martedì, Marzo 19, 2024
Uncategorized

Il G8 di Genova – i fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto

Nonostante i disordini dei giorni precedenti e nonostante (o, forse, proprio per) la morte di Carlo Giuliani, avvenuta il 20 luglio in Piazza Alimonda[1], le manifestazioni organizzate dal GSF per il G8 di Genova del 2001 continuarono anche il giorno successivo, con l’ultimo grande corteo ultramondialista, che vide sfilare quasi 100mila persone.

Insieme al corteo giunsero però nuovi scontri di strada: accanto ai manifestanti pacifici (sindacati, attivisti, giornalisti, avvocati, deputati), in strada si presentarono anche membri del blocco nero, casseurs e criminali comuni che, confusi nella folla, misero a ferro e fuoco la città. Le forze dell’ordine reagirono ai disordini ma finendo con lo scagliarsi spesso contro il corteo autorizzato e lasciando indisturbati black bloc e altri facinorosi. Ed è in questo frangente che gli eventi del G8 scivolarono su quella china che condusse agli eventi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto.

Come riconosciuto anche in sede giudiziaria[2], nella mattinata del 21 luglio il capo della Polizia e il Prefetto disposero una serie di “rastrellamenti” nelle scuole assegnate come ricovero ai manifestanti. L’intento era quello di attuare “una linea di condotta più «incisiva» che doveva portare a degli arresti per cancellare l’impressione che la polizia non avesse reagito dinanzi ai saccheggi e alle devastazioni commessi in città[3]; le autorità erano in cerca di membri dei black bloc, nonché di eventuali rifugi e depositi di armi. Si cominciò dalla scuola Paul Klee – ma il sopralluogo si rivelò un autentico buco nell’acqua – proseguendo poi con il complesso della scuola Diaz – Pertini – Pascoli e, successivamente, nella caserma del quartiere Bolzaneto.

Diaz

Durante il G8, il complesso scolastico Diaz – Pertini – Pascoli venne adibito, su intesa tra autorità e comitato organizzativo, a ricovero di emergenza per i manifestanti, nonché a centro multimediale e ufficio stampa, in cui trovarono alloggio anche diversi avvocati e giornalisti.

Alcuni abitanti segnalarono come, nella notte tra il 20 e il 21 luglio, delle persone vestite di nero si fossero introdotte in un cantiere vicino alla scuola per rubare tubi e altri materiali edilizi. Insospettiti da questi movimenti, le forze dell’ordine organizzarono un’operazione “per mettere in sicurezza l’edificio”: lo schema originario prevedeva la perquisizione dei locali, il sequestro di eventuali armi e l’arresto dei membri del black bloc presenti nella scuola, con una c.d. cinturazione dell’edificio. Le stime, mai confermate, parlano di quasi 500 agenti coinvolti.

L’intervento si tradusse in una vera e propria irruzione da parte di membri del nucleo antisommossa, che sfondarono il portone d’ingresso e iniziarono un’autentica mattanza.

Queste sono le parole con cui il Tribunale e la Corte d’appello descrissero i fatti di quella notte:

Gli agenti si divisero nei piani dell’edificio, parzialmente immersi nel buio. La maggior parte di loro aveva il viso coperto da un foulard, essi cominciarono a colpire gli occupanti con pugni, calci e manganelli, gridando e minacciando le vittime. Alcuni gruppi di agenti si accanirono anche su degli occupanti che erano seduti o allungati per terra. Alcuni degli occupanti, svegliati dal rumore dell’assalto, furono colpiti mentre si trovavano ancora nei loro sacchi a pelo; altri lo furono mentre tenevano le braccia in alto in segno di resa o mostravano le loro carte d’identità. Altri occupanti tentarono di scappare e si nascosero nei bagni o nei ripostigli dell’edificio, ma furono riacciuffati, colpiti, talvolta tirati fuori dai loro nascondigli per i capelli[4].

