domenica, Ottobre 6, 2024
Tax Driver

Il nuovo volto dell’autotutela tributaria alla luce delle novità legislative del 2023

A cura di Caterina Ceriale

Con l’emanazione della legge delega per la riforma fiscale (l. 111/2023) il legislatore ha inteso dare una svolta al sistema fiscale italiano, avendo tra gli obiettivi principali: (i) la sua semplificazione; (ii) la riduzione del carico fiscale; e (iii) la velocizzazione dei procedimenti amministrativi, passando per la promozione – ancora una volta – di un rapporto di collaborazione, improntato a buona fede, correttezza e solidarietà[1]– tra l’Amministrazione finanziaria (d’ora innanzi, anche “A.F.”) e il cittadino, ponendosi, così, nel solco già tracciato dalla cd. tax compliance [2].

Segnatamente, l’attuazione di tale intervento legislativo – avvenuta attraverso la riforma dello Statuto del Contribuente (l. 212/2000 o Statuto) per effetto dell’adozione del d.lgs. 219/2023 – ha inciso sull’istituto dell’autotutela tributaria.

Tradizionalmente, la dottrina[3] definisce l’autotutela, in generale, come “il potere dell’amministrazione di farsi giustizia da sé, prevenendo o risolvendo potenziali o attuali conflitti di interesse con potenziali o attuali destinatari dei provvedimenti”.  In altre parole, è la capacità di farsi giustizia da sé, senza ricorrere all’intervento del potere giurisdizionale. In passato, prima dell’introduzione della l. 241/1990, alcuni rinvenivano un addentellato normativo dell’autotutela amministrativa nella causa di giustificazione penale prevista all’art. 51 c.p., rubricato “adempimento di un dovere”. Infatti, l’esercizio di un siffatto potere da parte dell’Amministrazione rappresenterebbe l’estrinsecazione del dovere di eliminare dal sistema giuridico provvedimenti che siano illegittimi o  inopportuni, a tutela innanzitutto dell’interesse pubblico e, poi, delle situazioni giuridiche soggettive dei privati di volta in volta coinvolte.

Le ipotesi di autotutela, per ragioni di “sicurezza sociale” e di garanzia dei consociati, sono limitate a pochi e tassativi casi. La pubblica amministrazione ha la facoltà di ricorrere a tre forme di autotutela:

1) l’autotutela sanzionatoria, che consiste nel potere di irrogare unilateralmente pene amministrative per la trasgressione di obblighi o divieti generali, nonché delle regole che informano un determinato rapporto giuridico;

2) l’autotutela esecutoria, che consiste nel potere di eseguire autoritativamente e coattivamente i provvedimenti efficaci[4];

3) l’autotutela decisoria, che consiste nel potere di riesaminare i propri atti e/o gli effetti prodotti dai medesimi, sul piano della legittimità e/o dell’opportunità, al fine di confermarli, modificarli, revocarli o annullarli. Tale forma di autotutela si estrinseca nelle forme dell’annullamento[5] d’ufficio di un provvedimento illegittimo con effetto ex tunc e della revoca di un provvedimento “inopportuno” (art. 21-quinquies l. 241/90) con effetto ex nunc[6].

Nello specifico, per quanto attiene all’autotutela fiscale, l’art. 4 della summenzionata legge delega di riforma detta i “principi e criteri direttivi per la revisione dello Statuto dei diritti del contribuente” (l. 212/2000) – che è uno dei testi normativi principali in materia fiscale, al punto che la Corte Costituzionale l’ha qualificatocome norma interposta del giudizio di legittimità[7].

Coerentemente con quanto appena osservato, le lettere f), g) e h) del predetto articolo stabiliscono, tra l’altro:

– la necessità di prevedere una generale applicazione del principio del contraddittorio (art. 111 Cost.) a pena di nullità,che viene quindi rinforzato per effetto dell’introduzione dell’art. 6-bis dello Statuto così come, del resto, in generale è stato rinforzato nel diritto amministrativo generale per effetto delle recenti riforme della l- 241/1990[8];

– la necessità di prevedere una disciplina generale delle cause di invalidità degli atti impositivi e degli atti della riscossione (confluita negli artt. 7-bis e 7-ter della vigente versione dello Statuto);

– la necessità di potenziare l’esercizio del potere di autotutela, estendendone l’applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate, limitando la responsabilità nel giudizio amministrativo-contabile dinanzi alla Corte dei conti alle sole condotte dolose.

