Doveri di (ri)pianificazione e risanamento dell’impresa
1. Doveri di (ri)pianificazione e risanamento
Esattamente a metà strada tra i doveri informativi e quelli gestori degli amministratori di società di capitali in “fase crepuscolare” si trova la pianificazione imprenditoriale. Quest’ultima mira a preservare e recuperare l’equilibrio economico-finanziario, poiché l’organizzazione programmatica dei profili finanziari e dell’attività solutoria riveste una posizione di un certo rilievo anche nella disciplina codicistica.[1]
Basti pensare, infatti, che l’art. 2381, commi 2 e 3, c.c. segnala, tra gli obblighi gestori, quello di vigilare (per gli amministratori delegati) o curare (per quelli privi di delega) l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, nonché di elaborare e valutare i piani strategici, industriali e finanziari della società.
Ancora, altre disposizioni normative attinenti sono senz’altro gli artt. 2447-ter e 2447-decies c.c., in ambito di patrimoni destinati ad un preciso affare,[2] e l’art. 2501-bis c.c. inerente alla fusione successiva ad acquisizione con indebitamento, giacché prevedono sia strettamente necessaria l’elaborazione di un apposito piano finanziario per le situazioni prospettate, seppur solo in via astratta, dalla lettera delle norme in questione.[3]
La programmazione o pianificazione dell’impresa consiste nel rilevare notizie utili all’esercizio della condotta gestoria, ma è anche un imprescindibile strumento che permette di determinare razionalmente le decisioni degli amministratori.[4] Peraltro, l’attività d’impresa non deve esser considerata come una mera sequela di atti, ma piuttosto come un’attività pianificata, i cui programmi occupano ogni area d’interesse dell’impresa stessa, influenzando dunque ogni processo decisionale ed operativo.[5]
È per tali ragioni che il legislatore ha predisposto, in capo all’organo amministrativo, il dovere di pianificare l’attività d’impresa, a prescindere dallo stato in cui si trovi. Tuttavia, dovendo noi soffermarci sulla crisi dell’impresa, è opportuno acuire l’attenzione circa la redazione del piano durante tale stato patologico. In particolare, infatti, esso è l’elemento comune per ogni soluzione concordataria nell’ambito delle procedure concorsuali.[6]
Il programma da redigere altro non è che un impegno di ricomposizione della crisi, utilizzabile ad esempio per evitare le ripercussioni di un’azione revocatoria, ai sensi di quanto disposto dall’art. 67, comma 3, lett. d, l. fall..[7] Anche per ricorrere agli accordi di ristrutturazione è essenziale che essi predispongano un programma di risanamento credibile, in quanto non possono essere messi in atto in presenza di condotte negligenti, improvvisate ed irresponsabili.[8]
La condotta del curatore, nel contesto della procedura fallimentare, deve seguire un programma predefinito di liquidazione autorizzato dal comitato dei creditori. Pertanto, anche in caso di fallimento e non solo di crisi, il piano permea la procedura concorsuale nella sua interezza.[9]
Sulla base di quanto sottolineato, è evidente come la crisi stessa stimoli la funzione gestoria di pianificazione. Tuttavia, va aggiunto che tale impulso non riguarda la sola fase concorsuale, ma anche quella pre-concorsuale o crepuscolare.
1.1. Titolarità esclusiva della funzione (ri)pianificatoria in capo all’organo amministrativo
Il compito di programmare l’attività d’impresa, dunque, spetta in via esclusiva all’organo amministrativo, il quale ha peraltro anche il dovere di predisporre il piano di gestione della crisi pre-concorsuale.[10]
Dal punto di vista codicistico, è utile richiamare nuovamente l’art. 2381 c.c., il cui comma terzo assegna al plenumconsiliare il dovere di valutare i piani strategici, industriali e finanziari, se e quando elaborati.
Inoltre, anche l’art. 2380-bis c.c. afferma che la gestione dell’impresa rientra nella sfera di competenza dei soli amministratori, che per raggiungere l’oggetto sociale ricorrono a diverse operazioni, tra cui certamente anche la stessa pianificazione.[11]
In linea generale, vanno pertanto escluse competenze assembleari, fatta eccezione per la circostanza in cui vi sia una riduzione del capitale sociale superiore ad un terzo, che implichi dunque una riunione dell’assemblea perché vengano presi provvedimenti adeguati in merito, potendo, secondo autorevole dottrina, adottare anche delibere dal contenuto piuttosto vario.[12]
D’altro canto, in occasione di altre crisi dell’impresa, queste non comporteranno il coinvolgimento dell’assemblea, ma soltanto l’ordinario intervento dell’organo amministrativo.
Gli amministratori dispongono anche del potere decisionale in merito al concordato fallimentare e preventivo, nonché per le altre soluzioni di carattere negoziale.[13]
Tuttavia, l’assemblea può reagire alla pianificazione gestoria con la rimozione degli amministratori dal proprio incarico, così da non permetter loro di conseguire fini egoistici in una situazione di crisi.[14]
Per il resto, secondo parte della dottrina non è ammessa la compressione delle competenze gestorie in favore di quelle assembleari;[15] altra corrente invece riconosce la possibilità in capo agli amministratori, se non addirittura il dovere, di convocare l’assemblea per trattare del piano di risanamento elaborato.[16]
Per completare il quadro relativo al rapporto tra le competenze assembleari e gestorie, in aggiunta a quanto esposto, va precisato che non possono neppure attribuirsi all’assemblea poteri decisionali indiretti, in occasione del potere-dovere d’interpello, così che l’assemblea riceva raccomandazioni non vincolanti.[17]
1.1.1. Solvency tests
Come già accennato, la pianificazione finanziaria implica alcune condotte non di poco conto, tra cui sicuramente vanno menzionati i solvency tests. Gli amministratori infatti, in conformità alla disciplina del bilancio dettata dal codice di riferimento, non hanno soltanto il compito di elaborare l’informativa inerente alla continuità aziendale, ma anche quello di verificare ed accertare la sussistenza di quest’ultima, dello stato di crisi o della condizione d’insolvenza.
Tra gli obblighi gestori, quindi, trova posto anche il dovere di compiere i cc.dd. liquidity tests, volti ad esaminare in via preventiva la condizione societaria, anche sulla base dei dati contabili che emergono dal balance sheet test.[18]
Del resto, perché gli amministratori possano fornire informazioni utili ai fini della disamina della condizione finanziaria della compagine sociale, tanto nel rendiconto finanziario quanto nella relazione di gestione, devono ricorrere necessariamente ai solvency tests.
