giovedì, Aprile 18, 2024
Di Robusta Costituzione

Il blocco dei social di Trump e la libertà di espressione online

1. Introduzione

Il blocco dei social di Trump è già un fatto senza precedenti, come molti degli avvenimenti del sei gennaio 2021: centinaia di sostenitori dell’ormai ex Presidente statunitense hanno assaltato il Palazzo del Congresso a Washington D.C. mentre era in corso la seduta congiunta delle due Camere per certificare il risultato dell’elezione di Joe Biden[1]. Sebbene le maggiori testate giornalistiche ed agenzie di stampa seguissero con stupore e preoccupazione il susseguirsi caotico degli eventi, il vero spettacolo andava in onda sui social network. Tweet, retweet, post, storie: ogni angolo del pianeta è stato raggiunto dalle immagini dell’attacco a Capitol Hill.

Sostenuti e alimentati dallo stesso Presidente uscente[2], i componenti di questa folla pittoresca[3], avallando ragioni più o meno bizzarre[4], hanno attaccato uno dei simboli della democrazia americana dopo essersi dati appuntamento via social nei giorni precedenti[5]. Ebbene, proprio nei quartieri generali delle maggiori piattaforme si è svolta la vera rivoluzione: mentre si gridava al complotto dai verdi prati della democrazia americana, Twitter e Facebook[6] (ma non solo) hanno bloccato gli account del Presidente Trump. Egli[7], difatti, anche a seguito dell’invito da parte di Joe Biden[8] di prendere posizione circa i fatti gravissimi che stavano avvenendo in quel momento a pochi passi dalla Casa Bianca, è intervenuto con un video diffuso online alquanto particolare: Trump, da una parte, ha invitato i suoi sostenitori a ritirarsi, dall’altra, ha mostrato vicinanza e riconoscenza per quanto fatto, non mancando di ricordare come, a suo parere, le elezioni siano state truccate in modo fraudolento e come egli sia stato vittima di un complotto.

Le piattaforme decidono, dunque, prima di rimuovere il video dell’ex Presidente e poi di bloccarlo sine die. Questa posizione, da alcuni criticata, da altri sostenuta, fa emergere numerose domande dal punto di vista sociale e giuridico: l’assalto a Capitol Hill ha visto come suo speculare contraltare l’assalto che si è perpetrato via social network, da tempo preda di fenomeni quali fake news[9] ed esasperazione della disinformazione. Gli stessi social che hanno consacrato la sua ascesa, il sei gennaio sono stati veicoli tutt’altro che passivi della violenza verbale, e non solo, divenuta oramai parte del dibattito politico, gravemente influenzando l’esercizio di quei diritti che sono alla base delle società democratiche: uno su tutti, la libertà di espressione.

Se da una parte le piattaforme hanno contribuito a dare linfa allo scambio di idee, al confronto e all’accesso sempre più rapido all’informazione, dall’altro hanno polarizzato il dibattito attraverso il pericoloso dilagare di notizie false, titoli da click bait[10], hate speech[11], bolle filtro[12]. Tutto questo ha permesso la creazione di un contesto digitale di sostanziale opacità, ove i confini tra pubblico e privato sono sempre più labili, ove il potere e il suo esercizio non è più una mera prerogativa del primo, a scapito di un accentramento sempre più preponderante nelle mani digitali del secondo. Il blocco del Pres. Trump dai social network è un caso che farà scuola. Un precedente che viene assunto in questa sede come pretesto per esaminare il grande potere delle piattaforme e per chiederci in che modo la libertà di espressione si estrinseca nel contesto digitale, soprattutto alla luce dei recenti avvenimenti.

2. Trump e i social: un rapporto caratterizzato da odi et amo. Dall’ordine esecutivo al ban

Olivia Solovon[13], famosa giornalista di questioni tech, scrisse un articolo sul Guardian nel 2016 nel quale metteva in relazione la vittoria delle elezioni di Trump con la pericolosa crescita della divulgazione di fake news online. Affermare che l’ex Presidente sia la panacea di tutti i mali online è sicuramente errato, riduttivo e fuorviante. Tuttavia, è da evidenziare come l’atteggiamento e l’utilizzo che egli ha fatto prima e durante la sua Presidenza ha contribuito ad un’evoluzione dell’impiego dei mezzi di comunicazione politici forniti da piattaforme quali Facebook e Twitter. Merita un focus particolare quest’ultimo.

La “relazione” di Trump con il social di Jack Dorsey si contraddistingue per un rapporto di amore e odio[14]. Per quanto concerne l’amore, si conta che il numero dei tweet da egli postati prima della sospensione dell’account è pari a 46,919[15]. Per quanto riguarda, invece, i dissapori, occorre volgere lo sguardo ad un’altra vicenda.

Il 26 maggio 2020 l’allora Presidente americano pubblicò dei tweet in risposta al governatore della California riguardanti le modalità di voto. Questi sono stati oggetto di controllo da parte della piattaforma e segnalati con dei banner recanti la scritta “get the facts about mail-in ballots”[16]. Tale controllo da parte di Twitter è stato interpretato dal Presidente come una censura perpetrata a suo danno. L’indignazione si è concretizzata nell’adozione di un ordine governativo che aveva lo scopo di prevenire la censura online e con il quale si annunciava il progetto di emendare la normativa che da venticinque anni regola la presenza e l’autonomia delle piattaforme online: la sezione 230 del Communications Decency Act[17]del 1996[18]. La norma in questione rappresenta la chiave di volta dell’intero dialogo sul ruolo delle piattaforme online. Fonte di rango federale, prevede una generale immunità per siti, blog, forum online, rispetto ai contenuti caricati dagli utenti[19]. In sostanza, i cosiddetti intermediari online[20] che ospitano o ri-pubblicano contenuti di vario genere sono protetti dall’applicazione di una serie di norme che altrimenti li renderebbe responsabili per quanto altri, gli utenti, hanno detto o fatto presso i loro spazi virtuali.

Con l’ordine del maggio scorso, dunque, Trump voleva sfidare le disposizioni contenute del CDA e la generale immunità di cui le piattaforme godono. Come sottolineano anche alcuni commentatori[21], oltre a testimoniare quelle tensioni sociali e giuridiche che afferiscono allo scontro di poteri tra pubblico e privato il cui climax si è raggiunto a gennaio, mettendo in discussione il sistema del CDA, Trump ha riconosciuto il grande potere in mano agli intermediari americani nel controllare il discorso pubblico online. Lo stesso potere che, senza appello, lo ha bannato dai social network qualche mese dopo. Di tutta questa vicenda, occorre, dunque, chiarire che portata abbia tale potere e come sia stato possibile che il Presidente di un paese che è considerato tra i più potenti al mondo sia dovuto sottostare alle regole e alle policy di piattaforme private. Il problema non è solamente regalato al bilanciamento tra libertà di espressione e censura, ma penetra in profondità, inserendosi all’interno delle questioni relative alla sovranità e all’esercizio dei poteri.

