Cass. Civ., Sezione Unite, sentenza 20 aprile 2021, n. 10356, sull’insolvenza transfrontaliera
Commento breve a cura del Dott. Andrea di Gregorio
- Introduzione
Nella presente pronuncia la Corte di Cassazione affronta il tema relativo alla competenza a dichiarare l’insolvenza di un’impresa che operi in ordinamenti diversi.
Nello specifico, la Suprema Corte ha stabilito che, ai sensi del Regolamento (UE) n. 848/2015 (il “Regolamento 848/2015”), la competenza a dichiarare l’insolvenza di siffatta impresa si radichi in capo al giudice dello Stato membro in cui sia localizzato il suo centro degli interessi principali (altresì noto come centre of main interests o “COMI”).
A tale riguardo rileva, fino a prova contraria, la presunzione di coincidenza del COMI con la sede legale dell’impresa, a condizione che quest’ultima non sia stata trasferita in un altro Paese dell’Unione Europea nei tre mesi precedenti la domanda di apertura della procedura di insolvenza.
- La nozione di COMI (cenni)
Il COMI costituisce un concetto giuridico originariamente ideato al fine di ripartire la giurisdizione del debitore la cui organizzazione sia articolata su un piano pluriordinamentale.
In primo luogo, è opportuno fare menzione della Model Law on Cross-Border Insolvency, adottata il 30 maggio 1997 dalla Commissione Permanente presso le Nazioni Unite per la legislazione sul commercio internazionale (Uncitral).
Pur non enunciando una definizione di COMI, la Model Law ha previsto nell’articolo 16, paragrafo 3°, una presunzione iuris tantum, secondo cui il COMI del debitore è presunto essere nel luogo in cui il medesimo abbia la sua sede statutaria.
Nello stesso solco della Model Law si è successivamente posto, a livello europeo, il Regolamento (CE) n. 1346/2000 (il “Regolamento 1346/2000”), adottato dal Consiglio della Comunità Europea il 29 maggio 2000 ed entrato vigore il 31 maggio 2002 (successivamente abrogato dal Regolamento 848/2015).
Il Regolamento 1346/2000 si è astenuto dal fornire una definizione espressa di COMI del debitore, sebbene tale nozione potesse comunque essere ricavata dal combinato disposto di cui all’articolo 3, paragrafo 1°, e al Considerando 13.
L’articolo 3, paragrafo 1°, prevedeva che fossero competenti ad aprire la procedura di insolvenza “i giudici dello Stato membro nel cui territorio [fosse] situato il centro degli interessi principali del debitore”, puntualizzando che per le società e le persone giuridiche il centro degli interessi principali si presumeva essere, fino a prova contraria, “il luogo in cui si trova[sse] la sede statutaria”.
D’altra parte, il Considerando 13 precisava che “per centro degli interessi principali si [dovesse] intendere il luogo in cui il debitore esercit[asse] in modo abituale, e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei suoi interessi”.
Dalla formulazione dei disposti normativi sinora richiamati si evince come il COMI venisse considerato dalla dottrina quale un concetto fattuale alquanto vago, il cui accertamento in un determinato momento storico fosse rimesso all’organo giudicante adito[1].
Da ultimo, il Regolamento 848/2015, adottato il 20 maggio 2015 e divenuto successivamente applicabile a partire dal 26 giugno 2017, ha fatto nuovamente riferimento al concetto di COMI quale criterio di individuazione della giurisdizione, riproducendone la definizione contenuta nell’abrogato Regolamento 1346/2000.
L’art. 3, paragrafo 1°, Regolamento 848/2015 definisce difatti il COMI come quel “luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi”, attribuendo al giudice dello Stato membro ove sia situato il COMI la competenza ad avviare la procedura di insolvenza principale. La medesima disposizione precisa, ulteriormente, che “per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale”[2].
Il fatto
Mediante sentenza emessa nel mese di agosto 2018, il Tribunale di Velletri ha dichiarato il fallimento di una società, per crediti tributari recati da cartelle esattoriali.
Quest’ultima ha proposto reclamo ai sensi dell’articolo 18 del regio decreto 16 marzo 1942, numero 267 (la “Legge Fallimentare”), deducendo che la giurisdizione fosse stata erroneamente attribuita al giudice italiano, in violazione degli articoli 9 della Legge Fallimentare[3] e 3 del Regolamento 1346/2000[4], poiché la sede statutaria era stata trasferita a Londra (UK), con contestuale cessazione dell’attività in Italia e cancellazione della medesima società dal registro delle imprese.