Questi ultimi sono funzionali sia per constatare la liquidità dell’impresa, sia per verificare la solvibilità della stessa.
Tuttavia, essendo tali verifiche piuttosto dispendiose, sono utilizzate soltanto nella c.d. “twilight zone”, mentre per le società in bonis si fa usualmente ricorso al sistema del netto, al bilancio e al rendiconto finanziario.[19]
Notiamo quindi un utilizzo particolarmente limitato dei solvency tests, in quanto se i dati mostrano che la società ha una resa redditizia e profittevole, senza riscontrare alcun problema nell’accesso alle risorse finanziarie, non occorre profondere ulteriori energie indagando sulla continuità aziendale della stessa.[20]
È opportuno, in questa sede, operare un breve raffronto con la disciplina statunitense in merito a verifiche analoghe. In particolar modo, ci si può rifare al Bankruptcy Code che parla espressamente di solvency analysis. La valutazione in oggetto si snoda in 3 verifiche differenti.
Innanzitutto, troviamo il balance sheet test menzionato in precedenza, il quale si basa sulla distanza tra il valore di mercato degli attivi e le passività aziendali; in secondo luogo, è previsto il cash flow test che valuta le capacità della società di generare flussi di cassa in ammontare sufficiente per adempiere le proprie obbligazioni entro le rispettive scadenze.
Infine, il capital adequacy test mira a verificare l’adeguatezza delle disponibilità finanziarie per assolvere spese operative, debiti, investimenti ed eventuali obbligazioni.[21]
1.1.2. Business judgment rule: presupposti applicativi e compiti degli amministratori
Ciò che risulta difficile nell’ambito di cui ci stiamo occupando, è senza dubbio la definizione dei confini entro cui gli amministratori devono operare, tanto più nella loro mansione di pianificazione.
Alle condotte degli amministratori è possibile applicare la c.d. Business judgment rule, la quale impedisce la sindacabilità nel merito delle scelte imprenditoriali, o meglio dell’opportunità e della convenienza delle stesse. Nello specifico, infatti, il rischio d’insuccesso grava sui soci, non sugli amministratori, così che questi ultimi non perdano motivazioni per la valorizzazione del capitale sociale.[22] Dunque, l’oggetto del sindacato dell’autorità giudiziaria è costituito dalle sole modalità d’esercizio del potere discrezionale degli amministratori,[23] ovvero il rispetto degli obblighi generali e specifici previsti dall’ordinamento.[24]
L’operatività della BJR va osservata attraverso due prospettive: la prima ex ante, che ammette che gli amministratori possano gestire la società in modo discrezionale;[25] la seconda ex post, che invece non riconosce la responsabilità gestoria in caso di esito negativo derivante dalla condotta degli stessi, sebbene magari si tratti di errori gravi ed evitabili da gestori più competenti.[26] Tuttavia, i risultati negativi possono costituire una giusta causa di revoca.[27]
Dunque, si può dire che la Business judgment rule sia nata al fine di garantire l’autonomia delle scelte gestionali degli amministratori, per il tramite dell’apposizione di limiti al sindacato del giudice sulle azioni di responsabilità contro gli stessi.[28]
Si tratta, però, di limiti non assoluti, in quanto è ben possibile che un grave errore di gestione, sebbene non comporti un’ipotesi di responsabilità, potrebbe dar luogo ad un indice di violazione di un obbligo gestorio previsto ex lege, presumendo quindi che l’amministratore in questione abbia tenuto una condotta non conforme ai canoni di diligenza predeterminati o diretta piuttosto alla realizzazione di interessi egoistici dello stesso.[29]
Quanto ai presupposti applicativi di questa regola, essi sono principalmente due e riguardano la decisione imprenditoriale e la fase istruttoria antecedente alla stessa.
Nella fase istruttoria l’amministratore ha il compito di mettere in atto ogni verifica preventiva ed ogni adeguata cautela, così da predisporre un assetto organizzativo, contabile ed amministrativo in grado di fornire informazioni utili per la scelta gestoria.[30]
D’altro canto, rispetto alla decisione imprenditoriale, gli amministratori hanno l’obbligo di agire in buona fede,[31]perseguendo il bene della società come unico fine.
Come detto, tali limiti di sindacabilità non devono però giustificare condotte arbitrarie,[32] pertanto è necessario che il comportamento degli amministratori sia connotato da ragionevolezza perché non venga contestato nel merito.
Di conseguenza, gli amministratori che arrechino danno all’impresa per una scelta irragionevole, ne risponderanno indipendentemente dall’ottemperanza alle disposizioni normative e statutarie e nonostante la correttezza dell’istruttoria effettuata.
La BJR ha un raggio d’azione piuttosto ampio, in quanto risulta applicabile tanto alle scelte degli amministratori, quanto alle decisioni relative all’organizzazione dell’impresa, ossia l’assetto contabile, amministrativo ed organizzativo.
Essa tutela gli amministratori da giudizi influenzati dai cc.dd. “hindsight bias”[33]e dalle difficoltà ricorrenti della funzione economica.
È quindi palese la discrezionalità decisionale degli amministratori dovuta all’ampia insindacabilità delle loro decisioni dal punto di vista sostanziale.
Può facilitare l’assimilazione di tali concetti richiamare alcune pronunce giurisprudenziali inerenti alla questione. Il Tribunale ordinario di Palermo, nel 2008, decise un caso relativo ad un’azione di responsabilità promossa da una S.p.A. contro un amministratore ai sensi dell’art. 2392 c.c. Tre erano le condotte di mala gestio addebitategli: aver concluso un accordo transattivo con un dipendente della società senza averne i poteri e contro il parere del c.d.a., comportando notevoli danni patrimoniali; aver causato le dimissioni del direttore del coordinamento della struttura amministrativa; aver concluso un contratto di fornitura poi rivelatosi svantaggioso per la società.
