Pratiche commerciali scorrette ai tempi del Covid-19
a cura di Francesca Michetti
All’indomani dell’emergenza sanitaria globale dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la corsa all’acquisto di mascherine e gel disinfettanti ha innescato una pericolosa e allarmante dinamica speculativa.
La crisi sanitaria investe anche il settore dell’e-Commerce: prodotti esauriti, prezzi alle stelle, claim ingannevoli. Si specula sulla paura del contagio.
Sono ormai all’ordine del giorno i provvedimenti avviati dall’Autorità Antitrust per bloccare la vendita, a prezzi esorbitanti, di kit e prodotti per la prevenzione del contagio dal Virus SARS-CoV-2. Nel mirino dell’Antitrust, le principali piattaforme di e-commerce che vendono mascherine e igienizzanti per le mani, presunti test kit per la diagnosi domiciliare del coronavirus, medicinali, prodotti cosmetici e integratori, di cui si decantano le proprietà disinfettanti, le capacità “antivirali” e l’efficacia in termini di protezione e/o contrasto del contagio. Il tutto, a prezzi stellari.
La richiesta di informazioni dell’Antitrust
Risale al 27 febbraio il primo intervento dell’Antitrust, quando trasmette una richiesta di informazioni alle principali piattaforme e siti di vendita online con riferimento alle modalità di commercializzazione di mascherine e prodotti igienizzanti[1]. In particolare, chiede di comunicare, entro tre giorni, le misure poste in essere per eliminare slogan pubblicitari ingannevoli circa l’efficacia preventiva e/o curativa dei suddetti prodotti nonché le misure adottate al fine di evitare ingiustificati e sproporzionati aumenti di prezzo. Ma le vendite e i prezzi crescono sull’onda della paura e l’Antitrust si trova costretta ad intervenire nuovamente sul business di mascherine e igienizzanti.
Amazon e Ebay
Il 12 marzo avvia un’istruttoria nei confronti delle ben note piattaforme Amazon (Amazon Italia Customer Service, Amazon Eu, Amazon Service Europe) e Ebay (Ebay Italia e Ebay Gmbh).[2] Oggetto dei due procedimenti sono, in primo luogo, la presenza di claim ingannevoli circa l’efficacia dei prodotti in termini di protezione e/o di contrasto nei confronti del virus; in secondo luogo, l’ingiustificato e consistente aumento dei prezzi applicato in relazione agli stessi.
E non solo. Quod erat demonstrandum, analoghi fenomeni sono rilevati anche su altre piattaforme dell’e-Commerce, in primis quelle che promuovono farmaci, dispositivi medici e test diagnostici.
Il farmaco anti-Covid-19: il Kaletra
Da qualche tempo, infatti, spopola in rete un farmaco, il “generico Kaletra”, spacciato come “l’unico farmaco contro il coronavirus“. Trattasi, in realtà, di un antivirale per il trattamento delle infezioni da Hiv, della cui efficacia non è stata fornita alcuna evidenza scientifica.
Ragion per cui, il 17 marzo 2020 l’Autorità avvia un procedimento istruttorio e dispone in via cautelare l’oscuramento del sito web , nonché la sospensione dell’attività di promozione e commercializzazione del suddetto farmaco, in vendita al ‘modico’ prezzo di 634,44 €.[3]
Nel caso di specie, l’Autorità ritiene che le modalità di vendita del prodotto siano prima facie ingannevoli e aggressive, in quanto tali idonee ad alterare la capacità di valutazione del consumatore. In primo luogo, invero, i claim impiegati sul sito web «sono tali da generare il convincimento che il prodotto pubblicitario abbia gli effetti curativi vantati»[4]. Quanto alle modalità di vendita del prodotto, «il complessivo contesto narrativo sembrerebbe far leva sulla tragica pandemia in atto per orientare i consumatori all’acquisto»[5]. Infine, benché il professionista lasci intendere di operare in un contesto di piena legalità, egli non risulta annoverato nell’elenco delle farmacie e degli esercizi commerciali autorizzati alla vendita online di detti farmaci.
A distanza di soli dieci giorni, analoga sorte spetta anche ai siti web https://farmaciamaschile.it[6] e http://farmacia-generica.it[7].
Wish.com
Il 31 marzo è la volta della piattaforma di marketplace Wish. L’Antitrust avvia un procedimento istruttorio ed un sub-procedimento cautelare nei confronti di ContextLogic Inc, società statunitense proprietaria della piattaforma Wish.com, e della collegata ContextLogic B.V., società di diritto olandese, che fornisce servizi di marketplace ai consumatori residenti nel territorio europeo.