La Corte di Appello di Roma, condividendo le valutazioni del giudice di prime cure, secondo cui il trasferimento della sede della società era da ritenersi fittizio, ha respinto il reclamo.
Avverso la pronuncia della Corte di Appello, la società ha presentato ricorso presso la Corte di Cassazione.
La motivazione
Mediante il primo motivo posto a fondamento del ricorso, la ricorrente ha denunziato la violazione del suddetto articolo 9 Legge Fallimentare, nonché dell’articolo 3 del Regolamento 1346/2000, in quanto l’individuazione in Italia del COMI della società sarebbe avvenuta in contrasto con i principi elaborati dalla Corte di Giustizia Europea e dalla stessa Corte di Cassazione.
In particolar modo, secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente preso in esame gli elementi forniti nel quadro normativo di riferimento, i quali sarebbero stati idonei a provare che il COMI della società non fosse localizzato in Italia.
Con il secondo motivo, invece, la ricorrente ha censurato la violazione o falsa applicazione dell’articolo 18 Legge Fallimentare, in quanto la Corte di Appello non avrebbe svolto “supplementi istruttori officiosi” al fine di determinare il carattere fittizio del trasferimento.
Mediante la sentenza de qua la Suprema Corte, esaminando congiuntamente i due motivi posti a fondamento del ricorso, ha ritenuto quest’ultimo inammissibile.
In primo luogo, gli Ermellini hanno rilevato che, essendo il fallimento della società conseguente ad un ricorso depositato nel mese di febbraio 2018, nella fattispecie concreta trovi applicazione il Regolamento 848/2015 e non il Regolamento 1346/2000; pertanto, le censure enunciate dalla ricorrente sono “minate dall’erroneità della ricostruzione normativa applicabile ratione temporis”[5].
Successivamente, la Suprema Corte ha offerto una compiuta ricostruzione in merito al quadro normativo che ha interessato il concetto di COMI, sottolineando che, ai sensi del richiamato Regolamento 848/2015, vale, fino a prova contraria, la presunzione di coincidenza del COMI con la sede legale della società.
La Corte ha poi rilevato come la normativa europea abbia risolto l’annoso tema del trasferimento della sede legale nel cosiddetto “periodo sospetto”, prevedendo che la presunzione di coincidenza operi laddove la sede non sia stata trasferita in altro Stato membro nei tre mesi precedenti la domanda di apertura della procedura di insolvenza.
Nel caso di specie, nonostante il trasferimento della sede fosse intervenuto in un periodo anteriore a quello ritenuto sospetto, era stato riconosciuto dalla Corte di Appello romana il carattere fittizio del trasferimento stesso, all’esito di una valutazione globale basata su una situazione concreta differente da quella risultante dalle informazioni desumibili dal registro delle imprese.
Il principio generale sancito dalla sentenza de qua è, pertanto, quello secondo cui la competenza a dichiarare l’insolvenza si radichi in capo al giudice dello Stato membro in cui sia localizzato il COMI. A tale riguardo, ove prima della domanda di apertura della procedura fallimentare la società abbia trasferito all’estero la propria sede legale, tale trasferimento deve ritenersi fittizio, nel caso in cui “nella nuova sede non sia effettivamente esercitata attività economica e (soprattutto) non sia stato ivi spostato il centro dell’attività direttiva, amministrativa e organizzativa dell’impresa”.
Cass. Civ., Sezione Unite, sentenza 20 aprile 2021, n. 10356
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Primo Presidente f.f. –
Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 28944/2019 proposto da:
(OMISSIS) S.R.L., società costituita ed esistente come (OMISSIS) LTD, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato DAMIANO CALABRETTA;
- ricorrente –
contro
ADER – AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (già Equitalia s.p.a.), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
- controricorrente –
e contro
FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ (OMISSIS) S.R.L.;
- intimata –
avverso la sentenza n. 5298/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 26/08/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/03/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI.