Appurato che gli atti posti in essere dall’amministratore rientravano nella sua sfera di competenze, il giudice non aveva modo di valutare il merito dei singoli atti di gestione, poiché altrimenti ne avrebbe valutato l’opportunità e la convenienza, violando il principio di insindacabilità nel merito già menzionato.[34]
Ancor prima, nel 2004, la Cassazione ha chiaramente distinto la responsabilità gestoria per violazione dell’obbligo di diligenza, da quella non ammessa relativa alla scelta in sé effettuata dagli amministratori.[35]
Tra l’altro, gli amministratori devono individuare anticipatamente, per quanto possibile, le situazioni di crisi dell’impresa, sfruttando gli indici e le procedure messi a punto dalle scienze aziendalistiche. Se l’omessa rilevazione deriva dal fatto che l’organo amministrativo non ha adoperato tali mezzi, la loro condotta sarà sindacabile applicando la BJR.[36]
Gli amministratori devono, inoltre, occuparsi dell’apprezzamento del carattere reversibile o irreversibile della crisi. In caso di errori di valutazione a riguardo che dipendano dall’inosservanza delle procedure e dei parametri derivanti dai principi di corretta gestione o da inidoneità degli assetti organizzativi della società, questi configurano violazioni di doveri giuridici degli amministratori e non risultano coperti dalla Business Judgment Rule.[37]
1.1.3. Test di risanabilità
In conformità a quanto analizzato, la Business Judgment Rule permette un giudizio circa le scelte gestorie, ma al contempo questa valutazione non inerisce al merito delle decisioni, bensì alla fase istruttoria che porta alle stesse, anche chiamata decision making process.[38]
La fase in questione è particolarmente utile perché, se svolta in modo corretto, consente agli amministratori di assumere le informazioni necessarie per fare scelte consapevoli.
Infatti, per mezzo del dovere conoscitivo-preliminare è possibile constatare la condizione corrente della società e su questa base operare valutazioni prognostiche circa il potenziale status futuro, nel bene e nel male, ovvero tanto adottando le opportune contromisure, quanto in caso contrario.[39]
Tutti i controlli e le verifiche che ne derivano possono essere genericamente ricondotti ai c.d. test di risanabilità.
1.1.4. Risanabilità in senso stretto e opportunità di risanare
Le diverse condotte in cui si snoda il test sopra menzionato vanno ricondotte a due categorie: risanabilità in senso stretto ed opportunità di risanare.
La prima mira a constatare la concreta possibilità che la compagine sociale, a seguito ed in virtù delle misure adottate, riesca ad espletare la propria attività senza pregiudicare la continuità aziendale.[40] In sintesi, il test di risanabilità in senso stretto concerne la possibilità tecnica di operare un turnaround, termine usualmente tradotto come “giro di boa”, per indicare il possibile momento di svolta che faccia passare la società da una condizione di crisi o declino ad un percorso di recupero dello stato fisiologico originario.[41]
L’opportunità di risanare, d’altro canto, interviene cronologicamente dopo rispetto alla risanabilità in senso stretto e dipende dall’esito positivo della stessa. Essa concerne l’utilità economica di questo risanamento. Gli amministratori, nell’espletamento del test di risanabilità, possono inoltre ricorrere al supporto di professionisti esterni, il cui intervento non deve però esser considerato come imposto o obbligatorio, infatti l’eventuale violazione di tale dovere non implica alcun tipo di sanzione per i gestori.[42] Si tratta, infatti, di una mera alternativa per cui può optare l’organo amministrativo quando non abbia intenzione di negoziare con i creditori, ma preferisca piuttosto procedere per una decisione stragiudiziale pura e semplice.[43] Qualora il test di risanabilità venga eseguito nel modo opportuno, specialmente durante la fase crepuscolare dell’impresa, si eviterebbe che le scelte imprenditoriali siano giudicate nel merito, poiché risulterebbero già esperite correttamente tutte le verifiche preventive dovute. Pertanto, il programma di gestione della crisi va elaborato sulla base degli esiti del test di risanabilità.
1.1.5. Ragionevolezza o razionalità delle decisioni gestorie e test di coerenza logica
Nell’analisi della Business Judgment Rule va sicuramente tenuto conto anche di quelli che sono i limiti applicativi della stessa. Guardando alla disciplina statunitense si può notare come essa risulti applicabile soltanto nel caso in cui vi sia una decisione razionale che renda dunque immune l’amministratore dalla responsabilità, a prescindere dall’eventuale successiva valutazione dell’autorità giudiziaria che ex post consideri irragionevole la decisione. [44]
Viene marcatamente preferito quindi il canone della razionalità a quello della ragionevolezza. La distinzione intercorrente tra una scelta irragionevole ed una irrazionale è nata da un nutrito dibattito della dottrina e della giurisprudenza statunitensi. In particolare, una decisione irrazionale non ha alcun fondamento e ciò comporta un’impossibilità interpretativa e di comprensione della stessa;[45] dall’altro lato, la scelta irragionevole è difforme rispetto ai modelli comportamentali comunemente approvati dalla collettività.[46]
Quanto al test sull’irrazionalità della decisione, sappiamo che costituisce parte integrante del decision making process. Infatti, la valutazione sull’irrazionalità si fonda sui risultati ottenuti con quest’ultimo processo.[47] Dunque, una decisione è da definirsi illegittima nel caso sia palese la sua illogicità o irrazionalità, in riferimento alle informazioni raccolte.[48] Ad ogni modo, tale disamina non riguarda la ragionevolezza sostanziale della decisione, per cui non va a sindacare il merito della stessa. Piuttosto, ciò che viene indagato è il rapporto logico-deduttivo intercorrente tra le informazioni acquisite e le decisioni prese sulla base di queste.
Alla luce di quanto detto, si parlerà di irrazionalità tutte le volte in cui sia stata presa una decisione che appaia disancorata da quanto ottenuto a seguito della fase istruttoria.[49] Per stabilire, quindi, se una scelta imprenditoriale sia sindacabile nel merito, è opportuno verificare se sia connotata da logicità e consequenzialità rispetto alle risultanze del test di risanabilità. Per fare ciò si ricorre al c.d. test di coerenza logica, funzionale a valutare se gli amministratori abbiano preso una decisione che contrasti o risulti avulsa rispetto alle informazioni emerse nel processo istruttorio, ma soprattutto se abbiano agito in spregio a quegli interessi protetti da apposita tutela, quali sono lo scopo lucrativo e l’interesse dei creditori a vedere soddisfatta la propria pretesa.[50]
1.1.6. La decisione pregiudiziale: impossibilità di conseguire l’oggetto sociale
Il concetto di decisione pregiudiziale emerge all’insorgere della crisi pre-concorsuale, poiché proprio nella fase crepuscolare della vita di un’impresa gli amministratori devono pronunciarsi su una questione pregiudiziale ad ogni altra, ovvero quella relativa alla possibile continuazione o cessazione dell’attività d’impresa.