Nel mirino, l’offerta di alcuni test kit per la diagnosi domiciliare del coronavirus «le cui specifiche – si legge nel comunicato stampa – fanno espresso riferimento alla possibilità di rilevare gli anticorpi del nuovo coronavirus nel sangue umano, nel siero o nel plasma nonostante precise indicazioni delle autorità sanitarie circa la non attendibilità degli stessi – in grado non solo di ingannare ma anche di porre in pericolo la salute dei consumatori»[8]. A ciò si aggiunga la – asserita – specifica efficacia delle mascherine filtranti in termini di protezione e/o di contrasto nei confronti del virus Covid 19 nonché l’elevato livello dei prezzi registrato nelle ultime settimane.
Sono lecite pratiche di questo tipo? Quando possono definirsi scorrette?
Le pratiche commerciali scorrette: definizione e ambito di applicazione
La disciplina delle pratiche commerciali scorrette è dettata dagli artt. 18-27 quater del Codice del consumo (d.lgs. 6.9.2005, n. 206), emendato in tal senso dal d.lgs. 2.8.2007, n. 146, attuativo della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali[9].
Per pratica commerciale si intende «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto posta in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori»[10].
Quanto all’ambito di applicazione soggettivo, la pratica commerciale rilevante ai fini degli artt. 18 ss. del Codice del consumo è quella fra professionisti e consumatori[11].
L’ esplicita “latitudine temporale” delle pratiche[12] – che, si legge, possono essere poste in essere «prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto»[13]- è espressione dell’intento legislativo di ampliare il più possibile l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina. La pratica commerciale, dunque, può consistere in dichiarazioni o comportamenti materiali, azioni o omissioni, non rilevando la sua natura – negoziale o meno – né la fase temporale di un – eventuale – rapporto in cui si colloca[14].
La struttura della disciplina
La disciplina delle pratiche commerciali scorrette presenta una struttura normativa a “piramide” o – come evocativamente rappresentata da taluni[15] – “a cerchi concentrici”. Nello specifico, comprende una clausola generale che definisce l’intera categoria delle pratiche scorrette (art. 20 C. cons.); due disposizioni specifiche riguardanti le distinte categorie di pratiche «ingannevoli» (artt. 21-22 C. cons.) e «aggressive» (art. 24 C. cons.); infine, due «liste nere» di pratiche considerate «in ogni caso» scorrette sulla base di un giudizio prognostico condotto dal legislatore (artt. 23 e 26 C. cons.).
Il parametro di valutazione della scorrettezza di una pratica commerciale è dato dalla contrarietà alla diligenza professionale e dalla falsità o dall’ idoneità a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio (art. 20, co. 2, C. cons.).
La clausola generale si articola, poi, in due distinte species: le pratiche commerciali ingannevoli e le pratiche commerciali aggressive.
Le pratiche ingannevoli
Quanto alle prime, il codice distingue tra positiva induzione all’errore (art. 21, azioni ingannevoli), e inganno per omissione di informazioni rilevanti (art. 22, omissioni ingannevoli).
Più nello specifico, l’azione ingannevole può tradursi nella comunicazione di «informazioni non rispondenti al vero» o di un’informazione che «seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio» (art. 21, comma 1, C. cons.).
La norma poi fornisce, dalla lettera a) alla lettera g), l’elenco – non esaustivo – degli elementi su cui fondare il giudizio di ingannevolezza. L’idoneità a indurre in errore l’utente finale implica una valutazione omnicomprensiva della pratica, dalla presentazione del messaggio – compresa la sua veste grafica e il contesto comunicativo –, alle modalità di diffusione. Elementi, questi, che possono influire sull’impatto e sulla percezione del messaggio – al di là del contenuto – e che, quindi, rischiano di distorcere e alterare la libertà di scelta del consumatore.
Oltre alla specifica attenzione che la disciplina in commento riserva al numero, alla qualità e al contenuto delle informazioni offerte ai consumatori, rileva altresì il caso in cui la pratica «ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale» (art. 22, comma 1, C. cons.).
In entrambi i casi, ai fini del giudizio di ingannevolezza, si richiede che l’informazione, presente o omessa che sia, «induca o sia idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».
Le pratiche aggressive
Quanto alla seconda species, l’art. 24 definisce aggressiva «una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».
In tal caso, l’alterazione del processo volitivo del consumatore medio è indotta da forme di coartazione, che vanno dal ricorso alla violenza fino all’amplissima categoria dell’indebito condizionamento.
Pertanto, laddove le pratiche ingannevoli hanno una portata decettiva rispetto alla decisione commerciale, quelle aggressive hanno una «valenza estorsiva più generale della libertà di scelta» e «sfruttano le debolezze caratteriali, emotive e culturali del consumatore per costringerlo a prendere decisioni che non avrebbe altrimenti adottato»[16].