Alla legge delega hanno fatto seguito due decreti legislativi di attuazione: il già menzionato d.lgs. 219/2023, entrato in vigore il 18 gennaio 2024, e il d. lgs. 220/2023 di riforma del contenzioso tributario, entrato in vigore il 4 gennaio 2024.

In particolare, il d.lgs. 219/2023 ha abrogato il d.m. 11 febbraio 1997 n. 37, intervenendo sull’autotutela obbligatoria e su quella facoltativa. Le novità in materia di autotutela obbligatoria si pongono, in realtà, in contrasto con la natura stessa dell’esercizio del potere amministrativo che rimane di natura strettamente discrezionale, a garanzia della tutela dell’interesse pubblico. La pubblica amministrazione, infatti, conserva il suo potere discrezionale al fine di valutare e attuare il miglior contemperamento possibile tra interesse pubblico – che rimane pur sempre prevalente – e la posizione giuridica del cittadino privato che assume la veste di interesse legittimo[9].

E’ evidente che nel settore fiscale l’interesse pubblico subisce un ulteriore contemperamento per effetto della necessità di tutelare i principi di equità e progressività del sistema di contribuzione tributario (artt. 3 e 53 Cost. secondo il cd. principio di equità orizzontale). Pertanto è lo stesso legislatore che a monte stabilisce in quali casi l’amministrazione finanziaria è vincolata all’esercizio dell’autotutela, limitandola, in ogni caso, ai casi di manifesta illegittimità.

La ratio sottesa a questa scelta del legislatore può essere ricondotta allo scopo deflattivo del contenzioso che compensa – d’altro canto – la contemporanea abolizione – per effetto dell’abrogazione dell’art. 17-bis d. lgs. 546/1992 – dell’istituto della mediazione a partire dal 4 gennaio 2024.

Infatti, “obbligare” la P.A. ad annullare in autotutela – anche senza necessità di istanza di parte – un atto di imposizione o di rinuncia all’imposizione, nei casi di manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione elencati dalla stessa disposizione normativa[10], significa ridurre in maniera significativa le occasioni in cui il contribuente si trova costretto a proporre un ricorso avverso un atto amministrativo invalido.

Rispetto alla normativa di cui al d.m. del 1997 si nota un ampliamento delle fattispecie in cui sussiste l’obbligo della P.A. di procedere in tal senso. Ciò si pone in linea con la ratio deflattiva poc’anzi citata, in quanto si estende l’operatività dell’istituto sì da garantire uno spettro più ampio di ipotesi in cui l’A.F. non può far altro che annullare l’atto o la pretesa impositiva.

Lo stesso articolo 10-quater, però, stabilisce delle eccezioni a tale regola, prevedendo che la P.A. non sia obbligata ad agire in tal senso in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione e nel caso in cui sia decorso un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione.  Un’ulteriore differenza si ricava dall’analisi testuale delle disposizioni in commento: da un lato l’art. 10-quater dello Statuto e dall’altro l’art. 2 del d.m. 37/1997. L’ultimo capoverso di questa seconda norma, segnatamente, stabiliva che “non si procede all’annullamento d’ufficio, o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria.”. Diversamente, l’art. 10-quater, oggi vigente, al comma 2 prevede espressamente che “L’obbligo di cui al comma 1(cioè l’obbligo di esercitare il potere di autotutela, ndr) non sussiste in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria, nonche’ decorso un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione.”

L’interpretazione testuale delle due disposizioni normative appena enucleate fa emergere un dato interessante: in base alla normativa previgente la P.A. non era obbligata all’esercizio del potere di autotutela con riferimento soltanto ai motivi sui quali fosse intervenuta una sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione; diversamente, sotto l’egida della nuova normativa, l’Amministrazione finanziaria non è obbligata all’esercizio del potere di autotutela nei casi in cui sia intervenuta una qualsiasi sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione. Ne consegue che oggi le ipotesi derogatorie all’obbligo per la P.A. di procedere in autotutela sono ampliate, in quanto è scomparso il riferimento ai motivi su cui è intervenuta la sentenza passata in giudicato.