Poco dopo, le forze di sicurezza fecero irruzione anche nella adiacente scuola Pascoli, minacciando i giornalisti presenti e sequestrando hard disk e computer appartenenti agli avvocati del GSF.

Gli agenti svuotarono tutti gli zaini degli occupanti, ripulirono l’edificio e scoprirono appena un paio di bottiglie molotov (che si rivelarono poi essere state requisite nel pomeriggio, nel corso di una diversa operazione) e alcuni abiti neri (passamontagna, giacche, pantaloni), che fecero sospettare la presenza di black bloc nell’edificio, ma ciò non venne mai confermato. Una parte dei manifestanti venne medicata sul posto o portata in ospedale dopo le percosse e le violenze ricevute dagli agenti, altri – a cui toccò una sorte ben peggiore – vennero condotti nella caserma di Bolzaneto.

Le 93 persone presenti quella notte vennero arrestate e accusate di saccheggio e devastazione, nonché di resistenza a pubblico ufficiale e illegale porto d’armi. Furono tutte assolte.

L’esito fallimentare dell’irruzione e le diverse denunce dei manifestanti, fatti oggetto di gravi, ripetute ed arbitrarie violenze, condussero all’apertura di un procedimento a carico di agenti, funzionari e dirigenti coinvolti nelle operazioni alla scuola Diaz e alla scuola Pascoli.

La sentenza di primo grado[5] si concluse con la condanna di dodici dei ventotto imputati per i reati di falso, calunnia, lesioni personali e porto abusivo di armi da guerra, con pene piuttosto lievi, poi ulteriormente ridotte in appello per effetto di indulto e prescrizione. I giudici di prime cure furono in ogni caso piuttosto tolleranti nei confronti degli agenti, evidenziando come questi, senza altri precedenti a loro carico, agirono in condizioni di grande stress e fatica; i membri dei nuclei operativi furono inoltre animati dalla convinzione che l’operazione fosse effettivamente necessaria per sgominare un gruppo di black bloc e che, per questo, i superiori tollerassero l’uso della forza nei confronti dei manifestanti[6]. Pur escludendo che l’intera operazione fosse stata organizzata “come una spedizione punitiva contro i manifestanti”, il Tribunale rilevò diverse anomalie nella ricostruzione effettuata dalle forze di polizia, che non solo non collaborarono con l’identificazione degli agenti autori delle violenze, ma che, alla prova dei fatti, giustificarono l’irruzione con prove artefatte, producendo poi verbali falsi, raccontando episodi – mai confermati – di violenza dei manifestanti nei confronti degli agenti.

La Corte d’appello[7] confermò la debolezza delle motivazioni che giustificarono l’irruzione, censurando gravemente la condotta dei nuclei antisommossa: pesantemente armati e senza alcuna indicazione, gli agenti fecero irruzione senza prima tentare alcun approccio non violento con gli occupanti, pestando sistematicamente i presenti, anche quando questi erano del tutto inoffensivi e incapaci di difendersi. Secondo i giudici d’appello “lo scopo di tutta l’operazione (fu) quello di eseguire numerosi arresti, anche in assenza di finalità di ordine giudiziario, in quanto era essenziale porre rimedio presso i media all’immagine di una polizia percepita come impotente”; i dirigenti diedero un’“unica raccomandazione (ossia) quella di neutralizzare gli occupanti della scuola Diaz-Pertini, stigmatizzando questi ultimi come pericolosi teppisti, autori dei saccheggi dei giorni precedenti[8] – quando in realtà nessuno degli occupanti aveva commesso alcun reato nei giorni precedenti.

Ancora, “gli agenti delle forze dell’ordine si erano trasformati in «picchiatori violenti», indifferenti a qualsiasi vulnerabilità fisica legata al sesso e all’età come pure a qualsiasi segno di capitolazione, … da parte di persone che erano state svegliate bruscamente dal rumore dell’attacco”, tenendo comportamenti indice, insieme al tentativo di giustificare l’accaduto con scuse e ricostruzioni dei fatti “inventate di sana pianta”, di “un comportamento consapevole e concertato[9].