Tale decisione viene assunta dagli amministratori, i quali non risponderanno della stessa, a prescindere se abbiano optato per la prosecuzione o la dissoluzione della compagine sociale, a patto che abbiano riscontrato esiti positivi dalle verifiche del test di risanabilità e di quello di coerenza logica.
Qualora dunque non sia possibile conseguire l’oggetto sociale, una conseguenza può essere lo scioglimento dell’impresa, sebbene si tratti di un’ipotesi che ricorre soltanto nei casi specifici in cui il test di risanabilità abbia avuto esito negativo e soprattutto la società risulti priva di piani di risanamento adeguati. Tale ipotesi residuale è stata tra l’altro codificata all’art. 2484 c.c.[51]
Ai soci, infatti, è permesso operare in tal senso in occasione dell’assemblea convocata a seguito della sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.
Qualora però, in tal caso, non decidano affinché si rimuova tale situazione, la medesima assemblea dovrà procedere alla liquidazione;[52] di contro, qualora gli azionisti siano contrari alla prosecuzione dell’attività d’impresa in conformità a quanto deciso dagli amministratori, hanno una tale discrezionalità da poter provocare lo scioglimento intenzionale della compagine sociale.
Tra l’altro, affinché sia integrata a tutti gli effetti questa causa di scioglimento della società nel contesto della crisi pre-concorsuale, è essenziale che ricorrano alcuni presupposti. Infatti, gli stati patologici sono alla base della disgregazione dell’impresa: basti pensare ad esempio, alla situazione di declino irreversibile.[53]
In altre parole, condizione necessaria perché l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale porti allo scioglimento dell’impresa è l’irreversibilità della crisi pre-concorsuale. Tale circostanza si verifica ogni qual volta il test di risanabilità in senso stretto dia responso negativo, ipotesi piuttosto insolita.
Di contro, può accadere con maggiore frequenza che gli esiti negativi conseguano al test di opportunità immediatamente successivo ed in tale occasione l’organo amministrativo deve proporre all’assemblea di optare per uno scioglimento volontario della società, sebbene sia poi l’assemblea stessa a dover assumere discrezionalmente la decisione pregiudiziale in merito.
Di quest’ultima non risponderanno gli amministratori, i quali saranno responsabili solo per l’eventualità in cui non abbiano, pur potendo, tempestivamente arginato o rimosso un certo potenziale pregiudizio.
Dunque, il risanamento presenta il carattere della doverosità in capo agli amministratori soltanto nella circostanza in cui sia possibile la continuazione dell’attività d’impresa.
Diversa è la questione se si tratti di crisi fallimentarista, ovvero uno stato più avanzato di quello analizzato in precedenza. Parallelamente alle maggiori esigenze di tutela dei creditori si ha un incremento dei doveri gestori.[54]
Mentre nella crisi pre-concorsuale gli amministratori suggeriscono all’assemblea di deliberare in una direzione piuttosto che un’altra, in tale situazione aggravata essi hanno un potere decisionale ben maggiore, tant’è che deliberano autonomamente la proposta nel concordato preventivo e fallimentare, nonché per ogni altra soluzione negoziale che possa conciliare l’interesse sociale con quello creditorio.[55]
Di regola, tuttavia, sussiste un principio d’indisponibilità da parte dei soci della sfera degli obblighi e delle responsabilità degli amministratori, il quale implica che sia impossibile per i soci imporre all’organo gestore condotte in contrasto con tali doveri.
Anche qualora le decisioni siano assunte dall’assemblea in maniera legittima, gli amministratori non devono eseguirle, altrimenti saranno considerati responsabili delle stesse.[56]
Evidenziate tali differenze, è ora opportuno andare ad indagare quelle che sono le cause da cui derivi tale impossibilità nel conseguimento dell’oggetto sociale.
1.1.7. Cause esterne ed interne
Tradizionalmente si distingue tra impossibilità derivanti da fattori esterni ed impossibilità scaturenti da condizioni intrinseche della compagine sociale stessa.
Nel primo caso si è soliti parlare di cause esterne o oggettive, nel secondo invece di cause interne o soggettive.[57]
Si aggiunga che la dissoluzione di un’impresa per tale impossibilità può aversi solo ed esclusivamente se alla base vi siano cause assolute, oggettive e definitive.[58]
Tra le cause appena menzionate, quelle interne sono senz’altro le più discusse, poiché l’art. 2484 c.c. presenta già un’enumerazione tassativa delle stesse, tra cui infatti ricordiamo il decremento del capitale sociale al di sotto della soglia del minimo legale, la prolungata inerzia dell’assemblea e il mancato funzionamento della società stessa.[59]
Tuttavia, è opportuno guardare alle stesse con un’interpretazione piuttosto elastica. Peraltro, il nostro ordinamento si basa attualmente sull’obbligo di tempestiva constatazione della causa di scioglimento.
Tale dovere grava sugli amministratori ed è una diretta conseguenza dell’obbligo di monitoraggio dell’attività d’impresa e di accertamento della capacità dell’ente di conseguire l’oggetto sociale.[60]
Come sappiamo, tale obbligo non può essere oggetto di contestazioni nel merito, in quanto gli amministratori risulteranno responsabili soltanto per l’eventuale violazione del dovere di diligenza.
Pertanto, gli errori di valutazione, che portino al mancato o erroneo accertamento, non comporteranno alcuna sanzione, a patto che però l’organo amministrativo abbia adoperato le nozioni tecniche opportune e agendo secondo la diligenza richiesta.[61]
Per indicare con estrema precisione quelle che sono le cause interne foriere dell’impossibilità relativa al conseguimento dell’oggetto sociale, è necessario addentrarsi nell’ampia sfera di ipotesi in cui vengano a mancare le basi patrimoniali dell’impresa societaria.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, all’insufficienza patrimoniale per un’infruttuosa gestione societaria,[62] o anche alle ingenti perdite che rendono il capitale sociale residuo insufficiente per conseguire l’oggetto sociale, sebbene non sia stato intaccato il minimo legale.[63]
Altri esempi calzanti sono i casi di sperequazione tra capitale di credito e di rischio o ancora le circostanze in cui manchino totalmente mezzi finanziari idonei.
Per quel che concerne le cause esterne invece, è utile richiamarne alcune per completare il quadro in questa sede delineato. Ricordiamo, in particolare, i provvedimenti di nazionalizzazione delle aziende oppure le revoche di concessioni amministrative. In tali circostanze mutano le prerogative societarie e dunque anche gestorie, senza che gli amministratori abbiano alcun potere per intervenire ed evitare l’impossibilità che ne consegue.