Svolgimento del processo
Rilevato che:
il tribunale di Velletri, con sentenza del 9 agosto 2018, ha dichiarato il fallimento di (OMISSIS) s.r.l. su istanza dell’Agenzia delle entrate – Riscossione, per crediti tributari recati da cartelle esattoriali previamente notificate;
la società ha proposto reclamo à sensi della L. Fall., art. 18, deducendo che era stata erroneamente ritenuta la giurisdizione del giudice italiano in violazione della L. Fall., art. 9 e art. 3 del Regolamento (CE) n. 1346 del 2000; ciò in quanto la sede statutaria era stata trasferita a (OMISSIS) con cessazione dell’attività in Italia e cancellazione della società dal registro delle imprese;
l’adita corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo, condividendo, in ordine al Regolamento (CE) n. 1346 del 2000 (ivi erroneamente indicato dapprima come n. 1383 e poi come n. 1326), la valutazione del tribunale secondo la quale il trasferimento di sede era da aversi per fittizio, giacchè (i) era stato deliberato dopo la notifica di cartelle esattoriali per un ammontare di oltre un milione Euro, allorchè la società era già risultata, in base all’ultimo bilancio, gravemente indebitata; (ii) la stessa, dopo il trasferimento della sede, non aveva in concreto svolto alcuna attività produttiva a (OMISSIS); (iii) essa – soprattutto – non aveva spostato il centro dell’attività direttiva amministrativa e organizzativa dell’impresa;
contro la sentenza, depositata il 26 agosto 2019, la società ha proposto ricorso sorretto da due motivi;
l’Agenzia delle entrate-Riscossione ha replicato con controricorso;
la curatela del fallimento non ha svolto difese.
Motivi della decisione
Considerato che:
- – col primo mezzo la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dei citati L. Fall., art. 9e art. 3del Regolamento (CE) n. 1346 del 2000, sostenendo che l’individuazione in Italia del centro degli interessi principali della debitrice sarebbe avvenuta in contrasto coi principi elaborati da questa Corte Suprema e dalla Corte di giustizia UE; a suo dire, l’impugnata sentenza non avrebbe tenuto conto della serie di elementi forniti nel quadro normativo di riferimento, che avrebbero dovuto esser considerati idonei a provare, invece, che nella nuova sede era stata effettivamente esercitata l’attività economica della società, e che ivi era stato altresì spostato il centro dell’attività amministrativa organizzativa e direttiva stante l’avvenuta cessazione dell’impresa in Italia;
ricordato che l’elemento temporale a ridosso della presentazione di istanze di fallimento dota il giudice italiano della giurisdizione solo se il trasferimento di sede non sia effettivo, la ricorrente afferma che l’effettività si sarebbe dovuta apprezzare in base al cambiamento della compagine e dell’amministratore a poca distanza dalla Delibera di trasferimento e alla solo parziale cessione dell’azienda un mese prima del trasferimento medesimo, atteso il venir meno dell’attività in Italia per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione dei titoli abilitativi per l’uso degli impianti produttivi;
ascrive quindi alla corte d’appello: (a) di aver motivato apoditticamente, (b) di aver enfatizzato l’asserita esistenza di un rapporto di lavoro del nuovo amministratore ( D.N.T.) con una società terza (Traktor International LTD), posto che del fatto non era stata fornita prova e che comunque nessuna norma vieta la simultaneità del rapporto di lavoro e l’assunzione di una carica amministrativa in diverso ente societario; (c) di aver errato nell’affermare la coincidenza, al momento del trasferimento, della sede sociale estera con lo studio di un professionista, quando invece la sede era stata trasferita presso il detto studio in un momento ancora successivo; (d) di aver errato nell’attribuzione di rilevanza al fatto che mancava la data certa dei preventivi depositati a sostegno dello svolgimento in concreto di attività economica all’estero;
- – col secondo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 18, posto che la corte d’appello, in spregio dell’acclarata assenza in Italia di elementi obiettivi e riconoscibili dai terzi, che avrebbero consentito di determinare l’effettività di una situazione diversa da quella presumibilmente corrispondente alla sede statutaria, avrebbe mancato di svolgere supplementi istruttori officiosi per stabilire la fittizietà del trasferimento; fatto – codesto – ancor più grave, in quanto non spetta sulla società, nei cui confronti sia presentata un’istanza di fallimento, dimostrare la coincidenza tra il centro effettivo dei propri affari e la nuova ubicazione della sede sociale;
III. – il ricorso, i cui motivi possono essere unitariamente esaminati per connessione, è inammissibile;
innanzi tutto va puntualizzato che il fallimento, nella concreta fattispecie, risulta conseguente a un ricorso dell’Agenzia delle entrate-Riscossione depositato il 12 febbraio 2018;
trova dunque applicazione il Regolamento (UE) n. 848/2015 del Parlamento Europeo e del Consiglio sulle procedure di insolvenza, applicabile a partire dal 26 giugno 2017 ai sensi dell’art. 84, non il Regolamento (CE) n. 1346/2000 al quale hanno alluso la ricorrente e la corte d’appello di Roma; il Regolamento (CE) del 2000 continua ad applicarsi, ma in relazione alle procedure di insolvenza aperte anteriormente alla data di cui sopra;
le censure che la ricorrente ha enunciato come poste in base alla “evidenza del quadro normativo di riferimento” (così il ricorso, a pag. 7) sono minate dall’erroneità della ricostruzione normativa applicabile ratione temporis;
- – a scopo di chiarificazione occorre specificare il margine di differenza che corre tra le discipline per la parte che attiene al COMI (Centre of main interests);