Prescrizioni e indulti diedero definitivamente il colpo di grazia sul quadro sanzionatorio dei primi due gradi di giudizio[10], in particolare per quanto riguarda le accuse di lesioni aggravate, che caddero in prescrizione. La sentenza della Corte di cassazione[11], però, confermò in toto le conclusioni della Corte d’appello e, tanto, sia sulla condotta degli agenti (autori di violenze “di una gravità inusitata”) sia sui tentativi di giustificare l’accaduto mettendo in atto una “scellerata operazione mistificatoria”. Le azioni dei nuclei antisommossa impiegati, nell’opinione della Suprema Corte, avrebbero potuto integrare il reato di tortura come definito dalla relativa Convenzione ONU, oltre che dall’art. 3 CEDU, che, però, non era – ancora – stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano[12].

La sentenza sul caso Cestaro c. Italia: fu tortura

Il ricorrente, all’epoca dei fatti, aveva sessantadue anni e si trovava all’interno della scuola Diaz. Svegliato dall’irruzione dei nuclei antisommossa “aveva le braccia alzate … Fu colpito soprattutto sulla testa, le braccia e le gambe, i colpi ricevuti gli provocarono fratture multiple”; dopo le prime medicazioni, venne poi portato all’ospedale Galliera di Genova. Costituitosi parte civile nel procedimento penale contro gli agenti – e ottenuto un risarcimento irrisorio – decise quindi di proporre ricorso avanti la Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 CEDU, il quale dispone il divieto assoluto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti.

Un’analisi critica del caso della scuola Diaz – e, successivamente, di Bolzaneto – impongono di pensare alla tortura non come ad una violenza preordinata all’ottenimento di un fine (ad esempio, estorcere una confessione), quanto ad un’azione umana dotata di una propria dimensione, prima che materiale, filosofica e relazionale. Donatella De Cesare[13] definisce la tortura come l’esercizio di un potere – fisico – su una persona, inquadrandola nella prospettiva di un rapporto tra aguzzino e vittima. Gli abusi della scuola Diaz non furono né più né meno di questo: violenze deliberate, atroci non solo nella loro dimensione materiale, ma anche nella loro assoluta arbitrarietà.

E quanto avvenne quella notte fu tortura anche per la Corte di Strasburgo, che non ebbe dubbi nel qualificare le violenze commesse dagli agenti come tortura, capaci di provocare, per la loro “natura particolarmente grave e crudele”, “dolori e sofferenze acuti”, sia fisici che psicologici[14]. Il ricorrente, data anche l’età, era privo di difese e non si oppose in alcun modo alle violenze, inflitte “in maniera totalmente gratuita[15]. La gravità di queste azioni fu accentuata dal fatto che l’operazione, pur asseritamente ideata con lo scopo di perquisire gli occupanti e mettere in sicurezza l’edificio, non venne mai operativamente programmata per perseguire questa finalità e, dunque, le violenze subite non trovarono giustificazione alcuna, anche a fronte dell’assoluta passività dei manifestanti all’interno della scuola Diaz, che non hanno quasi opposto alcuna resistenza[16].

Alla luce delle circostanze del caso di specie, concluse la Corte, contro ogni possibile eccezione del Governo italiano convenuto, l’intenzione delle autorità fu quella di “procedere ad arresti mediatizzati e con l’adozione di modalità operative non conformi alle esigenze della tutela dei valori derivanti dall’articolo 3 della Convenzione e dal diritto internazionale pertinente[17].