In conclusione, lo scioglimento della società derivante dall’impossibile conseguimento dell’oggetto sociale, oltre ad ottemperare all’obbligo di predisporre un piano di risanamento, esercita una funzione preventiva rispetto alla possibile condizione d’illiquidità dell’impresa, fermando la vita della stessa quando ancora non sia in pericolo l’interesse creditorio per una potenziale insolvibilità.[64]
1.2. Il dovere di risanamento
In prossimità di stati patologici più o meno avanzati viene in rilievo un ulteriore precipuo dovere giuridico in capo agli amministratori.
Si tratta del dovere di elaborare un piano di risanamento idoneo a restituire all’ente societario quelle risorse finanziarie utili e sufficienti per perseguire il fine di lucro senza discostarsi dalla diligenza necessaria, in modo da attuare l’oggetto sociale.[65]
Tale obbligo è previsto in funzione di una duplice tutela: diretta nei confronti delle pretese dei soci, indiretta verso quelle creditorie.
La finalità di tale dovere che subito salta all’occhio non è tanto quella di ottenere un profitto nell’immediato, quanto piuttosto quella di permettere un ripristino dello status quo ante finanziario e patrimoniale così da garantire una stabilità utile per perseguire lo scopo lucrativo.
Non a caso, infatti, ogni qual volta si manifestino elementi di squilibrio economico-finanziario, sorge la necessità d’intervenire con appositi rimedi correttivi, ovvero piani d’azione volti al risanamento dei debiti e al riequilibrio della condizione finanziaria.[66]
1.2.1. Le caratteristiche del piano di risanamento
Il piano di risanamento non è altro che un programma di gestione dello stato di crisi. Ha la funzione di riportare l’impresa in una condizione fisiologica di stabilità e continuità aziendale, tramite la predisposizione degli strumenti di risanamento necessari.[67]
I mezzi indicati dal piano per risalire la china devono naturalmente porsi in controtendenza rispetto a quelli originariamente ritenuti validi, visto e considerato lo stato patologico cui hanno portato l’impresa.
Qualora, infatti, gli amministratori espletassero una condotta gestoria analoga a quella fino a quel momento tenuta, vorrebbe dire comportarsi senza dar conto della nuova e peggiore condizione in cui si trova la compagine sociale.
Vi è dunque il dovere di adottare contromisure prudenziali adeguate, così da non violare il principio di corretta amministrazione,[68] al fine di raggiungere situazioni di stabilità in prima battuta, per poi mirare ad un profitto ingente e durevole.
Quanto alle caratteristiche di tale piano, innanzitutto possiamo trattare della sua estensione. Sebbene in taluni casi possa mostrarsi utile una ri-pianificazione totale dell’attività d’impresa, spesso può risultare eccessivo. Non di rado infatti, sono sufficienti interventi correttivi limitati e settoriali che integrino la programmazione originaria.[69]
Trattando invece il grado di analiticità, va detto che gli strumenti descritti nel piano devono essere individuati con dovizia di particolari.
Non è necessario che sia specificamente segnalato ogni atto da porre in essere, ma almeno bisogna che gli atti di primaria importanza, i pagamenti e le garanzie vengano opportunamente inseriti.
Qualora si proceda per linee generali le conseguenze potranno essere due: ottenere un piano per così dire “vuoto” che esoneri gli amministratori da ogni responsabilità ed ovviamente inadeguato a spiegare in concreto le misure che si vogliono prendere; produrre un piano dettagliato soltanto nel momento iniziale, descrivendo in modo generico le fasi a seguire in conformità a quanto previsto dalla teoria della c.d. pianificazione parallela.[70]
Inoltre, per quanto riguarda la forma del piano è necessario che ve ne sia un continuo adattamento all’evolversi delle condizioni dell’impresa, per cui l’organo amministrativo è tenuto ad effettuare valutazioni con una notevole frequenza.[71]
A livello contenutistico il piano può presentarsi vario ed atipico, tant’è che è possibile che persegua il risanamento dei debiti per il tramite della ristrutturazione, ma prescindendo dalla stessa per il ritorno all’equilibrio originario.
Tra l’altro, il medesimo risultato potrebbe essere raggiunto anche per mezzo dell’incremento di capitale, del ricorso a nuova finanza, con la dismissione dei cespiti aziendali non strategici, e così via dicendo.[72]
Altra connotazione del piano di risanamento è la sua imprescindibilità, deducibile già dal fatto che ogni istituto previsto dalla legge fallimentare, che abbia come obiettivo il superamento della crisi, prevede l’elaborazione di un apposito piano di riorganizzazione.[73]
Andando poi ad analizzare quella che è la struttura di tale programma, si può notare che consta di un duplice profilo: l’uno di carattere industriale, l’altro di tipo finanziario.
Più nel particolare, si articola in un piano industriale, in un conto economico ed in uno stato patrimoniale previsionali e in un rendiconto finanziario.
Esso deve illustrare i fattori di crisi, la condizione aziendale, le cause dello stato patologico, interne o esterne che siano, lo stato di liquidità e solvibilità della società.[74]
Tali caratteristiche, se rispettate, garantiscono tanto al giudice quanto ai creditori e ai possibili nuovi finanziatori un bagaglio d’informazioni molto ampio e nutrito, utile per conoscere dettagliatamente le soluzioni destinate a comporre la crisi incombente. Vi è quindi, seppur indirettamente, un’ulteriore esplicazione del dovere d’informazione nei confronti dei creditori.
Tra l’altro, la valenza informativa di tale piano assume maggior rigore se questo è attestato da un professionista qualificato ed indipendente, non influenzato dai cc.dd. perverse incentives, né tantomeno coinvolto soggettivamente come possono esserlo i soci o gli stessi amministratori.[75]
L’art. 67, comma terzo, lett. d della legge fallimentare dispone che non sono soggetti ad azione revocatoria i pagamenti, gli atti e le garanzie concesse sui beni del debitore, a patto che siano esecutivi di un piano adeguato al risanamento dell’esposizione debitoria e per assicurare il riequilibrio della condizione finanziaria.
Stabilisce, inoltre, che la fattibilità del programma e la veridicità di quanto in esso contenuto, debbano essere attestate da un professionista indipendente che risponda ai requisiti di cui all’art. 28, lett. a e b della medesima norma.[76]
Per concludere, è opportuno chiarire alcune questioni in relazione alla titolarità del dovere di risanamento, visti i diversi profili soggettivi che intervengono in tali circostanze.
