Le Sezioni Unite n. 24413/2021 sulla protezione umanitaria: cronaca di una decisione annunciata
Con sentenza n. 24413, depositata il 9 settembre 2021, le Sezioni Unite si sono nuovamente pronunciate sulla protezione umanitaria nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113/2018.
Dovendo chiarire se il giudizio di comparazione sul quale si fonda il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, dopo l’introduzione del decreto legge n. 130/2020, possa dirsi ancora attuale, la Suprema Corte ha ribadito alcuni principi già enunciati in precedenza, fornendo, tuttavia, alcune riflessioni che possono contribuire all’evoluzione del dibattito circa la concreta applicazione della nuova protezione speciale di cui al comma 1.1 dell’articolo 19 del d.lgs. 286/1998 (T.U. immigrazione).
- Il caso
Il Ministero dell’Interno proponeva ricorso in Cassazione avverso una sentenza della Corte d’appello di Milano che, in parziale riforma di un’ordinanza resa dal Tribunale della stessa città, aveva riconosciuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari ad un cittadino pakistano, la cui domanda di protezione internazionale era stata presentata in data antecedente all’entrata in vigore del decreto legge n. 113/18.
Con un unico motivo di ricorso, il Ministero dell’Interno denunciava la violazione e la falsa applicazione dell’art. 32 del d.lgs. n. 25/2008 e dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/1998, nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal c.d. decreto Salvini.
Richiamando la pronuncia n. 29459/2019 delle Sezioni Unite della Cassazione, il Ministero lamentava che la Corte d’appello avesse errato nell’operare la valutazione comparativa tra il grado di inserimento in Italia e la situazione del richiedente nel Paese d’origine, avendo considerato esclusivamente la prima, senza accertare in concreto la seconda.
- L’ordinanza di rimessione n. 28316/2020 del 12 novembre 2020
In tema di protezione umanitaria, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale, l’orientamento maggioritario, confermato anche dalla pronuncia n. 29459/2019 delle Sezioni Unite, richiede al giudice di operare una valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettivamente raggiunto dal richiedente asilo nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva in cui verrebbe a trovarsi se rimpatriato nel suo paese di origine.[1]
Tuttavia, la Sezione 6-1 civile della Suprema Corte, investita del ricorso, rilevava l’esistenza di incertezze in ordine all’indagine comparativa che, in tema di protezione umanitaria, deve essere svolta dal giudice di merito.
Nonostante la pronuncia delle Sezioni Unite del 2019, continuavano infatti a registrarsi opinioni divergenti sul contenuto e sulle modalità del giudizio di comparazione.
In riferimento al contenuto, il contrasto riguardava in particolare la rilevanza della condizione di povertà del paese di origine, alternandosi sul punto due orientamenti: il primo che, in assenza di una personale condizione di vulnerabilità, riteneva non sufficiente la mera allegazione della grave difficoltà economica in cui il richiedente verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio, posto che non sussiste per lo Stato italiano l’obbligo di garantire il benessere economico e sociale dei cittadini stranieri, salvo i casi in cui la povertà raggiunga la soglia della carestia (Cass. n.20334/2020) o che l’indigenza economica sia così grave da integrare una violazione di diritti umani (Cass. n.17118/2020).
Il secondo orientamento, invece, considerava rilevanti sia quelle condizioni di assoluta povertà tali da determinarne l’impossibilità di sostentamento (Cass. n.16119/2020), sia alcune ragioni individuali di indigenza (Cass. n.18443/2020).
Circa le modalità, invece, nonostante le Sezioni Unite avessero definito la protezione umanitaria “clausola generale di sistema”[2],gran parte della giurisprudenza di merito continuava a considerare i termini della comparazione come requisiti concorrenti, entrambi necessari, richiedendo la presenza sia dell’integrazione in Italia sia della vulnerabilità nel Paese d’origine, senza riconoscere rilevanza all’eventuale sproporzione tra le condizioni di vita raggiunte nel paese di accoglienza e quelle nel paese di rimpatrio.