Anche sotto il profilo procedurale la Corte ritenne sussistere una violazione dell’art. 3 CEDU sotto tre profili:

  • la mancata identificazione degli agenti autori delle violenze, che hanno agito con il volto coperto e privi di segnali di identificazione (ad esempio, targhe con il numero di matricola) e su cui è calata l’assoluta impunità, anche grazie alla scarsa collaborazione delle forze di polizia[18];
  • l’inadeguatezza della legislazione italiana in materia di applicazione della prescrizione e dell’indulto ai reati contestati, che permise agli imputati di evitare qualsiasi condanna o, comunque, di vedersi comminate sanzioni molto lievi[19];
  • il silenzio delle autorità italiane su eventuali provvedimenti disciplinari nei confronti degli agenti coinvolti, per i quali non risultarono nemmeno sospesi dall’incarico e in merito ai quali il Governo non ha ritenuto di condividere alcuna informazione[20].

Ci sono voluti quindici anni d’attesa, ma la fermezza della sentenza della CEDU mette un punto fermo su questa vicenda, dando conforto alle vittime di quella “macelleria messicana[21] che si consumò nella scuola Diaz. Ma se sui fatti della scuola Diaz si è fatta luce grazie alla sua “mediatizzazione”, alla divulgazione di fotografie, video e testimonianze dirette, così non accadde per i fatti della caserma di Bolzaneto.

Pochi giorni fa, proprio a cavallo della commemorazione del ventennale dal G8, la CEDU ha respinto il ricorso presentato da alcuni dei carabinieri condannati per la notte della Diaz, i quali lamentavano una ricostruzione dei fatti falsa e non credibili. Secondo la Corte, infatti, il ricorso dei due carabinieri è stato ritenuto manifestamente irricevibile in quanto “i fatti presentati non rivelano alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli[22].

Dopo la Diaz, Bolzaneto

Quanto accadde tra le mura della caserma del quartiere Bolzaneto è infatti divenuto di dominio pubblico solo grazie al coraggio di coloro subirono per ore e ore abusi e violenze di ogni tipo e che vollero testimoniare la notte in cui il nostro paese si dimenticò (o fece finta di dimenticarsi) di essere una democrazia[23].

A causa delle aumentate misure di sicurezza – e prevedendo un aumento dei fermi durante gli scontri, le autorità italiane, temendo che i mezzi e gli spazi del carcere di Marassi non fossero sufficienti, individuarono una serie di centri distaccati per la gestione delle persone arrestate, tra cui anche la caserma di Bolzaneto. Ivi furono condotti diversi manifestanti arrestati durante i cortei del pomeriggio, mentre altri – molti altri – giunsero a Bolzaneto direttamente dalla scuola Diaz, nella notte, dopo l’irruzione da parte dei nuclei antisommossa.

L’elenco degli abusi, fisici e verbali, lascia senza parole per la crudeltà e spietatezza: insulti e pestaggi furono la regola, così come deliberate sevizie e violenze pensate solo per procurare dolore fisico (dita divaricate fino a provocare strappi e lesioni della pelle, sigarette spente sui polsi e sul collo, colpi inferti su parti del corpo già lesionate o fratturate), molti furono costretti a espletare i propri bisogni corporei di fronte ad altri “detenuti” e a spogliarsi, costretti per ore in piedi sotto minaccia di ulteriori percosse; gli agenti irretirono le vittime per ore con canti e insulti fascisti, minacce di morte e inneggiando alla morte di Giuliani, avvenuta poche ore prima[24]. Nessuno dei manifestanti arrestati ricevette adeguate cure mediche (anzi, le visite si trasformarono spesso in occasioni di ulteriori umiliazioni e abusi da parte del personale medico) e le sevizie finirono solamente con il loro trasferimento presso altri istituti penitenziari (Alessandria, Vercelli). Tutti i procedimenti avviati nei confronti delle vittime terminarono con l’assoluzione.