Che vi sia un problema normativo è fuor di dubbio, dato che tale immenso potere, che si estrinseca a livello globale, è regolamentato da una norma che afferisce a un mondo in cui i providers non erano i palcoscenici su cui avvenivano i principali momenti della democrazia. Siamo spettatori di una tensione tra digitale e reale, tra pubblico e privato, che, a ben vedere, non riguarda solamente l’America ma ha echi mondiali. Difatti, in un mondo provato dalla pandemia, il digitale è divenuto sempre più lo spazio ove, parafrasando l’art. 2 della Costituzione Italiana, si svolge la personalità di ogni individuo.

Contraltare quasi paradossale della vicenda Trumpiana, ma sentore della centralità di cui si sta dicendo, è il blocco di cui è vittima un’intera popolazione[22]: in Birmania, i militari, autori di un colpo di stato, hanno ordinato ai network di telefonia mobile di bloccare l’accesso a Facebook in quanto il mezzo attraverso il quale i cittadini stavano protestando contro il colpo postando simboli della resistenza. Bloccare il discorso, le critiche e il confronto politico attraverso l’oscuramento di un social non significa solamente togliere l’accesso ad una piattaforma privata, ma contiene in nuce una sostanziale privazione di diritti fondamentali, come si vedrà in seguito.

Non volendo in alcun modo paragonare il blocco dei social di Trump a quanto sta accadendo in Birmania, questi due episodi devono essere i casus belli per trattare della ben più ampia tematica della moderazione dei contenuti online e della libertà di espressione. Alla luce di questi eventi occorre riflettere sul ruolo che questi providers hanno assunto nello spazio digitale (e non solo) e come i fragili equilibri della sovranità siano messi in discussione nel mondo dei bits[23].

3. Profili di costituzionalità

Si è visto come il CDA non allochi un obbligo di monitoraggio in capo alle piattaforme. In assenza di un obbligo di controllo, è chiaro che ogni soggetto privato ha attagliato i propri terms and conditions al modello di business maggiormente performante. Sulla scorta di questa considerazione, si potrebbe, dunque, sostenere che essendo questi dei soggetti privati abbiano tutto il diritto di delineare regole e policies adatte ai loro interessi. Questo potrebbe essere vero se le piattaforme fossero effettivamente dei meri attori privati, i quali, varcata la loro soglia di interesse, non hanno alcun tipo di influenza sul piano pubblico. Già dalle battute conclusive del precedente paragrafo, si è visto come il loro ruolo esula la mera conduzione di un’iniziativa economica. In questo paragrafo, a partire da una breve considerazione su cosa sia Internet e come possiamo qualificare tale spazio, si andrà ad indagare il vero ruolo di questi intermediari, per poi tornare a considerare la vicenda Trump, alla luce dei diritti fondamentali in gioco. Distanziandosi dalle domande di chi si chiede se queste piattaforme hanno o non hanno fatto bene, c’è piuttosto da domandarsi: sulla base di quale legittimazione hanno esercitato un tale potere?

3.1 Di cosa parliamo quando parliamo di Internet

Cyberspace transcends territorial space not merely in enabling inter-territorial interaction but by making territoriality irrelevant in interactions[24]”.

Esistono moltissime definizioni di Internet. Talune, mettono in rilevanza i suoi aspetti tecnici; altre, quelli sociali o culturali. Altre ancora, quelli economici. Ciò che resta insondato è, tuttavia, chi controlla quello spazio e, in definitiva, chi è sovrano. Internet è uno spazio di tutti e di nessuno, preda dell’avvenirismo di quelli che nel nostro tempo sono divenuti colossi digitali: i “guardiani di agorà digitali[25] come sono stati efficacemente definiti dal Prof. Pollicino. La loro influenza si avvicina di più a quella di uno Stato che di una semplice impresa privata, appropriandosi di spazi ed amministrandoli con regole proprie. Tutto ciò sta ridisegnando i confini dei poteri ma anche la natura stessa di Internet. Se ai suoi albori poteva essere considerato un non-spazio[26] non collegato a nessun Stato[27], attualmente queste descrizioni non sembrano più rappresentarlo in maniera esaustiva.

Frank Pasquale, nel noto libro “The Black Box Society” afferma, con riferimento alle piattaforme: “they were private companies, but they controlled vital resources and enjoyed a power similar to that of a public authority[28]. Controllando, dunque, l’immenso flusso di dati ed informazioni che varcano le porte del cyber spazio, esse sono in grado di esercitare un potere che nulla ha a che vedere con la natura prettamente privatistica. L’informazione così come arriva all’utente non è il risultato di un viaggio neutro bensì il prodotto ultimo di una raffinata raccolta di dati in input e output volta a ottenere, aggregare ed analizzare i suoi comportamenti futuri[29]. Egli non è parte della scelta ma è tenuto (quasi[30]) all’oscuro di questo meccanismo e dei criteri che vengono seguiti per ottenere tali risultati.

Un potere autoritativo che è stato definitivamente smascherato proprio nel bloccare Trump e ha mostrato fino a che punto queste aziende possono spingersi, determinando chi, come, quando e perché del mondo online. Sono aziende private con un potere immenso che, tramite la raccolta di dati ed informazioni, contribuisce a creare un nuovo sistema economico denominato da una parte della dottrina “capitalismo della sorveglianza[31]”. Grazie, dunque, alle risorse di raccolta ed elaborazione di quella miniera rappresentata dai dati, queste big companies hanno costruito un business basato su conoscenza e potere[32] che esercitano nello spazio internettiano.

In un mondo, dunque, in cui Facebook definisce chi siamo, Amazon cosa voglia e Google cosa pensiamo[33], una domanda emerge su tutte: di chi è Internet? Perché se ammettiamo che è uno spazio pubblico ove le piattaforme, esattamente come gli altri utenti, agiscono e svolgono un ruolo di intermediari tra due o più parti del mercato, come si può giustificare questo ruolo sovrano che amministra in maniera sostanziale ciò che accade online?