Le black lists
Accanto ai divieti generali delle pratiche ingannevoli e aggressive, il Codice del consumo reca due elenchi tassativi – c.d. Black Lists – di pratiche da considerarsi «in ogni caso», rispettivamente, ingannevoli e aggressive (artt. 23 e 26 C. cons.). Si tratta di una lista di pratiche il cui disvalore trova fondamento in un giudizio prognostico del legislatore che prescinde da ogni apprezzamento circa la sussistenza dei requisiti previsti per la valutazione generale di scorrettezza, di ingannevolezza e di aggressività[17].
Tornando alle vicende summenzionate, è più chiaro ora come i comportamenti oggetto di contestazione appaiono «idonei ad indurre il consumatore medio all’assunzione di decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso, sulla base di una ingannevole rappresentazione della realtà».
In particolare, i claim sull’asserita unicità ed efficacia dei prodotti commercializzati sono idonei ad indurre in errore i consumatori circa le effettive caratteristiche – curative e/o preventive – possedute, configurando una pratica commercial ingannevole ai sensi degli artt. 21, lett. b, e 23, lett. s, C. cons.
Si rileva, inoltre, come le condotte in esame facciano leva sulla situazione emergenziale sfruttando «la tragica pandemia in atto per orientare i consumatori all’acquisto dei prodotti commercializzati e la circostanza che, allo stato, non è stato individuato alcun prodotto e/o farmaco capace di limitarne la diffusione»[18]; con ciò integrando una pratica commerciale aggressiva ai sensi dell’art. 25, lett. c, C. cons.
Sebbene finora sia stato frequente il tentativo di speculare sull’emergenza in corso, cavalcando l’onda della paura – e il marketplace pullula di esempi di questo tipo –, è bene ricordare che le norme a tutela dei consumatori restano operative anche e soprattutto in un momento delicato come questo. Del resto, l’Antitrust monitora regolarmente la rete, per cui c’è da aspettarsi che altri casi verranno presto allo scoperto. Come si suol dire, intelligenti pauca.
[1]AGCM, PS11705, Comunicato stampa 27 febbraio. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/2/PS11705
[2]AGCM, PS11716-PS11717, Comunicato stampa 12 marzo. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/3/PS11716-PS11717
[3]AGCM, PS11723, Provvedimento n. 28173, FARMACO CORONAVIRUS.IT-KALETRA, 17 marzo 2020. https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11723_adoz%20misure%20cautel%20di%20ufficio.pdf
[4]AGCM, PS11723, Provvedimento n. 28173, FARMACO CORONAVIRUS.IT-KALETRA, 17 marzo 2020. https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11723_adoz%20misure%20cautel%20di%20ufficio.pdf
[5]AGCM, PS11723, Provvedimento n. 28173, FARMACO CORONAVIRUS.IT-KALETRA, 17 marzo 2020. https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11723_adoz%20misure%20cautel%20di%20ufficio.pdf
[6]AGCM, PS11733, Provvedimento n. 28206, FARMACIAMASCHILE.IT-KALETRA, 27 marzo 2020. https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11733_cautelari.pdf
[7]AGCM, PS11735, Provvedimento n. 28207, FARMACIA-GENERICA.IT-KALETRA, 27 marzo 2020. https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11735%20cautelare.pdf
[8]AGCM, PS11734, Comunicato stampa 3 aprile 2020. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/4/PS11734
[9]Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»).
[10]Art 18, comma 1, lett. d), C. cons.
[11]Art. 19, comma 1, C. cons.
[12]De Cristofaro G. (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, il recepimento della direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), 2008, p. 64 ss.
[13]Art. 19, comma 1, C. cons.
[14]Angelini, R., Commento all’art. 18 cod.cons., in Codice del consumo, a cura di V. Cuffaro, II ed., Milano, 2008, pp. 89.
[15]Libertini M., Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contratto e Impresa, 2009, pp. 73 ss.
[16]DI NELLA L., Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali sleali aggressive, in Contr. Impr. Eur., 2007.
[17]De Cristofaro G., Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione, in De Cristofaro, G. (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, 2008, pp. 140.
[18]Si veda AGCM PS11723, Provvedimento n. 28173, FARMACO CORONAVIRUS.IT-KALETRA, 17 marzo 2020. https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11723_adoz%20misure%20cautel%20di%20ufficio.pdf .
Francesca Michetti. Nasce a Chieti nel 1992. Laureata in giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli con 110/110 e lode.
Durante la stesura della tesi, dal titolo “Il divieto di perizia psicologica sull’imputato”, sviluppa un particolare e profondo interesse per lo studio del complesso rapporto tra il diritto, la psicologia e le neuroscienze.
Spinta dal desiderio di avvicinarsi alla conoscenza scientifica del comportamento umano e dei meccanismi cognitivi e celebrali che lo governano, intraprende il dottorato in Business and Behavioral Science presso l’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara.
Si descrive come una persona curiosa, riflessiva, precisa e determinata: le piace andare oltre la superficie di tutte le cose, alla ricerca del senso più profondo, di sé e degli altri.