Similarmente a quanto accaduto per i fatti della scuola Diaz, anche gli agenti imputati per le torture della caserma di Bolzaneto poterono godere di pene lievi, ulteriormente ridotte – quando non azzerate – grazie a prescrizione e indulto sino all’ultimo grado di giudizio. Il trattamento sanzionatorio favorevole fu determinato non solo dall’assenza della specifica fattispecie del reato di tortura nell’ordinamento dell’epoca (aspetto, questo, già censurato nella sentenza sul caso Cestaro), ma anche, come rilevato in primo grado, da una serie di difficoltà oggettive legate alla “mancanza di collaborazione da parte della polizia, che derivava … da una cattiva interpretazione dello spirito di corpo[25].

Le sentenze furono comunque molto dure nel valutare la condotta delle forze di sicurezza: secondo i giudici, “tali episodi avevano leso anche la Costituzione della Repubblica e indebolito la fiducia del popolo italiano nelle forze dell’ordine[26]. Nella sentenza di appello[27] si legge, ancora, che le violenze e le sevizie, combinate “con la negazione di alcuni diritti della persona arrestata, avevano lo scopo di dare alle vittime la sensazione di essere caduti in uno spazio di negazione dell’habeas corpus, dei diritti fondamentali e di ogni altro aspetto della preminenza del diritto, cosa che, del resto, confermavano … le varie forme di evocazione del fascismo fatte dagli agenti[28].

Numerose vittime presentarono ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che, forte anche della propria giurisprudenza in materia e del precedente rappresentato dalla sentenza sul caso Cestaro, non fece altro che sottoscrivere le conclusioni dei giudici di merito, concludendo per una violazione dell’art. 3 CEDU, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale[29].

Ciò che avvenne a Bolzaneto non fu una semplice violenza, ma un’autentica negazione del diritto[30] nella sua forma più brutale e spietata.

A te, fra 20 anni

Secondo la psicoterapeuta Françoise Sironi, la tortura “è una violenza fisica e mentale compiuta da un essere umano su un altro essere umano per ridurlo alla sua mera corporeità[31]. Fu questo ciò che avvenne a Genova tra il 20 e il 21 luglio 2001: persone, uomini e donne, furono depredati della loro umanità, ridotti a semplici gusci vuoti, privi di ogni dignità e rispetto. Una violenza, come ricordano anche le sentenze, “indiscriminata, costante e in qualche modo organizzata”, all’interno di un “processo di disumanizzazione che ha ridotto l’individuo a una cosa sulla quale esercitare la violenza[32].

Una notte che non possiamo permettere si ripeta.

Ma oggi, fortunatamente, qualcosa si muove.

Benché criticata da numerose associazioni in quanto frutto di un compromesso al ribasso[33], la Legge n. 110/2017 ha finalmente introdotto nel nostro ordinamento il reato di tortura, che punisce “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”, conformandosi così alle previsioni della Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984. Come detto, però, non sono mancate le critiche: secondo l’ex Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, Luigi Manconi, la formulazione del reato di tortura, così come giunta in approvazione, “non avrebbe considerato tortura gran parte delle violenze avvenute nella scuola Diaz … perché considera tortura solo una violenza reiterata[34].

Numerosi enti e associazioni, tra cui Amnesty International[35], si stanno inoltre muovendo per chiedere l’introduzione, nell’ordinamento interno delle forze armate, dell’obbligo di esporre i numeri identificativi su caschi e giacche d’ordinanza, in modo da permettere l’identificazione degli agenti e la loro individuazione in caso di un uso sproporzionato della forza.

Timidi passi in avanti, in un paese che ancora nega, anche di fronte all’evidenza, abusi e soprusi delle forze dell’ordine, soprattutto se sistematici perché “al massimo sarà qualche mela marcia”. Ma i fatti di Genova, di Santa Maria Capua Vetere, così come altri episodi, altrettanto vergognosi come le morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e Bifolco ci raccontano un’altra verità. E abbiamo il dovere di raccontarla.