In definitiva, Internet, se non è controllato da nessuno Stato, è una res nullius oppure una res communes omnium? La risposta a questa domanda è tutt’altro che semplice ed il filosofo Floridi[34] argomenta nella direzione della seconda accezione affermando che Internet dovrebbe essere considerato come un commons. Un concetto imprestato dai sistemi giuridici anglosassoni che richiama l’idea di “uno spazio relazionale condiviso e comune[35]”. Divenendo il posto in cui si estrinseca la gran parte della vita di ogni individuo, soprattutto alla luce dell’emergenza pandemica, è necessario ripartire non solo dalla responsabilità dei providers, ma, volgendo lo sguardo alla luna e non al dito, soprattutto, riconsiderare le radici del problema e la natura stessa di Internet.

Le aziende che hanno sospeso Trump sono le medesime che gli hanno permesso di pubblicare quasi cinquanta mila tweet, di contribuire al bagaglio di disinformazione di un intero Stato. Le stesse che muniscono di megafono e pubblico i demagoghi moderni[36]. Nella circostanza in esame hanno preso una posizione condivisibile ma, come è chiaro, non è possibile relegare la questione a una decisione giusta o sbagliata di una azienda.  Il rischio più grande ed immediato è quello per cui, in mancanza di una regolazione dello spazio online che tenga conto delle problematiche connesse all’esercizio della sovranità digitale, i vuoti lasciati dall’in-attivismo normativo vengano riempiti dai privati, appropriandosi sempre di più di potere, controllo ed informazione.

4. Privatizzazione dei diritti fondamentali: tra espressione e censura

Ciò che la vicenda Trump ha mostrato in modo lampante è il potere immenso di queste piattaforme, come si è detto. Un potere che esercitano senza attendere alcuna legittimazione esterna. Come evidenziano Pollicino e De Gregorio[37], il codice su cui tale manifestazione di potere si basa sono i termini e condizioni e le cosiddette community guidelines che hanno il compito di regolamentare cosa accade all’interno della piattaforma. Questi strumenti pur non trovando un loro spazio all’interno della piramide delle fonti del diritto[38], hanno, tuttavia, acquisito un peso quasi-normativo[39] consentendo alle piattaforme di essere al contempo legislatori, esecutori e giudici dello spazio digitale. Tutto ciò non si manifesta, dunque, solamente nel contesto della moderazione dei contenuti ma anche nell’affermazione positiva dei diritti fondamentali degli utenti che popolano la piattaforma. Se nel precedente paragrafo si è visto come il rapporto tra pubblico e privato sia sempre più fragile, anche a causa di una non chiara identificazione e qualificazione di Internet stesso, in questa sede si dovrà considerare la conseguenza di questo squilibrio in merito all’estrinsecazione della sovranità digitale: la garanzia e la tutela dei diritti fondamentali da parte dei privati[40].

Il punto non è condannare questa o quella piattaforma per essersi dotata di regole, quanto capire come queste regole stiano superando il loro ambito di competenza, dispiegando degli effetti di carattere pubblicistico e non meramente privatistico, influendo nell’amministrazione di fatto di uno spazio da loro non detenuto.

Tale fenomeno è quanto mai marcato nell’ambito della moderazione dei contenuti online ove sono proprio le piattaforme, e non un’autorità pubblica, ad agire e prendere decisioni, come nel caso di specie. La problematica è descritta dal Prof. Bassini[41] con l’efficace espressione “privatizzazione dei diritti fondamentali” e si riferisce a scenari in cui le piattaforme sono chiamate ad essere amministratori dei diritti degli individui. Il loro atteggiamento si realizza, tuttavia, in condotte in negativo che, per timore di effetti secondari, tendono a rimuovere: le piattaforme, dunque, si trovano a divenire delle courthouse[42] autonome e indipendenti. Oltre a una problematica di sovranità e di enforcement dei diritti, emerge un aspetto: quello della auto-censura. Intervenire per prevenire e per non mettere in crisi la propria attività d’impresa: una “collateral censorhip” come la definisce Balkin[43]. La privacy non è il solo diritto che viene in gioco in questo contesto ma, adottando una definizione già cara a Rodotà[44], essa esprime un insieme di diritti che online sono messi a rischio. Uno su tutti, nonché l’oggetto dalla nostra indagine, la libertà di espressione.

4.1 Libertà di espressione online: “a transatlantic clash[45]tra America e Europa

Protetta in senso verticale (dal pubblico verso il privato) dal Primo Emendamento[46], riconosciuta come diritto umano dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la libertà di espressione è la linfa di ogni democrazia. Internet ha rappresentato, ai suoi albori, lo strumento perfetto per poter garantire la creazione di uno spazio di confronto: lo simboleggiano, ad esempio, i primi forum online[47]. L’inimmaginabile aumento di traffico, l’incremento di dati, l’evoluzione tecnologica, hanno reso Internet uno spazio completamente diverso. Il Pres. Clinton all’alba del nuovo millennio affermò che limitare la libertà di espressione online equivaleva a incollare della gelatina al muro[48]: una cosa impossibile.

Nel secolo della sorveglianza capitalistica[49], la gelatina si sta attaccando al muro sempre di più, se pensiamo a nuove e vecchie forme di censura e blocco, come la menzionata esperienza birmana. In un contesto in evoluzione, la libertà di espressione resta un capo saldo da garantire il più possibile. Tale concetto è richiamato anche in storiche pronunce della Corte Suprema, come ad esempio la New York Time v. Sullivan[50], ove un caso di diffamazione è stato deciso nel senso che se l’attore è una pubblica autorità deve essere provata il dolo: la actual malice. Con la conseguenza che la controparte sarà esente da responsabilità sia nel caso in cui la risulti essere falsa sia nel caso in cui non abbia verificato la sua aderenza alla verità.