Allo stesso tempo, aveva iniziato a prevalere un opposto orientamento che, basandosi su una lettura dinamica della comparazione, aveva elaborato il principio della c.d. “comparazione attenuata” in base al quale maggiore è la vulnerabilità del richiedente, minore sarà la rilevanza della situazione oggettiva del Paese d’origine.[3]
Dato atto delle incertezze, l’ordinanza interlocutoria ha proposto una lettura coraggiosa e progressista dei rapporti tra integrazione sociale e vulnerabilità.
In primo luogo, nonostante l’inapplicabilità delle modifiche introdotte dal d.l. n. 130 del 2020[4] ai giudizi pendenti in Cassazione, secondo il Collegio remittente, la riforma ha ormai esteso l’ambito della protezione umanitaria derivante da vulnerabilità e tale ampliamento non può non avere rilevanza sull’indagine volta a verificare se e in che termini il rimpatrio dello straniero determini la violazione dei suoi diritti umani fondamentali.[5]
In secondo luogo, per la prima volta, l’ordinanza di remissione ha sollevato il dubbio che a causare la lesione di tali diritti sia proprio l’allontanamento del cittadino straniero, ormai stabilmente inserito nel paese di accoglienza.
In altre parole, secondo i giudici “poiché la valutazione comparativa, che serve a definire l’ambito entro il quale merita tutela la situazione di vulnerabilità del cittadino straniero, assume connotazioni del tutto particolari quando viene in considerazione la situazione dello straniero che si sia completamente inserito nel tessuto sociale del paese ospitante fino a divenirne parte integrante, si rende necessario valutare se l’allontanamento dal paese di accoglienza e, quindi, lo “sradicamento” da una condizione di vita stabile e di completa integrazione sotto ogni profilo possano configurarsi come eventi concorrenti ad integrare la fattispecie di vulnerabilità perché produttivi della privazione di diritti umani fondamentali.”
Attraverso un percorso evolutivo, ulteriore rispetto a quello delle Sezioni Unite del 2019, fondato sulla centralità dell’art. 8 CEDU e che valorizza l’intervento legislativo del d.l. n. 130 del 2020, la Sezione 6-1 della Suprema Corte ha chiesto alle Sezioni Unite di chiarire se anche la “vecchia” protezione umanitaria, applicabile a tutte le domande presentate prima dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 (5 ottobre 2018), possa essere oggi reinterpretata nel senso di ritenere che, a fronte di una situazione di stabile insediamento, l’allontanamento integri un evento idoneo a ledere i diritti umani fondamentali e che, quindi, la vulnerabilità, in questi casi, possa derivare direttamente dallo “sradicamento” del cittadino straniero dal paese ospitante.[6]
- La soluzione delle Sezioni Unite
Prima di procedere con la disamina della questione sollevata dalla Sezione remittente, i giudici hanno chiarito la disciplina applicabile ratione temporis al caso concreto, escludendo l’applicabilità sia delle modifiche introdotte dal d.l. 113/18, sia di quelle introdotte dal d.l. 130/2020.
La domanda di protezione del ricorrente era stata infatti presentata in data anteriore all’entrata in vigore del c.d. decreto Salvini, mentre le modifiche introdotte dal d.l. 130/2020, ai sensi dell’articolo 15 del d.l. citato, non si applicano ai procedimenti che alla data di entrata in vigore di detto decreto-legge pendevano davanti alla Corte di Cassazione.
Di conseguenza, secondo le Sezioni Unite, ai fini dell’interpretazione della protezione umanitaria non possono utilizzarsi argomentazioni fondate sulla nuova disciplina (d.l. 130/2020) perché ratione temporis inapplicabile.[7]
Dopo aver sciolto il nodo temporale, le Sezioni Unite hanno illustrato la disciplina della protezione umanitaria antecedente al decreto-legge n. 113/2018, soffermandosi sulla rilevanza, riconosciuta fin dalla sentenza n. 4455/18,[8] della valutazione comparativa tra la situazione dello straniero in Italia e quella che, in caso di rimpatrio, troverebbe nel Paese di origine.
