Il caso Iraq-UK ed il problema dell’intervento a tutela dei diritti umani
Alla luce dell’emersione di nuove informazioni, il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha deciso di riaprire le indagini preliminari relativamente alla presunta commissione di crimini di guerra da parte dei militari britannici durante il periodo dell’occupazione del territorio iracheno a partire dal 2003. [1] Si tratta, a ben vedere, di una questione di fondamentale importanza dato che l’azione militare in Iraq si è contraddistinta per una serie di problematiche relative sia alla legittimità dell’intervento, sia alle modalità di occupazione del Paese. Ed invero se, da un lato, pare ormai pacifico, a distanza di anni, che la tesi che affermava il possesso di armi nucleari da parte del regime di Saddam Hussein fosse del tutto priva di fonti, dall’altro, è emerso, soprattutto a seguito delle recenti inchieste, che le forze militari occupanti abbiano perpetrato sul territorio iracheno palesi e reiterate violazioni dei diritti umani fondamentali.
La questione è stata sottoposta, dunque, al vaglio della Corte Penale Internazionale sulla base di quanto disposto dal Trattato di Roma, ratificato dal Regno Unito nel 2002. In realtà, la questione della proponibilità dinanzi alla Corte Penale Internazionale è stata oggetto di accesi dibattiti tra gli studiosi della materia: la giurisdizione della Corte veniva messa in dubbio a causa della non partecipazione al Trattato istitutivo da parte dell’Iraq. Tuttavia, la giurisdizione della Corte viene confermata dallo stesso Statuto ex art. 12 in quanto si estende a tutti i crimini commessi in territorio iracheno ad opera di persone aventi cittadinanza di uno Stato Parte dello Statuto. Difatti il Report on Preliminary Examination Activities [2] della Corte Penale Internazionale per l’anno 2017, dopo aver effettuato uno studio della vicenda, analizzando sia l’intervento nel suo complesso che le violazioni dei diritti umani che si assumono realizzate, esprime il proprio parere in tali termini: “Alla luce delle conclusioni preliminari raggiunte in merito agli aspetti giurisdizionali, l’Ufficio sta procedendo a una valutazione di ammissibilità. Come previsto all’articolo 17, paragrafo 1, dello statuto, l’ammissibilità richiede una valutazione della complementarità e della gravità. In linea con la prassi giudiziaria, l’Ufficio valuterà la complementarità e la gravità in relazione ai reati più gravi che si presume siano stati commessi ed ai responsabili di tali reati. Lo Statuto non stabilisce alcuna sequenza obbligatoria nella considerazione della complementarietà e della gravità. Il Pubblico Ministero deve essere convinto dell’ammissibilità su entrambi gli aspetti prima di procedere “.
Orbene, aldilà delle questioni relative alla particolare situazione derivante dalla sottoposizione di uno solo degli Stati direttamente interessati dalla vicenda agli obblighi derivanti dallo Statuto di Roma, la vicenda merita di essere analizzata alla luce di una prospettiva più ampia che faccia emergere le problematiche derivanti da una mancata regolamentazione unitaria, da un lato, della materia della tutela dei diritti umani, e dall’altro, dell’uso della forza internazionale.
L’intervento armato del Regno Unito in Iraq nel 2003, all’epoca fu giustificato dalla necessità di evitare che il governo locale potesse utilizzare armi di distruzione di massa, il cui possesso tra l’altro, non fu mai concretamente provato. Orbene, pur volendo sorvolare sull’ammissibilità di un intervento siffatto, pare evidente che una Comunità Internazionale votata ai principi di unitarietà e democraticità e, soprattutto, segnata dall’emersione a rango para-costituzionale della Carta ONU, non possa assolutamente lasciare una sì ampia discrezionalità agli Stati in ordine agli interventi che si rendono necessari al fine di adempiere al fondamentale obbligo relativo alla tutela dei diritti umani.
Volendo analizzare la questione da un’ottica che tenga quanto più possibile conto delle difficoltà attualmente riscontrabili nella Comunità Internazionale, non è difficile notare una forte discrasia di base tra quanto previsto sul piano normativo e quanto invece effettivamente realizzato nella prassi concreta. In particolare, ad avviso di chi scrive, situazioni come quelle avvenute tra l’Iraq ed il Regno Unito sono figlie della non applicazione delle norme in tema di uso della forza previste dalla Carta ONU. Pur volendo sorvolare in tale sede sulle motivazioni che hanno portato al progressivo svuotamento di poteri da parte del Consiglio di Sicurezza e sulla conseguente non applicazione delle norme in tema di istituzione di un esercito permanente ONU votato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, pare necessario evidenziare che allo stato attuale il diritto internazionale deve dotarsi di una ridefinizione efficace dei termini che consentono agli Stati di poter intervenire con la forza a tutela dei diritti umani. Difatti, sebbene la maggior parte degli interventi armati manifestatisi nell’ultimo trentennio sono avvenuti in Stati ove effettivamente si assisteva ad una concreta e reiterata violazione dei diritti umani, è pur vero che talvolta le macerie lasciate dagli eserciti intervenienti non hanno fatto che accentuare le situazioni di disagio subite dalla popolazione locale.
Pertanto, alla luce di quanto sopra accennato pare evidente che la Comunità Internazionale deve impegnarsi al fine di partorire una regolamentazione dell’intervento armato a tutela dei diritti umani, in quanto, una simile normativa potrebbe produrre due risultati di non poco conto. In primo luogo infatti si porrebbe finalmente una base normativa all’intervento unilaterale a difesa dei diritti umani, evitando dunque il frequentissimo, nonchè illegittimo, richiamo alle norme in tema di legittima difesa oppure al ricorso alle autorizzazioni in bianco del Consiglio di Sicurezza. In secondo luogo, inoltre, si potrebbero in tal modo ridefinire obblighi e doveri dell’esercito interveniente nei confronti della popolazione locale. In tal senso, si potrebbero utilizzare i lavori della dottrina della “Responsabilità di proteggere”, la quale aveva teorizzato i punti fermi del progetto nei capisaldi del dovere di prevenire (responsibility to prevent), del dovere di reagire (responsibility to react) e del dovere di ricostruire (responsibility to rebuild).
[1] OTP Press Release: Prosecutor of the International Criminal Court, Fatou Bensouda, Re-opens the preliminary examination of the situation in Iraq, 13 maggio 2014
[2] https://www.icc-cpi.int/itemsDocuments/2017-PE-rep/2017-otp-rep-PE_ENG.pdf
Nato a napoli nel 1991, vive a Melito di Napoli. Ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso la Federico II di Napoli nel luglio 2016 con tesi in diritto internazionale. Attualmente oltre a frequentare la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, svolge il tirocinio forense presso lo Studio Legale Mancini, specializzato in diritto penale.
Ha collaborato con diverse testate editoriali, principalmente con articoli di cronaca locale e politica.
Ama il calcio, anche dilettantistico e la scrittura.