anche nel Regolamento (CE) n. 1346/2000 era stabilita la regola di attribuzione della competenza al giudice dello stato membro nel quale fosse situato il COMI (id est, il centro degli interessi principale dell’impresa); tuttavia, introdotta la presunzione di corrispondenza tra il COMI e la sede statutaria, nell’articolato non era stata fornita una definizione del primo concetto, per risalire alla quale occorreva far riferimento al solo Considerando 13;
viceversa il Regolamento (UE) n. 848/2015 ha esplicitato la definizione inserendo, nell’art. 3, un inciso conforme a quello dell’anteriore Considerando 13 del Regolamento (CE) del 2000, in coerenza con l’interpretazione invalsa in sede Eurounitaria (v. soprattutto C. giust. 20 Ottobre 2011″ Interedil, causa C396/09);
ne segue che (i) in base all’art. 3 del pertinente Regolamento (UE) n. 848/2015 competenti ad aprire la procedura d’insolvenza sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore (cd. “procedura principale d’insolvenza”); e (ii) il centro degli interessi principale è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e (soprattutto) riconoscibile dai terzi;
- – ancora è opportuno sottolineare che pure in base al citato Regolamento (UE) n. 848/2015 vale la presunzione di coincidenza del COMI con la sede legale, nel senso che per le società, e le persone giuridiche in genere, si presume che il COMI coincida, fino a prova contraria, con il luogo in cui si trova la sede statutaria; solo che la presunzione opera se la sede non sia stata trasferita in altro Stato membro nei tre mesi precedenti la domanda di apertura della procedura d’insolvenza;
in tal modo il Regolamento (UE) n. 848/2015 ha dato soluzione all’annoso tema del trasferimento della sede legale nel periodo ritenuto sospetto, che determina una inversa presunzione di fraudolenza;
- – ora, fermi i rilievi che precedono, nel caso di specie risulta dalla sentenza che il trasferimento di sede era stato deliberato a gennaio 2017, a fronte dell’istanza di fallimento presentata a febbraio 2018, cosicchè, sebbene erroneamente riferita al regime del vecchio Regolamento (CE) del 2000, è corretta l’affermazione di parte ricorrente circa l’operatività della presunzione di coincidenza del COMI con la sede statutaria;
vi è però che il riferimento alla regola presuntiva non toglie validità al criterio di giudizio seguito dalla corte d’appello, per quanto al netto del citato errore normativo;
è principio altrettanto generale che, ove, prima della domanda di apertura della procedura fallimentare, la società abbia trasferito all’estero la propria sede legale, la suddetta presunzione deve considerarsi vinta, e tale trasferimento ritenersi fittizio, permanendo, così, la giurisdizione del giudice italiano a decidere su quella domanda, allorquando nella nuova sede non sia effettivamente esercitata attività economica e (soprattutto) non sia stato ivi spostato il centro dell’attività direttiva, amministrativa e organizzativa dell’impresa (ex aliis, cfr. Cass. Sez. U. n. 28981-20, ma v. pure Cass. Sez. U. n. 5945-13, Cass. Sez. U. n. 3059-16, Cass. Sez. U. n. 5419-16, in relazione all’anteriore disciplina del Regolamento (CE) erroneamente evocato dalla ricorrente);
VII. – l’individuazione a tal riguardo del COMI si basa su valutazioni di fatto, e la corte d’appello di Roma ha fondato l’affermazione della propria giurisdizione sull’accertamento di una situazione in concreto diversa da quella risultante dalle indicazioni ufficiali desumibili dal registro delle imprese;
essa è pervenuta a tale conclusione all’esito di una valutazione globale dei dati di cui disponeva, puntualmente indicati in sentenza;
le censure svolte dalla ricorrente sono sul punto generiche, a partire dall’erroneo riferimento al quadro normativo applicabile e alla inesplicata questione delle verifiche officiose ulteriori, che non si comprende su cosa si sarebbero dovute svolgere;
lo sono in quanto la ricorrente pretende, in verità, di mettere in discussione i fatti accertati sulla base di elementi extraprocessuali, col fine di giungere a una diversa ricostruzione neppure assistita dal necessario livello di autosufficienza; e inoltre in quanto, a fronte delle confacenti valutazioni operate dal giudice del merito, la somma di affermazioni che ne sorreggono la diversa tesi prospettata è parziale rispetto alla necessità di stabilire – come detto – la riconoscibilità da parte dei terzi dell’asserita allocazione all’estero del centro effettivo di direzione della società;
tale riconoscibilità, difatti, è stata implicitamente esclusa dalla corte d’appello;
VIII. – ulteriormente è vano insistere sulla avvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese;
laddove la cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano sia avvenuta come conseguenza dell’asserito trasferimento all’estero della sua sede sociale, il successivo accertamento della fittizietà del trasferimento non è precluso dalla circostanza che non sia preventivamente intervenuto, alla stregua dell’art. 2191 c.c., alcun provvedimento di segno opposto alla predetta cancellazione;
per poter fornire la prova contraria alle risultanze della pubblicità legale riguardanti la sede dell’impresa non occorre precedentemente ottenere dal giudice del registro una pronuncia che ripristini, anche sotto il profilo formale, la corrispondenza tra la realtà effettiva e quella da esso risultante (v. Cass. Sez. U. n. 9414-13);
- – in conclusione, stabiliti i riferimenti normativi nel pertinente senso all’inizio indicato, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in 6.000,00 Euro oltre le spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 9 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2021.