La visione americana della libertà di espressione online è arroccata non solo sul First Amendment ma anche sul concetto di “free marketplace of ideas”. Questa metafora, utilizzata per la prima volta dal giudice Holmes nella sua dissenting opinion afferente ad una decisione della Corte Suprema[51] relativa alla divulgazione di idee contrarie alla guerra, racchiude il significato di libera circolazione delle idee: perfino le peggiori e le false dovrebbero essere ammesse nel discorso pubblico, con la speranza che le migliori prevalgano. Come? Sulla base delle scelte dei singoli. Questa metafora richiama le regole del mercato tradizionale delle cose fisiche: come i migliori prodotti mergono su quelli più scarsi, così le idee hanno la possibilità di competere con le altre lasciando emergere le migliori. Una scelta che vede come soggetto attivo il consumatore del prodotto o dell’idea. Nel contesto di internet tale metafora non può essere più applicata, anzitutto per la mole di informazioni che vengono rigettate nel mercato delle idee; secondariamente, perché la scelta sulla rilevanza e commercializzazione dell’idea non spetta al mero consumatore bensì alla piattaforma e agli advertisers, i quali tramite i sistemi di filtering bubbles e echo chamber, di cui si è detto, selezionano le informazioni cui ciascun utente potrà accedere. A causa di questo sistema, l’individuo non compie la scelta tra una buona o una cattiva informazione bensì riceve passivamente il risultato di un sistema di filtraggio tutt’altro che neutro.

La metafora del free marketplace of ides si rifà a una concezione dell’idea come meritevole di diffusione anche se crea insicurezza o dissenso. Non mettendo in pericolo nessuno, allora è comunque meritevole di circolare[52]. Proprio questi concetti sono stati menzionati dal numero uno di Facebook, Mark Zuckerberg, quando il sette gennaio 2021 ha spiegato in un post le ragioni del blocco degli account di Trump per un tempo indefinito: gli hanno consentito di rimanere sulla piattaforma “with our own rules” nell’ottica di garantire il diritto di trasmettere qualsiasi discorso di carattere politico, anche se controverso[53]. Un diritto di cui è stato deprivato nel momento in cui la violenza e la mancata condanna della stessa sono divenute inaccettabili.

Una metafora che, come sottolinea il Prof. Pollicino[54] è stata richiamata in ogni decisione con oggetto il Primo Emendamento definendo la linea interpretativa della Corte degli ultimi 30 anni. Una figura che, però, non si attaglia più al contesto che abbiamo finora esaminato, che contrasta con l’istituzione da parte di una delle Big, Facebook, di un Oversight Board[55]: un panel di esperti esterni che ha il compito di valutare la corretta rimozione di contenuti dalla piattaforma. In questo periodo particolarmente complesso di avvenimenti relativi alla libertà di espressione online, il Board ha pubblicato le sue prime decisioni[56]. L’elemento che viene in rilievo nel contesto in esame è la forma di auto-regolamentazione applicata: ciò, in un contesto dove la sovranità digitale già mostra segni di sofferenza, comporta una sostanziale marginalizzazione[57] del ruolo dei pubblici attori. Del resto, che contributo potrebbero dare in uno spazio che si auto-amministra perfino istituendo un proprio (mutatis mutandis) “tribunale”? Sebbene l’idea alla base di un controllo imparziale circa la corretta rimozione di contenuti online muova verso una ricerca di maggiore trasparenza, dall’altra mostra tutte le fragilità di un sistema che è autonomo: un conclave che non lascia spazio a chi dovrebbe legittimamente pronunciarsi in modo terzo e imparziale.

Un atteggiamento di tal genere, radicato nella cultura giuridica americana, rappresenta un clash importante dal momento in cui queste decisioni intraprese dalle piattaforme hanno delle forti ripercussioni anche nella vita dei cittadini europei, ove il primo emendamento non è la libertà di espressione bensì la privacy[58]. Prima di passare ad una breve digressione sulla prospettiva europea, il trend che si è analizzato e che è emerso grazie al blocco del Pres. Trump è di una sostanziale autonomia decisionale delle piattaforme. Una prospettiva che si scontra con la struttura stessa di Internet, un commons nella visione di Floridi, e anche con una certa concezione della sovranità. L’Europa si sta muovendo in quest’ultima direzione, cercando di controllare la rotta delle autonomie e creando tavoli di co-regolamentazione. Uno degli esempi più evidenti di questo percorso è il Digital Services Act[59] (DSA) con il quale si propone di ri-disegnare la regolamentazione delle piattaforme digitali e, soprattutto, dei gatekeepers. Affidarsi alla speranza che il pubblico faccia emergere l’idea migliore non è solo un concetto superato ma anche pericoloso: sia per i nostri diritti sia per la tenuta dell’ordine costituzionale.

4.2 Prospettiva europea

La libertà d’espressione letta nell’ambito della cultura giuridica americana diverge per diversi aspetti dalla concezione europea[60]. La tolleranza costituzionale verso la circolazione delle idee e delle espressioni è simbolo di un retaggio che affonda le sue radici nel Primo Emendamento e nella sezione 230 del CDA. Soprattutto a causa del secondo, come si è detto, molta libertà di decisione ed intervento è lasciata alle piattaforme esenti da un obbligo di controllo[61]. Con riferimento al caso Trump, hanno agito nel pieno rispetto delle norme, bloccando la più alta carica dello Stato solo nel momento in cui ha manifestato il proprio appoggio ai rivoltosi, condividendo dei messaggi che andavano a destabilizzare ancor di più la situazione.

Se, dunque, nel paese d’oltreoceano la libertà è la quintessenza della democrazia da proteggere ad ogni costo, l’atteggiamento Europeo è differente. Due sono le norme a protezione della libertà di espressione: l’art. 10 della CEDU[62] e l’art. 11 della CFEU[63]. Mentre il Primo Emendamento si focalizza sulla dimensione attiva del diritto di esprimere le proprie opinioni, come nota Pollicino[64] il focus comunitario è sulla dimensione passiva: la ricezione delle notizie. L’ottica europea non è, dunque, la massima valorizzazione della libertà, bensì l’enfatizzazione del pluralismo, con la conseguenza che una visione in cui si accetta qualsiasi notizia, seppur falsa, non troverebbe spazio nelle decisioni delle Corti Europee. Il contraltare, invece, della sezione 230 è rappresentato dalla Direttiva E-Commerce[65], ove agli articoli 12-14 prevedono un’esenzione dalla responsabilità dei service providers. Alla luce di un nutrito dibattito durato anni[66], i nodi centrali fanno emergere uno scenario in cui la libertà di espressione non è considerata un diritto assoluto, bensì un diritto che deve necessariamente essere bilanciato con altri interessi parimenti costituzionalmente rilevanti: diritto alla privacy, alla protezione dei dati personali, alla reputazione, al rispetto della dignità umana.

Un fair balance, come la Corte evidenza nei famosi casi Promusicae[67] e Sabam[68], che deve essere raggiunto tenendo in considerazione la libertà di iniziativa economica delle piattaforme, così come i diritti già menzionati. In particolare, si tratta di un’osservazione importante se si volge lo sguardo alla questione degli obblighi in capo alle piattaforme. Obblighi che, ancora una volta, devono essere proporzionali e non forieri di uno “spillover effect”.

