli arbitri la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionali (principio già palesato dalla Consulta con la sentenza 376/2001) ; l’art. 824-bis, che equipara gli effetti del lodo a quelli di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria.
Potremmo osservare in conclusione che l’esistenza, nel nostro ordinamento, di una possibilità alternativa di risoluzione delle controversie, è espressione massima della libertà di tutela e di difesa di diritti soggettivi ed interessi legittimi. D’altronde è questo il fine ultimo della giurisdizione, far sì che chi agisce in un giudizio privato o pubblico possa trovare piena tutela della propria posizione giuridica, ottenendo un provvedimento che, in negativo o in positivo, giudichi sul bene della vita in contesa. Orbene, sembra lampante come istituti limitativi della suddetta libertà mal si conciliano con le premesse di diritto fatte sopra.
Laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Federico II di Napoli con una tesi in diritto processuale civile.
Scrivo per Ius In Itinere dal 2016 e sono Responsabile dell’area “Contenzioso”.
Nella vita privata mi dedico essenzialmente allo studio, amo giocare a tennis e seguo il Milan, mia grande passione da quando sono bambino. Il più grande amore della mia vita è Lapo, un meticcio di pastore tedesco.