Nell’ottica delle Sezioni Unite, l’ordinanza di rimessione ha, infatti, avanzato un’interpretazione che, forzando l’applicazione del principio della comparazione attenuata,[9] rischia di arrivare ad escludere del tutto la necessità di effettuare la comparazione.
Al contrario, in continuità con la giurisprudenza precedente, i giudici hanno ribadito la necessità di operare la valutazione comparativa ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi della normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113 del 2018.[10]
Secondo i giudici, come già affermato nel 2019, “il focus della comparazione va centrato proprio sul rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo quali definiti nelle Carte sovranazionali e nella Costituzione italiana”.
Di conseguenza, in tale valutazione viene immediatamente in rilievo l’articolo 8 CEDU che tutela l’intera rete di rapporti, non solo familiari, ma anche sociali, affettivi e professionali di ogni individuo e, quindi, anche quelli costruiti in Italia dai richiedenti asilo.
La necessità della comparazione discenderebbe dal rilievo che “i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)”[11]
L’istituto della protezione umanitaria trova fondamento proprio nel combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione nella parte in cui tutela la persona “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e afferma la “pari dignità sociale” di ogni persona, anche straniera.
Nella prospettiva delle Sezioni Unite appare evidente, dunque, che il richiamo ad una vita dignitosa ai sensi all’articolo 2 Cost. già valorizzasse il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU nella medesima prospettiva successivamente recepita dal legislatore con l’introduzione del decreto Lamorgese, escludendo quindi la necessità di sottoporre l’istituto della protezione umanitaria ad un’interpretazione evolutiva basata sulla nuova disciplina.
Tuttavia, pur ribadendo quanto già affermato nel 2019, questa volta le Sezioni Unite si sono maggiormente soffermate sul principio di comparazione attenuata, valorizzandolo e sottolineando che “situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno”.
- Conclusioni
Nel passaggio in cui viene affermato che non si può interpretare la “vecchia” protezione umanitaria alla luce delle modifiche introdotte dal c.d. decreto Lamorgese in quanto disciplina non applicabile ratione temporis,[12] le Sezioni Unite rilevano che con la reintroduzione nell’art. 5 T.U. Imm. della clausola di salvaguardia del rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato e l’inserimento del nuovo divieto di espulsione a tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare nell’art. 19, comma 1.1., T.U. Imm., il decreto-legge n. 130/2020 ha mantenuto una certa continuità con il percorso di evoluzione giurisprudenziale di cui la sentenza n. 29459/2019 costituisce massima espressione.[13]
Tuttavia, secondo le Sezioni Unite tra la protezione umanitaria antecedente al decreto-legge n. 113/2018 e la disciplina della protezione speciale da quest’ultimo dettata sussiste una “discontinuità strutturale” che, pur se modificata dal d.l. 130/2020, “non permette di ravvisare un continuum normativo così marcato da consentire di trarre dal diritto sopravvenuto, non direttamente applicabile, indicazioni ermeneutiche spendibili ai fini dell’interpretazione della disciplina previgente”.[14]
Sull’impossibilità di utilizzare la nuova disciplina per fornire un’interpretazione storico-evolutiva della protezione umanitaria previgente al c.d. decreto Salvini, le conclusioni della Suprema Corte non sarebbero potute essere diverse, avendo illustrato il proprio orientamento per ben due volte e sempre con Sezioni Unite, con le sentenze n. 4135 del 2019 e n. 12476 del 2020.
Lo stesso può dirsi della scelta di ribadire quanto già affermato nel 2019: nonostante questa volta sia stato valorizzato l’aspetto dinamico e flessibile del giudizio di comparazione, le conclusioni delle Sezioni Unite sulla necessità del giudizio di comparazione non sarebbero potute essere diverse.