Il piano di salvataggio è predisposto dall’imprenditore, che può essere assistito da un consulente o una società di consulenza. La figura del consulente non è tuttavia imposta ex lege, né è prevista dalla legge fallimentare. Si può quindi avere tanto un piano predisposto dalla struttura interna dell’impresa, quanto un piano elaborato da un consulente. In ogni caso, l’adozione dello stesso deve essere deliberata dall’organo amministrativo, che se ne assume sempre la responsabilità.
Diversamente dal consulente, il professionista che attesta il piano, ha un ruolo necessario e il suo intervento è essenziale ai fini della tutela dei terzi. Attesta, infatti, che il piano appaia realizzabile e idoneo a superare la situazione di crisi, permettendo l’integrale soddisfazione dei creditori che non si siano diversamente accordati con l’imprenditore.[77]
1.2.2. Presupposti oggettivi e funzione preventiva
Nel disquisire dei presupposti del piano di risanamento, bisogna partire sicuramente dalla sua natura strettamente negoziale,[78] per cui esso è fondato su un accordo con i creditori principali.
Tuttavia, secondo buona parte della dottrina, il carattere negoziale non implica necessariamente che esso consista in un contratto. Non a caso, è affermato che la struttura unilaterale del piano resta intatta, anche qualora lo stesso presenti i tratti delle pattuizioni che l’imprenditore vuole siglare. Si deve parlare dunque, a onor del vero, di un negozio normativo unilaterale a contenuto patrimoniale.[79]
In direzione contraria si pone un’altra branca della dottrina, asserendo che il piano possa rilevare in sé per sé, escludendolo dalla schiera degli strumenti di soluzione negoziale della crisi.[80] In tal senso, esso non è un accordo, né tanto meno presuppone necessariamente un accordo, bensì è un atto unilaterale che non richiede l’intervento dei creditori necessariamente né nella fase costitutiva né in quella decisionale.
Pertanto sarebbe arbitrario attribuirgli la qualifica di negozio e dunque un contenuto volitivo o dispositivo.[81] Non sarebbe, quindi, né un negozio né una procedura, ma un mero atto gestorio.
Dal punto di vista funzionale, il piano non ha mire liquidatorie, ma soltanto di gestione e continuità aziendale sufficienti al superamento della crisi, senza che dunque possa essere proposto da imprese in liquidazione.[82]
Lo scopo tipico del piano è riprodurre l’equilibrio finanziario dell’impresa,[83]non solo ripristinando la capacità di produrre redditività, ma anche adempiendo tutti i debiti contratti entro le scadenze prestabilite e in via integrale.
Quanto alla finalità di prevenzione del piano, va detto che tale strumento è nella disponibilità del debitore anche in presenza di una mera difficoltà o di un semplice rischio di crisi o insolvenza. Così, l’ambito applicativo di tale istituto risulta particolarmente ampliato, potendo infatti intervenire per scopi preventivi quando ancora la crisi non è emersa, ma sussistono indici rilevatori della sua imminenza.[84]
1.2.3. Business judgment rule e discrezionalità gradatamente vincolata nel risanamento della crisi pre-concorsuale
La discrezionalità gestoria può subire alcune variazioni, in negativo se ci si trova in prossimità della crisi. La libertà operativa degli amministratori, infatti, in ragione della crisi pre-concorsuale, potrebbe incontrare alcune limitazioni.
Ciò che determina tale graduazione è la commistione dello stato patologico, della condizione della società e del mercato in cui opera.
Pertanto, i margini di discrezionalità entro cui possono muoversi gli amministratori sono determinati a seguito di valutazioni contingenti che derivano dai test di risanabilità e di coerenza logica.
Di conseguenza, la discrezionalità è gradatamente vincolata agli esiti di tali verifiche, che fanno parte del c.d. “dato concreto”.[85]
Quando l’organo amministrativo agisce nel rispetto di quanto disposto ex lege, ma anche in conformità alle regole statutarie e alle decisioni assembleari e soprattutto quando contestualmente i test su menzionati producono risultanze positive, sarà applicabile la BJR.
1.2.4. Continuazione dell’impresa e rischio “ragionevole”: finalità conservative
Il rischio d’impresa deve essere gestito dagli amministratori con riguardo ad alcuni appositi limiti e modalità, così da non acuire il pericolo di fenomeni di overinvestment o underinvestment.[86]
Perché si evitino tali circostanze potenzialmente dannose, è importante richiamare uno dei vincoli della discrezionalità gestoria, ovvero la finalità conservativa delle condotte degli amministratori, imposte come veri e propri obblighi, e non come mere facoltà.
Tale dovere implica che, in occasione della fase crepuscolare dell’impresa, si preservi il patrimonio della stessa al posto di valorizzarlo. Si cerca quella perduta stabilità finanziaria, per cui il patrimonio non è soggetto né ad aumenti né a decrementi.[87]
Con la riforma del 2003, il novellato art. 2486, comma primo, c.c. non prevede più il divieto di nuove operazioni. Allo stesso modo, poi, vincola le condotte gestorie a fini conservativi. Pertanto, si vieta un’attività diretta alla continuazione dell’impresa, ammettendo soltanto il compimento di atti che facilitino la liquidazione.[88]
Peraltro, sempre nell’ottica della graduazione degli interessi nell’ambito della crisi pre-concorsuale, è opportuno discutere del c.d. “rischio ragionevole”, idoneo per risanare le condizioni economico-finanziarie dell’impresa.
Esso inibisce l’incentivo all’overinvestment, ovvero quell’eccessivo aumento della propensione al rischio rispetto agli standard fisiologici dell’impresa.[89]
Nel caso in cui, però, la condotta degli amministratori ecceda i limiti del parametro di ragionevolezza,[90] alla stessa non verrà applicata la Business Judgment Rule.
Affinché si parli di rischio ragionevole a tutti gli effetti, evitando così che sorga responsabilità in capo a coloro che ne abbiano causato l’assunzione, serve un’accurata analisi della concreta situazione dell’impresa e soprattutto una ponderazione dell’inclinazione al rischio in base allo stato in cui versi la società.
[1] Lolli A., Situazione finanziaria e responsabilità nella governance della s.p.a., Giuffrè, Milano, 2009, 97 ss.
[2] Strampelli G., Capitale sociale e struttura finanziaria della società in crisi, in Riv. Soc., 2012, 617 ss.