Alla luce della vicenda Trump, il sistema europeo è sicuramente quello che sulla carta sembra proteggere maggiormente la libertà di espressione ponendo il rapporto con le piattaforme su un piano di dialogo e non di totale autonomia. La sfida per l’Unione non sarà, tuttavia, solo quella di costruire un nuovo sistema tramite il richiamato DSA che tuteli le relazioni economiche così come i diritti fondamentali, ma anche di proteggersi da echi di demagogia in casa propria. Il governo polacco ha, difatti, denunciato la disattivazione degli account di Donald Trump e ha annunciato che verrà portato avanti un disegno di legge che consideri illegali condotte di tal genere perpetrate dai social network, arrivando persino a paragonare l’azione di Twitter e Facebook alla censura del periodo comunista[69].

A parte le dichiarazioni provenienti da un paese che ha seri problemi nella protezione dei diritti civili dei propri cittadini[70], anche la Cancelleria tedesca Angela Merkel ha espresso i suoi dubbi evidenziando il lato potenzialmente problematico con la protezione della libertà di parola[71], rifacendosi a un modo tutto Europeo di vedere la regolamentazione delle piattaforme digitali che spinge verso una regolamentazione. Questo sarà l’obiettivo dei prossimi anni[72] ed è solo, alla luce dei valori Europei, quali bilanciamento e proporzionalità, che sarà possibile costruire un sistema democratico. La vera sfida sarà, dunque, rappresentata dal trovare un terreno comune in grado di tralasciare una visione esclusiva dello spazio digitale e promuovendone, al contrario, una che sia comune, etica e pubblica.

5. Conclusione

L’intera vicenda Trump è stata sinonimo di un grande cambiamento. Un campanello d’allarme che ha consentito e consentirà di riflettere sulle storture della comunicazione online quali, ad esempio, l’hate speech e le fake news. Oggi più che mai reale è digitale, e viceversa, e ciò che facciamo, diciamo, comunichiamo nello spazio dei bit, ha delle conseguenze anche nello spazio degli atomi. La rilevanza della disattivazione di un account, sebbene di un Presidente, ha una sua importanza non tanto per il fatto in sé, quanto piuttosto per la forte presa di posizione delle piattaforme in un contesto, come quello statunitense, ove sono esenti da responsabilità e agiscono in una sostanziale autonomia. Sono titolari di un potere enorme che è emerso e ha espresso tutto il suo gigantesco potenziale in questa circostanza: un fatto storico che taluni hanno paragonato al crollo delle Torri Gemelle. Senza esasperate i paragoni drammatici, il blocco, come suggerisce Pollicino[73], rappresenta l’inizio di una nuova stagione di costituzionalismo digitale[74], almeno in Europa, ed “un possibile ground zero per le questioni relative ai rapporti tra libertà di espressione, (auto)regolamentazione delle piattaforme e asimmetria tra le sensibilità costituzionali proprie delle due sponde dell’Atlantico”.

[1] Per una descrizione puntuale dei fatti avvenuti il 6 gennaio 2021 si rimanda a “I social network, Trump e l’attacco al Congresso”, il Post, 7 gennaio 2021, https://www.ilpost.it/2021/01/07/attacco-congresso-trump-social-network/.

[2] Il Presidente Trump ha alimentato il fuoco della rabbia dei suoi sostenitori prima, durante e dopo l’attacco a Capitol Hill, fomentando teorie non provate circa brogli elettorali, smentiti anche nelle cause che, con il sostegno del famoso Avv. Giuliani, ha tentato di portare avanti. Il collegamento tra l’attacco da parte di questi facinorosi e Trump è rintracciabile in ulteriori due aspetti. Anzitutto, lo stesso Presidente Biden lo ha affermato nel corso del discorso che ha diffuso durante l’attacco, attribuendogli la responsabilità di questa grave ferita alla democrazia americana. In secondo luogo, nei giorni immediatamente successivi è stato invocato il 25mo Emendamento ed iniziato un processo di impeachment, il secondo per Trump. Per un approfondimento dei concetti richiamati in questa nota si veda A. Feuer, “The Capitol Attack Aftermath”, The New York Times, 7 gennaio 2021, par. U.S., https://www.nytimes.com/live/2021/01/07/us/capitol-building-trump; M. Levenson, “Today’s Rampage at the Capitol, as It Happened”, The New York Times, 6 gennaio 2021, par. U.S., https://www.nytimes.com/live/2021/01/06/us/washington-dc-protests.

[3] Rimarrà nella storia la figura dello sciamano cospirazionista e sostenitore del movimento QAnon, Jacob Anthony Chansley, che è entrato nell’edificio a torso nudo, con il volto dipinto e un copricapo di pelliccia del cui arresto si parla in “Cosa stiamo scoprendo sull’attacco al Congresso”, Il Post, 11 gennaio 2021, http://www.ilpost.it/2021/01/11/attacco-congresso-indagini/.

[4] Prima ancora dell’insurrezione dei trumpisti, alcuni senatori e deputati del Partito Repubblicano avevano promosso una risoluzione per obiettare alla volontà dei Grandi Elettori, (un fatto più unico che raro), sostenendo che ci fossero stati brogli nelle elezioni presidenziali.

[5] Si consiglia la visione del contenuto video qui richiamato, postato in data 11 febbraio 2021 da Francesco Costa, Vicepresidente del Post, su instagram: .

[6] Non solo Twitter e Facebook, ma anche TikTok, Youtube, Reddit, Twitch, Snapchat e molte altre, hanno aderito all’iniziativa lanciata da Twitter e hanno bloccato il Pres. Trump come richiamato in questo articolo “Tutte le piattaforme che hanno bloccato Trump”, Il Post, 12 gennaio 2021, http://www.ilpost.it/2021/01/12/piattaforme-social-media-blocco-account-donald-trump/. Inoltre, i principali store di app mobili, hanno rimosso Parler, una piattaforma usata dalla Destra ed, in particolare, dai sostenitori di Trump per organizzare l’attacco del 6 gennaio. Sul punto si veda “Il social conservatore Parler è offline dopo la decisione di Apple, Google e Amazon di rimuoverlo dai propri server”, Il Fatto Quotidiano, consultato 11 gennaio 2021, https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/11/il-social-conservatore-parler-e-offline-dopo-la-decisione-di-apple-google-e-amazon-di-rimuoverlo-dai-propri-server/6061585/.

