venerdì, Luglio 26, 2024
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Il caso Charlie Gard tra il diritto alla vita e il dovere di morire: le motivazioni delle Corte di Strasburgo

Il caso 

E’ tra sentimentalismo e concretezza che la vicenda del piccolo Charlie si intreccia, tra le posizioni antitetiche di coloro che si sono battuti per la desiderata guarigione e chi, invece, ha deciso di deporre le armi, guardando in faccia la, seppur triste, realtà. La malattia che affliggeva il bambino inglese non presentava, fin dalla sua diagnosi, aspettative rassicuranti, tanto che i medici inducevano già i genitori alla rassegnazione, informandoli dell’epilogo che aveva accomunato casi simili (peraltro rarissimi) e dell’assenza di specifiche cure che potessero portare ad un segnale di speranza. L’oggettività e l’aspetto tecnico che i medici riportavano risultava inevitabilmente incompatibile con la volontà di coloro che si sono attaccati ad un qualsiasi appiglio, pur di non accettare l’inaccettabile.
Nonostante ciò, i genitori del piccolo, Chris Gard e Connie Yates non si sono arresi e, poche settimane dalla nascita del bambino, la loro lotta è cominciata: una lotta emotiva ed estenuante, sostenuta dalla convinzione che la vita di quel neonato fosse cosa sacra e come tale da tutelare e custodire.  Una forma di depressione del Dna mitocondriale, malattia genetica molto rara causata dalla mutazione del gene RRM2B, fu diagnosticata al piccolo Charlie dopo solo un mese dalla sua nascita, il 4 agosto del 2016, da allora tenuto in vita solo grazie alle macchine del Great Ormond Street Hospital, che gli hanno permesso di respirare ed assorbire sostanze nutritive.

La malattia in questione avrebbe portato ad un deterioramento progressivo delle funzioni celebrali di Charlie, e, data la mancanza di trattamenti ad hoc, i medici dell’ospedale pediatrico dove il neonato era ricoverato hanno sostenuto la necessità di interrompere la terapia di sostegno, garantendo il diritto ad una “morte dignitosa” ed esente da eccessi di accanimento terapeutico. Ed è proprio dalla drastica posizione assunta dal lato medico-sanitario, che i Gards avevano deciso di sottoporre il figlio ad una costosa cura sperimentale negli Stati Uniti (chiamata “nucleoside”) , riuscendo a raccogliere fino a 1,25 milioni di sterline da oltre 80 mila donatori. Coscienti di non essere soli, di fronte al rifiuto di trasferire il neonato nel continente americano, i genitori di Charlie hanno deciso di iniziare la propria battaglia legale, che ha visto gli stessi presentarsi di fronte all’Alta Corte, poi alla Corte d’Appello, ed infine alla Suprema Corte. I medici avevano ritenuto lo spostamento “problematico, ma possibile” e la cura non solo dolorosa per il piccolo, ma soprattutto inutile, dato che il trattamento non è mai stato effettuato su corpo umano.

Le vicissitudini processuali che hanno visto succedersi le tre Corti inglesi, trovano, a seguito dell’istanza promossa in primo grado, la pronuncia del giudice Nicholas Francis, che aveva statuito la necessità di sospendere le terapie, cristallizzando in tal modo la decisione dei medici e successivamente il ricorso d’appello,  che è stato rigettato dalla Corte inglese.
L’istruttoria effettuata dall’Alta Corte ha preso coscienza del dato scientifico, con una pronuncia definita “antisentimentale” ma oggettiva,  pregna di tecnicismo e di razionalità, che ha portato ad un comprensibile sconforto nella “lotta alla vita”. “I medici sono sì tenuti a preservare la salute umana” , gli stessi sostengono, “ma hanno anche la responsabilità di non sfociare in un trattamento sproporzionato”, evitando sofferenze maggiori rispetto ai vantaggi terapeutici.

Il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo 
Al culmine dello scontro tra i genitori del piccolo Charlie e la controparte, ossia i giudici inglesi, di fronte all’ennesimo “no” all’autorizzazione per sottoporre il piccolo alle cure sperimentali, viene finalmente adita la Corte Europea dei diritti dell’uomo, i cui giudici hanno sottoposto ad accurato esame il ricorso presentato dagli aventi diritto, potenzialmente lesi dal diniego opposto dai professionisti inglesi in materia. I genitori del piccolo Charlie si sono schierati contro le sentenze rese dalle corti interne, considerandole lesive degli articoli 2 (diritto alla vita) e 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
I ricorrenti hanno presentato la richiesta per una “urgent interim measure”, accolta dalla Corte nell’interesse di conferire priorità ed urgenza al caso, sulla base del Rule 39 della Cedu dove si legge che “la Corte , il presidente della sezione o il giudice di turno possano adottare (su richiesta di parte o d’ufficio) misure preventive nell’interesse delle parti o per il corretto svolgimento del processo, e sempre che sussista un imminente rischio di un danno irreparabile, senza che possa essere pregiudicata alcuna successiva decisione sull’ammissibilità o merito del caso di specie”.
In attesa della pronuncia, la Corte ha posto l’obbligo per l’ospedale di continuare a tenere in vita il neonato: misure che sono state annullate a seguito della pronuncia definitiva del 27 giugno 2017, con cui si è deciso circa l’interruzione del trattamento.
La Corte EDU ha pertanto dichiarato il ricorso come inammissibile, conformandosi alla posizione dei giudici interni e preservando la loro giurisdizione: essa ha negato l’opportunità di potersi, in tale caso, sostituire alle autorità nazionali
in virtù del margine di manovra che gli Stati hanno nella sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni etiche e morali.
In forza di ciò, la Corte ha affermato: “le decisioni dei tribunali nazionali sono state meticolose e accurate e riesaminate in tre gradi di giudizio con ragionamenti chiari ed estesi che hanno corroborato sufficientemente le conclusioni a cui sono giunti i giudici”, e che, peraltro, in Gran Bretagna “esiste una legislazione, compatibile con la Convenzione Europea dei diritti umani, che regola sia l’accesso ai trattamenti sperimentali che la sospensione dei trattamenti per tenere in vita”.
I ricorrenti hanno poi eccepito la violazione dell’articolo 6 della Convenzione sul diritto ad un giusto processo, nonché dell’articolo 8, riguardante il rispetto alla vita privata e familiare: “ci sentiamo abbandonati dalla giustizia britannica”, aveva affermato la biasimata coppia, e l’unico barlume appariva la sola Corte Europea, la quale ha però impedito, con la sua decisione definitiva, la maturazione di un qualsiasi tipo di speranza. L’interruzione del sistema di ventilazione e alimentazione del piccolo è stata confermata una volta e per tutte, incontrando opposizioni e dissensi provenienti da ogni parte del mondo, divenendo il centro di una discussione che ha portato a confronto coscienze contrastanti.