[3] Pacileo F., Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, Giuffrè, 2017, 367.
[4] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 136.
[5] Galletti D., La trasformazione dell’impresa ad opera dell’organo amministrativo, in Riv. dir. comm., 2003, I, 674.
[6] Guerrera F., Le competenze degli organi sociali nelle procedure negoziali di regolazione della crisi, in Riv. soc., 2013, 1119.
[7] Ferro M., Il piano attestato di risanamento, in Fallimento, 2005, 1356 ss.
[8] Trib. Milano, 10.11.2009, in Corr. giur., 2010, 109.
[9] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 141.
[10] Nigro A., “Principio” di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2013, I, 476.
[11] Sacchi R., La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014, 311.
[12] Miola M., Riduzione e perdita del capitale di società in crisi: l’art. 182 sexies l. fall. – Parte prima: Profili applicativi e sistematici, in Riv. dir. civ., 2014, 186.
[13] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 146.
[14] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 147.
[15] Pinto V., Brevi osservazioni in tema di deliberazioni assembleari e gestione dell’impresa nella società per azioni, in Riv. dir. impr., 2004, 446.
[16] Nieddu Arrica F., Finanziamento e sostenibilità dell’indebitamento dell’impresa in crisi, in Giur. comm., 2013, I, 818.
[17] Abbadessa P. e Mirone A., Le competenze dell’assemblea nelle s.p.a., in Riv. soc., 2010, 288.
[18] Miola M., La tutela del creditore e il capitale sociale: realtà e prospettive, in Rivista delle Società, 2012, 275-277.
[19] Strampelli G., Distribuzioni ai soci e tutela dei creditori. L’effetto degli IAS/IFRS, Giappichelli, Torino, 2009, 126.
[20] § 26 IAS 1 (International accounting standard).
[21] Fumagalli G., Il “solvency test” nel U.S. Bankruptcy Code, 2017, tratto da www.riablog.it
[22] Angelici C., Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 691.
[23] Cordopatri M., La Business Judgment Rule in Italia e il privilegio amministrativo: recenti correttivi negli USA e in Europa, in Giur. comm., 2010, 129.
[24] Verrà dunque valutato se gli amministratori abbiano svolto le proprie mansioni nel rispetto dell’obbligo di diligenza, commisurata alla natura dell’incarico e alle loro competenze. Non avrà invece alcun peso l’eventuale risultato positivo cui abbia condotto la loro attività.
Si veda in giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 12.8.2009, n. 8231, pronuncia in cui la Corte analizza i rapporti tra il canone di diligenza e la regola dell’insindacabilità delle scelte gestionali discrezionali.
Si legge, infatti, che: <<se è vero, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente – se necesssario, con adeguata istruttoria – i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili>>.
[25] Trib. Milano, 2.5.2007, in Corr. merito, 2007, 116.
[26] Bonelli F., Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 364.
[27] De Nicola A., in Marchetti P. – Bianchi L.A. – Ghezzi F. – Notari M. (a cura di), Commentario alla riforma delle società, Giuffrè-Egea, Milano, 2008, 558.
[28] Marchetti C., La responsabilità degli amministratori nelle società di capitali, Giappichelli, Torino, 2015, 12.
[29] Colombo G.E. e Portale G.B. (diretto da), Trattato delle società per azioni, vol. IV, Utet, Torino, 1991, 365.
[30] Trib. Milano, 2.5.2007, in Corr. merito, 2007, 116.
[31] Trib. Milano, 24.8.2011, in Riv. dir. soc., 2011, 1068 – Si intende per “buona fede” la condotta tenuta in assenza di interessi personali ed influenze esterne.
[32] La giurisprudenza qualifica l’irragionevolezza come abuse of discretion, ovvero un eccesso di discrezionalità. (Cfr. Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 153, nota 244.)
[33] Ritenere ex post che un determinato risultato fosse in realtà prevedibile e dunque evitabile.
[34] Trib. Palermo, 13.3.2008, in Giur. comm., 2010, 121 – In tale sentenza si legge in particolare che: <<la giurisprudenza è unanime nel riconoscere l’applicabilità del principio del business judgment: in tutte le decisioni che si occupano, più o meno direttamente, della diligenza si trova enunciato, infatti, che: deliberata e promossa l’azione di responsabilità contro gli amministratori, a norma dell’art. 2393 c.c., il giudice non può fondare il suo giudizio su un diverso apprezzamento discrezionale dell’opportunità dei singoli atti dai medesimi compiuti. In effetti il giudice non può sindacare il merito degli atti e dei fatti compiuti dagli amministratori, o meglio non può giudicare sulla base di criteri discrezionali di opportunità e convenienza […] il giudice deve accertare e valutare il comportamento degli amministratori in base ai principi generali che regolano gli inadempimenti contrattuali e il risarcimento dei danni. Di conseguenza, egli deve accertare (nei limiti delle domande proposte dalle parti) se e quali inadempienze siano imputabili agli amministratori, in relazione ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo.>>
[35] Cass. civ., n°5718/2004, in Riv. not., 2004, 1571. Si veda anche, in conformità a quest’ultima, la più recente pronuncia: Cass. civ., sez. I, 5.3.2014, n° 5105.
[36] Sacchi R., La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014, 112.
[37] Sacchi R., La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014,138.
[38] Montalenti P., Amministrazione e controllo nella società per azioni: riflessioni sistematiche e proposte di riforma, in Riv. soc., 2013, 51.
[39] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 159.
[40] La valutazione in questione avrà ad oggetto i costi fissi, il rapporto col mercato di riferimento e l’attrazione delle risorse utili per perseguire il risanamento prefissato come obiettivo.
[41] Guatri L., Turnaround, Declino, crisi e ritorno al valore, EGEA, Milano, 1995, 155 ss.
[42] Nieddu Arrica F., Finanziamento e sostenibilità dell’indebitamento dell’impresa in crisi, in Giur. comm., 2013, I, 823.
[43] Cincotti C. – Nieddu Arrica F., Continuità aziendale, capitale e debito. La gestione del risanamento nelle procedure di concordato preventivo, paper presentato nel corso del IV Convegno Commerciale “Impresa e mercato tra liberalizzazioni e regole”, 2013, 1266.
[44] Brizzi F., Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli editore, Torino, 2015, 369.
[45] È essenziale, perché le decisioni degli amministratori non siano contestate nel merito, che questi risultino disinteressati, in buona fede e diligenti nell’apprendere le informazioni utili. [Cfr. Brehm v. Eisner, 746 A.2d 244 (Del. Sup. 2000)].