In tal senso sovviene anche una interpretazione adeguatrice della normativa ai principi di certezza del diritto, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), che le consente di dar seguito alla cristallizzazione della fattispecie impositiva, quale conseguenza dell’intervento decisionale di un giudice terzo e imparziale.

Questa è una lettura interessante che contempera la tutela dell’interesse contribuente con quella dell’interesse pubblico, esonerando l’amministrazione dall’annullamento dell’atto ogniqualvolta sia intervenuta una sentenza passata in giudicato favorevole.

La posizione del contribuente, d’altro canto, è rafforzata per effetto della modifica intervenuta con riferimento alla seconda ipotesi derogatoria dell’obbligo di autotutela. In particolare, se si guardano i lavori preparatori della normativa del 2023, emerge che in una prima fase il legislatore aveva indicato quale termine massimo per l’esercizio dell’autotutela quello di tre mesi dalla definitività del provvedimento viziato per mancata impugnazione; nella versione finale, invece, detto termine è stato esteso a un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione. In questo modo è stato ampliato il lasso di tempo entro il quale è possibile esercitare il potere di autotutela, venendo così incontro alla necessità di tutela del contribuente.

L’articolo 10-quinquies stabilisce, poi, che l’Amministrazione finanziaria, fuori dai casi previsti dall’articolo precedente, possa annullare in tutto o in parte gli atti di imposizione (ovvero rinunciare all’imposizione), anche senza istanza di parte, laddove riconosca una illegittimità o una infondatezza dell’atto o dell’imposizione, anche per un atto già divenuto definitivo o in pendenza di giudizio.

In forza di questa disposizione, dunque, l’Amministrazione potrà (ma non dovrà necessariamente) annullare in autotutela ogni atto che ritenga illegittimo o infondato – sia un atto pendente in giudizio sia un atto ormai definitivo – al di fuori dei motivi tassativamente previsti dal precedente articolo 10-quater.

Da un punto di vista di responsabilità del dipendente pubblico, al fine di incentivare il ricorso all’autotutela – sia obbligatoria che facoltativa – il legislatore prevede rispettivamente all’articolo 10-quater e 10-quinquies che la responsabilità amministrativo-contabile per le valutazioni di fatto operate dall’Amministrazione finanziaria in caso di avvenuto esercizio dell’autotutela sia limitata alle sole ipotesi di dolo[11].

Inoltre, a seguito della introduzione nello Statuto dell’annullabilità e della nullità dell’atto tributario, dovrà valutarsi, ai fini dell’autotutela, l’esistenza di uno di tali vizi di invalidità, ora previsti e regolati dagli articoli 7-bis per l’annullabilità e 7-ter  per la nullità.

Le modifiche intervenute in relazione all’esercizio del potere di autotutela hanno determinato importanti conseguenze anche in relazione al contenzioso tributario, riformato per effetto del richiamato d.lgs. 220/2023. Invero, l’art. 19 prevede ora espressamente alla lettera g-bis) la possibilità di impugnare il diniego dell’amministrazione all’istanza di autotutela – sia obbligatoria, sia facoltativa – previamente presentata dal contribuente. Ciò che cambia è il termine di inoppugnabilità che per l’autotutela facoltativa è di sessanta giorni; mentre per l’autotutela obbligatoria è di sessanta giorni dal momento dell’adozione del provvedimento di rifiuto espresso e novanta giorni dal termine ultimo di esercizio del potere in questione (nuovo art. 21, d.lgs. 546/1992).

Questa è una vera e propria novità nell’ambito dell’autotutela tributaria, atteso che il precedente granitico orientamento – avallato sia dalla Corte Costituzionale (ex multis: sentenza del 13/07/2017 n. 181 Corte Costituzionale) che dalla Suprema Corte (ex multis: Cass. n. 8604/2019; ord. n. 5176/2023) – aveva cristallizzato il principio in forza del quale il silenzio diniego formatosi a seguito dell’istanza di autotutela non fosse impugnabile. In questo modo la giurisprudenza favoriva, evidentemente, la tutela della certezza del diritto e della stabilità dell’esercizio di potere a discapito del diritto del contribuente a vedere riesaminata la propria posizione giuridica. Si sottolineava, infatti, in quel caso che opinando altrimenti il meccanismo dell’impugnabilità del silenzio diniego avrebbe prestato il fianco a un abuso del diritto da parte del contribuente che in questo modo riusciva a rimettere in discussione la fattispecie senza soluzione di continuità, all’infinito.