[1] M. F. MUCCIARELLI, Centro degli interessi principali e forum shopping in materia fallimentare, Atti del Convegno ODC “Il Diritto Commerciale Europeo di fronte alla crisi, Roma, 29-30 gennaio 2010 .
[2] Come rilevato da D. LATELLA, UE e disciplina dell’insolvenza. La crisi dei gruppi di società nella riforma dell’insolvenza transfrontaliera: profili generali, in Giur. it., 2018, pp. 480 ss., tale approccio risulta coerente con gli sviluppi della legislazione internazionale in materia (in particolar modo l’Autore fa riferimento all’articolo 16, paragrafo 3°, della Model Law on Cross-Border Insolvency del 1997).
[3] Il cui testo recita: “1. Il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa. 2. Il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza. 3. L’imprenditore, che ha all’estero la sede principale dell’impresa, può essere dichiarato fallito nella Repubblica italiana anche se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all’estero. 4. Sono fatte salve le convenzioni internazionali e la normativa dell’Unione Europea. 5. Il trasferimento della sede dell’impresa all’estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana, se è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all’articolo 6 o la presentazione della richiesta di cui all’articolo 7”.
[4] Il cui testo recita: “1. Sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore. Per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede statutaria. 2. Se il centro degli interessi principali del debitore è situato nel territorio di uno Stato membro, i giudici di un altro Stato membro sono competenti ad aprire una procedura di insolvenza nei confronti del debitore solo se questi possiede una dipendenza nel territorio di tale altro Stato membro. Gli effetti di tale procedura sono limitati ai beni del debitore che si trovano in tale territorio. 3. Se è aperta una procedura di insolvenza ai sensi del paragrafo 1, le procedure d’insolvenza aperte successivamente ai sensi del paragrafo 2 sono procedure secondarie. Tale procedura è obbligatoriamente una procedura di liquidazione. 4. Una procedura d’insolvenza territoriale di cui al paragrafo 2 può aver luogo prima dell’apertura di una procedura principale d’insolvenza di cui al paragrafo 1 soltanto nei seguenti casi: allorché, in forza delle condizioni previste dalla legislazione dello Stato membro in cui si trova il centro degli interessi principali del debitore, non si può aprire una procedura d’insolvenza di cui al paragrafo 1; ovvero allorché l’apertura della procedura territoriale d’insolvenza è richiesta da un creditore il cui domicilio, residenza abituale o sede è situata nello Stato membro nel quale si trova la dipendenza in questione, ovvero il cui credito deriva dall’esercizio di tale dipendenza”.
[5] Occorre puntualizzare, tuttavia, che il Regolamento 1346/2000 continua a trovare applicazione unicamente per quelle procedure di insolvenza avviate anteriormente al 26 giugno 2017, data di entrata in vigore del Regolamento 848/2015.
Andrea Di Gregorio è junior associate presso Chiomenti, prestando assistenza nell’ambito del diritto bancario e finanziario ed in quello di composizione della crisi di impresa e debt restructuring.
Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Brescia, discutendo una tesi in Diritto Fallimentare dal titolo “I gruppi di imprese nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” e riportando una votazione di 110/110 cum laude.
Collabora con la rivista Ius in itinere da maggio 2020.