[7] Già nel corso della giornata e in quelle precedenti il sei gennaio, lo stesso Trump li aveva incitati con numerosi tweet. Lo stesso aveva, tra l’altro, tanto privatamente quanto pubblicamente, invitato il Vicepresidente Pence a rifiutarsi di presiedere la certificazione delle elezioni che hanno visto Biden vittorioso, tentando in tutti i modi di bloccare il pacifico prosieguo del passaggio di consegne, come anche evidenzia Politico in “Pence Expected to Attend Biden’s Inauguration”, 7 gennaio 2021, https://www.politico.com/news/2021/01/07/pence-expected-to-attend-bidens-inaugural-456005.

[8] Il video è visionabile a questo link: https://www.wsj.com/articles/biden-calls-attack-on-capitol-an-insurrection-11609972765.

[9] Come si vedrà nelle note di seguito, è difficile dare una compiuta definizione di concetti quali fake news e hate speech dipendendo la stessa da aspetti socio-giuridici e culturali nonché dal modificarsi continuo del tempo e delle circostanze. Per quanto concerne il concetto di fake news si rimanda alla Comunicazione della Commissione del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla Disinformazione, ove le istituzioni propongono un approccio comunitario per contrastare le forme di disinformazione online amplificate dalle piattaforme anche a causa dell’impiego di algoritmi che danno priorità alla visualizzazione di contenuti in grado di attirare l’attenzione dell’utente ed in linea, dunque, con le loro ragioni economiche. Si veda Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, “Tackling online disinformation: a European Approach” 2018. Link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52018DC0236&from=EN.

[10] Come richiamato nella nota precedente, l’espressione anglofona fa riferimento al fenomeno che consiste nel titolare in modo sensazionale e spesso scorretto contenuti online allo scopo di attirare un sostanzioso numero di click e, quindi, di utenti. Si veda sul punto ed in collegamento con il concetto di fake news Y. Chen, N. J. Conroy, e V. L. Rubin in “Misleading Online Content: Recognizing Clickbait as False News” in Proceedings of the 2015 ACM on Workshop on Multimodal Deception Detection, WMDD ’15 (New York, NY, USA: Association for Computing Machinery, 2015), 15–19, https://doi.org/10.1145/2823465.2823467.

[11] Sulla scorta di quanto detto nella nota n. 7, è alquanto difficile definire il concetto di hate speech. Una concettualizzazione può essere rintracciata all’art.2 co. 1 dell’“Additional Protocol to the Convention on Cybercrime, concerning the criminalisation of acts of a racist and xenophobic nature committed through computer system” del Consiglio d’Europa, 2003. Link: https://www.coe.int/en/web/conventions/full-list/-/conventions/rms/090000168008160f.

[12] Concetto spiegato nella nota n. 2 in F. Paolucci, “Riconoscimento facciale a scuola: il caso francese”, Ius in itinere (blog), 8 dicembre 2020, https://www.iusinitinere.it/riconoscimento-facciale-a-scuola-il-caso-francese-33027. Ivi si richiama S. Flaxman, S. Goel, e J. M. Rao, “Filter Bubbles, Echo Chambers, and Online News Consumption”, Public Opinion Quarterly 80, n. S1 (22 marzo 2016): 298–320, https://doi.org/10.1093/poq/nfw006.

[13] “Facebook’s Failure: Did Fake News and Polarized Politics Get Trump Elected?”, the Guardian, 10 novembre 2016, http://www.theguardian.com/technology/2016/nov/10/facebook-fake-news-election-conspiracy-theories.

[14] Espressione richiamata anche in Y. Ouyang e R. W. Waterman, «Trump, Twitter, and the American Democracy», in Trump, Twitter, and the American Democracy: Political Communication in the Digital Age, a c. di Yu Ouyang e Richard W. Waterman, The Evolving American Presidency (Cham: Springer International Publishing, 2020), 131–61, https://doi.org/10.1007/978-3-030-44242-2_5.

[15] Fonte: https://www.tweetbinder.com/blog/trump-twitter/.

[16] Si veda sul punto L. Qiu, “Fact-Checking Falsehoods on Mail-In Voting”, The New York Times, 5 gennaio 2021, par. U.S., https://www.nytimes.com/article/fact-checking-mail-in-voting.html.

[17] Di seguito, CDA. La norma è ivi consultabile: https://www.law.cornell.edu/uscode/text/47/230.

[18] Per ragioni di brevitas non si potrà fare un approfondimento sull’ordine governativo in questa sede. Si veda, tuttavia, il commento di P. De Felice in “L’ordine esecutivo di Trump contro Twitter: quali prospettive di regolamentazione?”, Ius in itinere (blog), 23 giugno 2020, https://www.iusinitinere.it/lordine-esecutivo-di-trump-contro-twitter-quali-prospettive-di-regolamentazione-29137.

[19] 47 U.S.C. §230: “No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider”.

[20] All’interno della categoria non sono solamente inclusi i Service Providers (ISP), ma anche una serie di “interactive computer service providers”. Questi includono anche online ISP che pubblicano contenuti di terze parti. Per ulteriori specificazioni si veda: “Section 230 of the Communications Decency Act”, Electronic Frontier Foundation, consultato 11 febbraio 2021, https://www.eff.org/issues/cda230.

[21] G. De Gregorio e R. Radu in “Trump’s Executive Order: Another Tile in the Mosaic of Governing Online Speech”, Media Laws, 6 giugno 2021, http://www.medialaws.eu/trumps-executive-order-another-tile-in-the-mosaic-of-governing-online-speech/, evidenziano come l’ordine esecutivo di Trump sia sostanzialmente un “paradosso costituzionale”. Esso è, difatti, incongruo sia per quanto riguarda gli effetti sull’affermazione dei diritti fondamentali online, ma anche sul  ridisegnare una geometria dei poteri. Difatti, l’azione sembra essere stata più un mero claim politico che un’effettiva presa di posizione nei confronti degli intermediari digitali: se avesse davvero voluto dare avvio a un processo legislativo che potesse emendare il CDA non avrebbe emesso un ordine esecutivo, in quanto questo non è lo strumento che la Costituzionale assegna per un tale scopo.

[22] Si veda K. Lyons, “Myanmar Orders Internet Providers to Block Twitter and Instagram in the Country”, The Verge, 6 febbraio 2021, https://www.theverge.com/2021/2/6/22269831/myanmar-orders-block-twitter-facebook-instagram-military-coup.