Tuttavia, nel sottolineare le “differenze strutturali tra le discipline della protezione complementare che, con sequenza non lineare, si sono succedute nel tempo” i giudici avrebbero potuto cogliere l’occasione per fornire ulteriori spunti di riflessione sul concetto di “sradicamento” nell’applicazione delle varie forme di protezione.
Ad oggi, infatti, la questione problematica rimane l’interpretazione di tale nozione che, come un filo rosso, lega la serie delle modifiche introdotte negli anni dal legislatore.
Se ai fini del riconoscimento della vecchia protezione umanitaria è ormai scontato che si debba operare una valutazione comparativa “dinamica” della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia, occorre oggi interrogarsi sul ruolo che la tecnica della comparazione assume nella protezione speciale ai sensi del nuovo comma 1.1 dell’articolo 19 del d.lgs. 286/1998 (T.U. immigrazione), introdotto dal d.l. 130/2020.
Ai sensi della nuova formulazione dell’articolo 19 (“si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”) sembrerebbe infatti comunque necessaria una valutazione comparativa tra quello che il richiedente ha costruito in Italia e quello che ha lasciato nel suo Paese.
La maggior parte delle volte in cui sussistono i presupposti per il riconoscimento del permesso per protezione speciale si tratta di casi di richiedenti asilo presenti in Italia da molti anni, con un evidente radicamento sociale e professionale, e senza quasi più alcuna connessione con il Paese di origine.
Tuttavia, di frequente si tratta invece di richiedenti ben integrati sul territorio, ma che hanno ancora forti legami con il loro Paese, dove spesso hanno una famiglia che economicamente dipende totalmente dalle loro rimesse.
In questi casi la valutazione chiaramente si complica; tuttavia, occorre evitare di cadere in errore ritenendo che l’esistenza di un nucleo familiare nel Paese di origine impedisca il riconoscimento della protezione speciale.
In primo luogo, perché, fin dal 1996, la Corte di Strasburgo riconosce le nozioni di vita privata e vita familiare come diritti distinti,[15] ma soprattutto perché la presenza di legami familiari nel Paese di origine non garantisce al richiedente il godimento degli stessi diritti ormai acquisiti in Italia.[16]
Il testo del comma 1.1 dell’articolo 19 del d.lgs. 286/1998 impone di tener conto dell’esistenza “di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”; tuttavia, i fini della protezione speciale, anche in presenza di un nucleo familiare nel Paese di origine, occorre comunque valutare l’impatto che, in caso di rimpatrio, la perdita di quanto costruito nel Paese di accoglienza può avere sulla vita privata del richiedente.
In questo senso, nella nuova forma di protezione lo “sradicamento” assume maggiore rilevanza rispetto alla protezione umanitaria, dovendosi riconoscere, alla luce dei principi elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in tema di articolo 8 CEDU, la possibilità che la perdita della stabilità lavorativa e relazionale costruita in Italia sia da sola sufficiente ad integrare la violazione del diritto alla vita privata del richiedente e, quindi, idonea ad impedire il rimpatrio.
Sul punto non sono mancate critiche da parte di chi ritiene che tale lettura porti a favorire soggetti che, arrivati in Italia senza i requisiti per ottenere protezione, li abbiano successivamente maturati per il solo decorso del tempo.[17]
A fronte di tale osservazione occorre sottolineare che, in realtà, la lentezza del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale dipende da gravi mancanze strutturali dell’intero sistema di asilo e che il mero decorso del tempo, in assenza di seri e dimostrati elementi di integrazione, non potrebbe comunque dirsi sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale.
Diversamente argomentando si rischierebbe di lasciare senza alcuna tutela individui ormai completamente e positivamente integrati, il cui radicamento nel paese di accoglienza merita protezione.
[1] Le Sezioni Unite con sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019 hanno affermato che “in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.”
[2] Cass. Sez. Un. sentenza n. 29459 del 24 settembre 2019: “le basi normative non sono, allora, affatto fragili, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione”.