All’esito del processo dinanzi alla Corte di giustizia il privato, in ogni caso, può ottenere che l’ente impositore riesamini la questione sulla scorta della statuizione resa dai giudici, ma non può ottenere l’annullamento del provvedimento di rifiuto, espresso o tacito. Tale impostazione è conforme al principio di separazione dei poteri proprio di una democrazia costituzionale che viene cristallizzato – in via generale – dall’art. 31, comma 3, c.p.a. (d.lgs. 104/2010).

L’impugnabilità del silenzio rifiuto, fino ad ora negata, imprime una forza maggiore all’istituto dell’autotutela obbligatoria e facoltativa, dando al contempo al contribuente un importante strumento di difesa (art. 24 Cost.) che ci si augura venga utilizzato secondo i canoni di buona fede e correttezza, senza sfociare in un abuso del diritto di difesa.

[1] Art. 2 Cost.

[2] La tax compliance identifica il “livello di adesione spontanea del contribuente agli obblighi fiscali, che l’Amministrazione finanziaria ottiene utilizzando opportunamente due leve: da un lato il servizio, l’assistenza e le informazioni che fornisce al singolo, dall’altro il contrasto all’evasione fiscale”. https://www.fiscooggi.it/glossario

[3] F. Benvenuti, Autotutela (Dir. amm.), in Enc. dir., 1959; G. Coraggio, Autotutela (Dir. Amm.), in Enc. Giur. Treccani, 1989. In “Autotutela decisoria della P.A. ed annullamento d’ufficio”; R. Porcelli per “Il diritto amministrativo -rivista giuridica”.

[4] Art. 21 ter L. 241/1990 – Esecutorietà: “1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge.
2. Ai fini dell’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato.”

[5] Art. 21 nonies L. 241/1990 – Annullamento d’ufficio: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. (39) (41)
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di  dodici  mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.”

[6] Articolo 21 quinquies L. 241/1990 – Revoca del provvedimento: “1. ((Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario)), il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo.
1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.”

[7] La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 216 del 06 luglio 2004, ha ribadito che le disposizioni dello Statuto rappresentato criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria, anche antecedente, e che, pertanto, i giudici tributari devono fare diretta applicazione della citata Legge n. 212/2000 , valutando sempre la possibilità di una interpretazione adeguatrice della norma censurata, in senso conforme ai principi espressi dallo Statuto.

[8] Si fa riferimento, in particolare, al d.l. 76/2020 che ha modificato l’art.21-octies della predetta legge, a mente del quale oggi non è più applicabile la disciplina della illegittimità non invalidante del provvedimento nel caso di violazione dell’obbligo prescritto dall’art. 10-bis, l. 241/90 di comunicare i motivi ostativi al cittadino che, con la propria istanza, ha dato via al procedimento;

[9] L’interesse legittimo è una situazione giuridica di vantaggio che spetta ad un soggetto in ordine ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene (cfr. Cass. Civ. Sezioni Unite, sentenza 22 luglio 1999, n. 500). Tuttavia, è bene osservare che, a differenza del diritto soggettivo, l’interesse legittimo – proprio perché esiste solo se in rapporto all’esercizio del potere amministrativo – può essere legittimamente compresso e pregiudicato in favore della tutela dell’interesse pubblico. Invece, la lesione di un diritto soggettivo costituisce sempre una condotta contra ius, in quanto non può essere legittimamente compresso nemmeno della P.A.

[10] Nuovo art. 10-quater, comma 1, dello Statuto, che sono: a) errore di persona; b) errore di calcolo; c) errore sull’individuazione del tributo; d) errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’amministrazione finanziaria; e) errore sul presupposto d’imposta; f) mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti; g) mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti a pena di decadenza

[11] Da un punto di vista sistematico si osserva che tale tecnica legislativa pare fare eco, sostanzialmente, a quanto già statuito con riferimento al reato di abuso d’ufficio – per effetto delle modifiche intervenute con il decreto semplificazioni n. 76/2020 che ha limitato – ancorchè temporaneamente – le ipotesi di responsabilità del pubblico ufficiale al dolo e colpa grave nel caso di fatti commissivi.

Lascia un commento