[23] La distinzione mondo degli atomi e mondo dei bits è un’espressione cara al Prof. Oreste Pollicino, rintracciabile in numerosi suoi scritti, tra gli altri G. Pitruzzella e O. Pollicino, “Disinformation and Hate Speech: A European Constitutional Perspective”  (Bocconi University Press, 2020).

[24] Citazione A. Paliwala, ‘Netizenship, Security and Freedom’, International Review of Law, Computers & Technology 27, no. 1–2 (luglio 2013): 104–23.

[25] V. Oreste Pollicino, “Odio e rabbia in rete, così il presidente ha nutrito i suoi sostenitori”, Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2020.

[26] Cfr N. Irti, “Norma e Luoghi”, Problemi Di Geodiritto. Bari: Laterza, 2001.

[27] J. R. Reidenberg, “Technology and Internet Jurisdiction”, University of Pennsylvania Law Review 153, no. 6 (2005): 1951–74.

[28] F. Pasquale, “The black box society” (Harvard University Press, 2015).

[29] “Le colossali piattaforme americane a scopo di lucro non sono né semplici vettori di dati né editori, bensì una via di mezzo. Tramite algoritmi selezionano, distribuiscono e promuovono contenuti forniti da terzi e, al contempo, raccolgono e sfruttano i nostri dati a fini commerciali. Nel migliore dei casi sono importanti sussidi per la ricerca della verità, nel peggiore sono amplificatori di bugie”, così T. G. Ash, “Biden nell’arena digitale”, Repubblica, 11 febbraio 2021.

[30] Molte compagnie, quali ad esempio Google, hanno iniziato a fornire informazioni circa le modalità con cui l’algoritmo lavora. Tale aspetto è, inoltre, uno dei punti di discussione della riforma che l’Europa sta iniziando a condurre tramite il DSA, nell’ottica di costruire un impianto sempre più trasparente di elaborazione dei dati e assunzione delle decisioni. Circa la proposta normativa in questione si veda F. Paolucci, “Il Digital Services Act: verso una nuova governance di Internet?”, Ius in itinere (blog), 23 dicembre 2020, https://www.iusinitinere.it/il-digital-services-act-verso-una-nuova-governance-di-internet-34071.

[31] Teoria socio-economica resa famosa grazia al libro della accademica statunitense Shoshanna Zuboff nell’omonimo best-seller “The Age of Surveillance Capitalism” (Profile Books; Kindle, 2019).

[32] Dicotomia messa in luce dal Garante Stefano Rodotà in «Vicende della sovranità», in Tecnocrazia. La tecnologia e le nuove tecnologie della comunicazione (Laterza, 2004).

[33] Traduzione dell’autore di G. Dyson in “Turing’s cathedral: the origins of the digital universe”, (Pantheon, 2012).

[34] Si veda L. Floridi, “Il web è di tutti ora è il momento di riprendercelo”, Repubblica, 29 gennaio 2021. Nell’articolo richiama concetti tipici della sua dottrina come quello di infosfera: un neologismo da egli coniato che indica proprio la globalità dello spazio dell’informazione, ricomprendendo tanto i sistemi tradizionali quanto i media classici, definita dal filosofo “lo spazio semantico costituito dalla totalità dei documenti, degli agenti e delle loro operazioni”. Una falsa riga della biosfera ma composta da dati e informazioni. Sul punto diffusamente L. Floridi, Pensare l’infosfera: La filosofia come design concettuale (Raffaello Cortina Editore, 2020).

[35] Cit. Floridi, “Il web è di tutti ora è il momento di riprendercelo”.

[36] Parafrasando Floridi, cit.

[37] “Facebook and other social media usually rely on terms of service and community guidelines in which they set standards of acceptable conduct and content. In other words, these private rulebooks form a quasi-legal basis according to which platforms exercise their powers, sans reliance on public authorities”, così O. Pollicino e G. De Gregorio in “Shedding Light on the Darkness of Content Moderation”, Verfassungsblog (blog), 5 febbraio 2021, https://verfassungsblog.de/fob-constitutionalism/.

[38] Metafora rintracciabile in T. Groppi e A. Simoncini, “Introduzione al diritto pubblico e delle sue fonti”, Giappichelli, 2015.

[39] O. Pollicino e De Gregorio, cit.

[40] “Experiencing freedom, equality and otherness in public spheres becomes problematic in a context of increasingly mediated identities and calculated interactions such as profiling, targeted advertising, or price discrimination. The quality of public spheres is further undermined by increasing social control through mutual or lateral surveillance (souveillance), which is not necessarily better than “big brother” surveillance, as increasingly cyberbullying shows”. Citazione di L. Floridi in “The onlife manifesto: Being human in a hyperconnected era”, (Springer Nature, 2015).

[41] Si veda M. Bassini in “Fundamental Rights and Private Enforcement in the Digital Age”, European Law Journal 25, n. 2 (2019): 182–97, .

[42] R. Van Loo, “The Corporation as Courthouse”, Yale Journal on Regulation 33 (2016), cit. da Bassini (cfr nota precedente).

[43] Balkin citato da M. Bassini.

[44] Sul punto R. Panetta, «Privacy it’s not dead. It’s hiring!», in Circolazione e protezione dei dati personali, tra libertà e regole del mercato. Commentario al Regolamento UE n. 679/2016 e al d.lgs. n. 101/2018 (Giuffrè Francis Lefebvre, 2019); S. Rodotà e P. Conti, Intervista su privacy e libertà (GLF Editori Laterza, 2005).

[45] F. Werro, “The Right to Inform v. The Right to Be Forgotten: A Transatlantic Clash”, SSRN Scholarly Paper (Rochester, NY: Social Science Research Network, 8 maggio 2009), https://papers.ssrn.com/abstract=1401357.

[46] Cons. Of United States of America, 1st Amendment: https://constitution.congress.gov/constitution/amendment-1/.

[47] Spazi dove primeggiava, però, l’élite e vi era molta chiusura da parte dei c.d. early adopters nei confronti di coloro che si aggiungevano nel tempo. Tale fenomeno insieme all’anonimità ha portato taluni di questi gruppi a divenire dei veri e propri covi dell’estremismo politico, come spiega  M. Moore in “Democracy Hacked. How technolgy is destabilising global politics”, (London: OneWorld Publications, 2019).