[46] Nella giurisprudenza italiana i due concetti risultano spesso sovrapposti. (Cfr. Tina A., L’esonero da responsabilità degli amministratori di S.p.A., Milano, 2008, 69 ss.).
[47] Brizzi F., Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli editore, Torino, 2015, 377.
[48] Indirettamente, con tale illegittimità, si produce una violazione del dovere gestorio di perseguire l’interesse sociale, in quanto ogni scelta deve essere adottata dagli amministratori in funzione dello stesso.
[49] Rossi A., Art. 2392, in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, vol. I, Cedam, Padova, 2005, 798.
[50] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 162.
[51] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 170.
[52] Bavetta C., Le cause di scioglimento delle società di capitali, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, Torino, 2012, 224.
[53] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 176.
[54] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 179.
[55] Calandra Buonaura V., La gestione societaria dell’impresa in crisi, in Società, banche e crisi d’impresa – Liber amicorum Abbadessa P., III, 2014, 2598.
[56] Calandra Buonaura V., La gestione societaria dell’impresa in crisi, in Società, banche e crisi d’impresa – Liber amicorum Abbadessa P., III, 2014, 2597.
[57] Portale G.B., Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Tratt. delle soc. per az., diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, I, Torino, 2004, 71.
[58] Montagnani C., Crisi dell’impresa e impossibilità dell’oggetto sociale, in Riv. dir. comm., 2013, I, 245 ss.
[59] Brizzi F., Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli editore, Torino, 2015, 281.
[60] Boggio L., Gli accordi di salvataggio delle imprese in crisi. Ricostruzione di una disciplina, Giuffrè, Milano, 2007, 350.
[61] In caso di omesso accertamento, inoltre, è ammesso che i soggetti interessati, quali sono gli amministratori, i soci ed i sindaci, possano adire il tribunale perché provveda in via sussidiaria al mancato accertamento gestorio. Per tale via s’instaura un procedimento di giurisdizione volontaria con esito non decisorio, così da non precludere un successivo giudizio ordinario. (Cfr. Cottino G., Diritto societario, Cedam, Padova, 2011, 175 ss.)
[62] Ferri G., Le società, in Trattato di diritto civile italiano, fondato da Vassalli, vol. X, t. III, Utet, Torino, 1987, 307.
[63] Brizzi F., Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli editore, Torino, 2015, 285.
[64] Galletti D., L’insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, 2012, tratto da www.ilfallimentarista.it.
[65] Brizzi F., Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Giappichelli editore, Torino, 2015, 215.
[66] Per fare quanto prefissato è fondamentale ricorrere alle c.d. best practices, cioè le migliori prassi professionali per la stesura dei business plan. Tra queste, nel contesto delle azioni finanziarie, possiamo citare sicuramente l’ottimizzazione del capitale circolante, la riduzione dell’indebitamento e il riequilibrio della situazione finanziaria. (Cfr. Ranalli R., La scelta dello strumento di risanamento della crisi aziendale, in Fallimento, 2012, 501 ss.)
[67] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 186.
[68] Mazzoni A., La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendale, in Aa. Vv., Amministrazione e controllo nel diritto delle società – Liber Amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, 840.
[69] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 187.
[70] Bastia P., Sistemi di pianificazione e controllo, Bologna, 2008, 115 ss.
[71]Galletti D., L’insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, 2012, 26, tratto da www.ilfallimentarista.it.
[72] De Matteis S., L’emersione anticipata della crisi d’impresa. Modelli attuali e prospettive di sviluppo, Giuffrè, 2017, 147.
[73] Pacileo F., Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, Giuffrè, 2017, 410.
[74] Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi, CNDCEC, tratto da www.cndcec.it
[75] La funzione dell’attestatore è quella di garantire la veridicità e fattibilità del piano, soprattutto in relazione agli interessi creditori.
[76] De Matteis S., L’emersione anticipata della crisi d’impresa. Modelli attuali e prospettive di sviluppo, Giuffrè, 2017, 147.
[77] Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi, CNDCEC, tratto da www.cndcec.it
[78] Abete L., Le vie negoziali per la soluzione della crisi d’impresa, in Fallimento, 2007, 623.
[79] Abete L., La predisposizione del piano attestato e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fallimento, 2014, 1009.
[80] De Matteis S., L’emersione anticipata della crisi d’impresa. Modelli attuali e prospettive di sviluppo, Giuffrè, 2017, 149, nota 59.
[81] Trentini C., Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, IPSOA, 2016, 7.
[82] Trentini C., Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, IPSOA, 2016,21 – in senso opposto.
[83] Una recente pronuncia (Cass. civ., 5.7.2016, n°13719) ha affermato che il giudice deve valutare ex ante la manifesta adeguatezza del piano per il risanamento dei debiti societari e per garantire il riequilibrio della situazione finanziaria.
[84] De Matteis S., L’emersione anticipata della crisi d’impresa. Modelli attuali e prospettive di sviluppo, Giuffrè, 2017, 151-152.
[85] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 165.
[86] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 190.
[87] Ferri G. jr., La gestione di società in liquidazione, in Riv. dir. comm., I, 2003, 424.
[88] Aiello M., La liquidazione delle società di capitali, in Aiello, Cavaliere, Cavanna, Cerrato e Sarale, Le operazioni societarie straordinarie, Padova, 2011, 165.
[89] Luciano A., La gestione della S.p.A. nella crisi pre-concorsuale, Giuffrè editore, Milano, 2016, 199.
[90] Perché ve ne sia una violazione, è sufficiente che non sussista, neppure in via astratta, l’idoneità dei mezzi predisposti per il risanamento, o che la disamina dei fini cui tende l’azione gestoria abbia esito negativo.
Praticante Avvocato presso lo Studio legale BonelliErede. Dopo essersi laureato con lode all’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha conseguito un LLM in Banking, Corporate, and Finance Law presso la Fordham University School of Law di New York, e collabora dal 2020 con il dipartimento di Società e Finanza di Milano occupandosi di operazioni societarie straordinarie, venture capital, private equity, nonché contrattualistica commerciale e consulenza societaria. Collabora poi con la rivista giuridica Ius in itinere dal 2019 come vice-direttore del dipartimento di diritto societario ed è co-autore del Manuale “Società Commerciali” (Gruppo24Ore) con oltre 50 professionisti dello Studio BonelliErede.