In particolare, nella decisione di rigetto, la Corte attesta la mancata violazione della Cedu basandosi:

In primis, nella parte della sentenza relativa rispetto all’articolo 2 della Cedu , che statuisce :“ il diritto alla vita di ogni persona è protetta dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita…”, i giudici di Strasburgo hanno motivato la compatibilità del diritto britannico con l’articolo in questione, relativamente ad un regulatory framework conforme al livello di tutela richiesto dalla Convenzione. “Le obbligazioni positive dello Stato per la tutela della vita”, continua la Corte, “non possono essere interpretate in modo tale da comprendere anche un dovere di garantire cure non autorizzate”, affermando che ciascuno Stato gode, nella sfera relativa alla fine o alla nascita di una vita, di un “margin of appreciation”: una discrezionalità che gli permette non solo di decidere quando e come interrompere i trattamenti life-sustaining, ma anche di perseguire un corretto equilibrio tra la protezione del diritto alla vita dei pazienti e il diritto al rispetto della loro vita privata e della loro autonomia personale.
Si noti che il margine di discrezionalità accordato agli Stati non è illimitato, ma la Corte si riserva comunque il potere di poter valutare che lo Stato conformi la propria condotta agli articoli della suddetta Convenzione.
Rispetto all’articolo 5, la Corte rileva che la mancanza di chiarezza da parte dei ricorrenti a sostegno del contrasto con tale articolo, fa si che la stessa non prenda in considerazione tali argomentazioni e pertanto, considera infondata tale parte del ricorso.
In ultima analisi, anche relativamente al presunto mancato rispetto del diritto ad un processo equo e del diritto al rispetto della vita privata e familiare, la Corte dichiara la manifesta infondatezza dei punti del ricorso relativi agli articoli 6 e 8 Cedu, ritenendo non lesivi di tali diritti, le decisioni adottate dalle corti interne britanniche, operanti, a detta della Corte, in modo né arbitrario né sproporzionato.
La Corte Europea, nelle sue battute conclusive, cerca di sciogliere il nodo principale della questione: il problema sussiste nel momento in cui il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco (del bambino, dei genitori e dell’ordine pubblico) è stato colpito e il superamento dello stesso si ha solo agendo nel miglior interesse del bambino. E’ il “best interest” il concetto che ha mosso ed informato la giurisdizione delle Corti interne così come della Corte Europea, rappresentando la chiave di volta che ha permesso di trovare una soluzione ad un caso che dire complesso, forse, sarebbe un eufemismo. Le decisioni adottate in tal senso hanno, così,  messo a tacere le discussioni che pendevano, da un lato, a favore dei genitori che in quanto tali vantavano il proprio diritto di decidere circa la vita del proprio bambino, e dall’altro, a favore della verità scientifica, dato materiale e concreto che, sino all’ultimo, si è cercato di capovolgere.
Una sentenza, quella della Corte Edu, che ordina l’eutanasia di un bambino di 11 mesi nonostante l’opposizione dei suoi naturali rappresentanti e protettori: chi allora, in fattispecie come queste, ha il potere di decidere la vita di un essere umano non ancora in grado di poter prendere autonome decisioni? I genitori? I medici? I giudici? . La sentenza parla chiaro ed assegna il controllo prevalente “al giudizio indipendente e oggettivo dello Stato” nel miglior interesse del bambino, scevro da qualsiasi condizionamento emotivo che avrebbe portato i genitori a non farsi capaci della condizione irreversibile del proprio bambino e a non accettare di sottrarlo ad inutili sofferenze.

Charlie Gard muore, il 28 luglio 2017, tra la rassegnazione della comunità scientifica, consapevole del fatto che non “si poteva far altro” e l’amarezza in bocca di una società che, magari, avrebbe voluto credere in un miracolo. “Non abbiamo potuto salvarti”, dichiarano Connie e Chris Gard, “non abbiamo avuto controllo né sulla vita di nostro figlio, né sulla sua morte”.

 

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