[48] “In the new century, liberty will spread by cell phone and cable modem. We know how much the Internet has changed America. Imagine how much it could change China…[The Beijing regime] has been trying to crack down on the Internet–good luck. That’s sort of like trying to nail Jello to the wall”. Citazione del discorso di Bill Clinton al John Hopkins, nel 2000, menzionato da E. Canu, “La Yalta Digitale”, Il Foglio Quotidiano, agosto 2020.

[49] Infra, Zuboff, “The Age of Surveillance Capitalism”.

[50] 376 U.S., New York Times Co. v. Sullivan, 254 (1964)

[51] 250 U.S., Abrams v. United States, 616 (1919). Decisione: https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/250/616.

[52] Cfr G. Pitruzzella e O. Pollicino, “The Constitutional Perspective on Freedom of Expression in the Internet Era”, in Disinformation and Hate speech (Egea, 2020), 53–95.

[53] “Over the last several years, we have allowed President Trump to use our platform consistent with our own rules, at times removing content or labeling his posts when they violate our policies. We did this because we believe that the public has a right to the broadest possible access to political speech, even controversial speech. But the current context is now fundamentally different, involving use of our platform to incite violent insurrection against a democratically elected government”, così Mark Zuckerberg nel suo post del sette gennaio. Link: https://www.facebook.com/4/posts/10112681480907401/?d=n.

[54] “Internet Regulation: Not a Matter of Freedom of Speech, but Freedom to Conduct Business”, Help Net Security (blog), 26 gennaio 2021, https://www.helpnetsecurity.com/2021/01/26/internet-regulation-freedom/.

[55] Da taluni definito come la “Corte Suprema di Facebook” (v. J. D’Alessandro, “Nasce la “Corte suprema” di Facebook. Indipendente, giudicherà le scelte del social network”, La Repubblica, 6 maggio 2020, https://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2020/05/06/news/nasce_la_corta_suprema_di_facebook_organo_indipendente_che_giudichera_le_scelte_del_social_network-255883828/), il Board assume decisioni indipendenti dal social network e prende decisioni vincolanti, come specificato nel sito web dedicato: https://oversightboard.com/. Molti dubbi circa la validità giuridica delle decisioni del Board: per ovvie ragioni non ci si potrà dilungare nel merito. Si rimanda a M. Donateo e A. Polimeni in “Facebook Oversight Board, che succede ora? Ecco perché può essere un’arma a doppio taglio”, Agenda Digitale, 11 febbraio 2021, https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/facebook-oversight-board-che-succede-ora-ecco-perche-puo-essere-unarma-a-doppio-taglio/.

[56]“Announcing the Oversight Board’s First Case Decisions”, Oversight Board, gennaio 2021, https://oversightboard.com/news/165523235084273-announcing-the-oversight-board-s-first-case-decisions/.

[57]The consequence of this process would affect juristocracy. Not only could the FOB lead to a marginalisation of judicial power but also contaminate judicial values and safeguards which would be driven by private ordering on a global scale”, cosi O. Pollicino e G. De Gregorio in “Shedding Light on the Darkness of Content Moderation”, cit.

[58] B. Petkova, “Privacy as Europe’s First Amendment”, European Law Journal 25, n. 2 (marzo 2019): 140–54, .

[59] V. nota 30, infra.

[60] Si veda infra par. 5.

[61] A. Stille, “Potere dei social le domande senza risposta”, Repubblica, 29 gennaio 2021.

[62] Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma, 1950.

[63] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Nizza, 2000.

[64] O. Pollicino, “Fake News, Internet and Metaphors (to Be Handled Carefully) Editorial”, Italian Journal of Public Law 9, n. 1 (2017): 1–5.

[65] Directive 2000/31/EC of the European Parliament and of the Council of 8 June 2000 on certain legal aspects of information society services, in particular electronic commerce, in the Internal Market (‘Directive on electronic commerce’).

[66] Per una esaustiva overview si faccia riferimento a G. Giannone Codiglione e Marco Bassini, “From private enforcement to public enforcement. Copyright enforcement in the digital age: a comparative view”, in Copyright and fundamental rights in the digital age: a comparative analysis in search of a common constitutional ground, Edward Elgar, 2020.

[67] C-275/06, CJEU, Promusicae v. Telefónica de España (2008).

[68] C-70/10, Scarlet Extended SA v. Société belge des auteurs, compositeurs et éditeurs SCRL (SABAM) (2011); C-360/10, Belgische Vereniging van Auteurs, Componisten en Uitgevers CVBA (SABAM) v. Netlog (2012).

[69] Il Primo Ministro Mateusz Morawiecki ha, difatti, scritto su Facebook, “Censorship of free speech, which is the domain of totalitarian and authoritarian regimes, is now returning in the form of a new, commercial mechanism to combat those who think differently”, come riportato da The Guardian in “Poland Plans to Make Censoring of Social Media Accounts Illegal”, 14 gennaio 2021, http://www.theguardian.com/world/2021/jan/14/poland-plans-to-make-censoring-of-social-media-accounts.

[70] Si veda sul punto uno degli ultimi report di Amnesty International: https://www.amnesty.org/en/countries/europe-and-central-asia/poland/report-poland/.

[71] G. Chazan, H. Murphy, e H. Foy, “Angela Merkel Attacks Twitter over Trump Ban”, 11 gennaio 2021, https://www.ft.com/content/6146b352-6b40-48ef-b10b-a34ad585b91a.

[72] Per la proposta Europea si veda: European Parliament. Directorate General for Parliamentary Research Services., Digital Services Act: European Added Value Assessment. (LU: Publications Office, 2020), https://data.europa.eu/doi/10.2861/7952.

[73] Così O. Pollicino in “La libertà di espressione sui social è giunta all’ora zero qui e negli Usa: è ora di una stagione nuova”, Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2021, https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/19/la-liberta-di-espressione-sui-social-e-giunta-allora-zero-qui-e-negli-usa-e-ora-di-una-stagione-nuova/6070705/.

[74] G. De Gregorio, “The Rise of Digital Constitutionalism in the European Union”, SSRN Scholarly Paper (Rochester, NY: Social Science Research Network, 2019), https://papers.ssrn.com/abstract=3506692.

Federica Paolucci

Federica Paolucci, è Dottoranda in Diritto Costituzionale Comparato  presso l'Università Commerciale Luigi Bocconi, dove ha avuto anche modo di approfondire gli aspetti relativi al diritto e alla tecnologia frequentando nell'a.a. 2020/2021 LLM in Law of Internet Technology.

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