[3] Per approfondimento si veda F. G. Del Rosso, Protezione internazionale ed umanitaria, diritti autodeterminati, principio del beneficio del dubbio e comparazione attenuata, in Foro it., I, 2020
[4] Ai sensi dell’art.15 del citato d.l. “Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a), e) ed f) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali, con esclusione dell’ipotesi prevista dall’articolo 384, comma 2 del codice di procedura civile”
[5] Ufficio del Massimario e Ruolo della Corte di Cassazione, Rassegna delle pronunce della Corte di Cassazione in materia di diritto di asilo, secondo semestre 2020 disponibile qui
[6] Per questo i giudici decidevano di rimettere alle SU la questione, di particolare importanza, relativa alla “configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, nella vigenza dell’art. 5 comma 6. d.lgs. n. 286 del 1998, anteriore alle modifiche recate dal decreto legge 4.10.2018 n. 113, quando sia stato allegato ed accertato il “radicamento” effettivo del cittadino straniero, fondato su decisivi indici di stabilità lavorativa e relazionale, la cui radicale modificazione, mediante il rimpatrio, possa ritenersi idonea a determinare una situazione di vulnerabilità dovuta alla compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU, sulla base di un giudizio prognostico degli effetti dello “sradicamento” che incentri la valutazione comparativa sulla condizione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza, con attenuazione del rilievo delle condizioni del paese di origine non eziologicamente ad essa ricollegabili” Cass. civ. Sez. Sesta-1 ordinanza interlocutoria n. 28316 del 12 novembre 2020, depositata 11/12/2020 disponibile qui
[7] R. Russo, ” Le Sezioni Unite (sent. n.24413/2021) si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro” 1 ottobre 2021 disponibile qui
[8] Cass. civ. Sez. Prima, sentenza n. 4455 del 23 febbraio 2018
[9] Cass. civ. Sez. Prima n. 1104 del 20 gennaio 2020; Cass. civ. Sez. Seconda n. 20894 del 30 settembre 2020
[10] Il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite a soluzione della questione sollevata dalla Sezione remittente è il seguente: “In base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto dei richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno.
[11] Cass. civ. Sez. Prima, sentenza n. 4455 del 23 febbraio 2018
[12] Si veda Cass. Sez. Unite 4135/2019, n. 12476/2020 e n. 2061/2021
[13] Cass. Sez. Unite sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019
[14] Cass. Sez. Unite sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019
[15] Corte EDU, C. c. Belgio, ricorso n.21794/93, sentenza del 7 agosto 1996, para. 25; per approfondimento si veda Guida all’articolo 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, agosto 2018, pag.66 disponibile qui: https://www.echr.coe.int/Documents/Guide_Art_8_ITA.pdf
[16] Cass. Sez. 3, ordinanza n. 24231 del 8 settembre 2021
[17] A. Sgroi, La protezione speciale e l’inserimento sociale dopo il D.L. 21/10/2020, n. 130, 15 dicembre 2020 in Immigrazione.it
Nata e cresciuta a Roma, si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre con una tesi in diritto internazionale umanitario. Nel 2013 supera la selezione e frequenta un master in International Crime and Justice organizzato dall’United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute.
Successivamente svolge un tirocinio di 18 mesi presso la Procura Generale della Corte di Appello di Torino dove ha l’opportunità di approfondire i settori della cooperazione giudiziaria penale e della criminalità organizzata.
Conclude la pratica forense in uno studio legale specializzato in diritto penitenziario e dell’immigrazione, conseguendo l’abilitazione alla professione di avvocato presso la Corte d’Appello di Torino nella sessione 2017-2018.
Dopo diverse esperienze lavorative all’estero e uno stage di 6 mesi presso il Segretariato Generale del Consiglio dell’Unione Europea a Bruxelles, nel 2018 inizia a lavorare con l’Ufficio Europeo di sostegno all’Asilo.