[1] Vds. F. Tumminello, Il G8 di Genova – la morte di Carlo Giuliani, Ius in itinere, 20 luglio 2021 (https://www.iusinitinere.it/il-g8-di-genova-la-morte-di-carlo-giuliani-39512).

[2] Si veda la sentenza n. 1530/2010 della Corte d’appello di Genova del 18 maggio 2010

[3] Corte EDU, Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11, sentenza 7 aprile 2015 (Camera – Quarta sezione), §23.

[4] Ibid., §33.

[5] Sentenza n. 4252/08 del 13 novembre 2008, depositata l’11 febbraio 2009, del Tribunale di Genova.

[6] Il Tribunale comunque sottolineò come “anche in presenza dei black bloc, le forze dell’ordine erano autorizzate a utilizzare la forza soltanto nella misura necessaria per vincere la resistenza violenta degli occupanti, e ciò fatto salvo il rispetto del rapporto di proporzionalità tra la resistenza incontrata e i mezzi utilizzati”, Corte EDU, Cestaro c. Italia, cit.,  §51,

[7] Sentenza n. 1530/10 del 18 maggio 2010, depositata il 31 luglio 2010 della Corte d’appello di Genova.

[8] Proprio in virtù di questa tesi, la difesa provò a giustificare le macchie di sangue sui muri e sui corridoi della scuola sostenendo come queste fossero derivate da ferite che i manifestanti si erano procurati durante i disordini. Le macchie di sangue però erano fresche e la Corte d’appello censurò come “vergognosa” questa tesi, Ibid., §67.

[9] Ibid., §73.

[10] Nonché sulle pene comminate per i fatti della scuola Pascoli.

[11] Cass. pen., sentenza n. 38085/12 del 5 luglio 2012, depositata il 2 ottobre 2012.

[12] Corte EDU, Cestaro c. Italia, cit., §77.

[13] D. De Cesare, Tortura, Bollatti Borlinghieri, 2016.

[14] Corte EDU, Cestaro c. Italia, cit., §179.

[15] Ibid., §182.

[16] Ibid., §183 e §189.

[17] Ibid., §189.

[18] Ibid., §§214 – 217.

[19] Ibid., §§218 – 226.

[20] Ibid., §§227 – 228.

[21] La definizione è del vicequestore Michelangelo Fournier (https://www.repubblica.it/2007/06/sezioni/cronaca/g8-genova/g8-genova/g8-genova.html).

[22]G8, Strasburgo: inammissibili ricorsi poliziotti condannati per irruzione in scuola Diaz, SkyTG24, 17 luglio 2021 (https://tg24.sky.it/cronaca/2021/07/17/g8-genova-poliziotti-diaz-ricorsi-cedu).

[23] Cito impropriamente – e spero me lo si perdoni – G. Mari, Genova, vent’anni dopo, People, Busto Arsizio, 2021.

[24] Un buon resoconto di queste violenze è rinvenibile nelle premesse della sentenza CEDU, Azzolina e altri c. Italia, ricorsi nn. 28923/09 e 67599/10, sentenza 26 ottobre 2017 (Camera – Prima Sezione).

[25] Ibid., §54.

[26] Tribunale di Genova, sentenza n. 3119 del 14 luglio 2008, depositata il 27 novembre 2008.

[27] Corte d’appello di Genova, sentenza n. 678 del 5 marzo 2010, depositata il 15 aprile 2011.

[28] Corte EDU, Azzolina e altri c. Italia, cit., §67.

[29] Replicando le medesime argomentazioni già viste per la sentenza sul caso Cestaro c. Italia.

[30] Ibid., §130, in cui si legge come i manifestanti, “per tutta la durata della loro detenzione in una zona di «non diritto» in cui le garanzie più elementari erano state sospese.”

[31] A. Camilli, I medici che curano le ferite invisibili della tortura, Internazionale, 25 luglio 2017.

[32] Corte EDU, Azzolina e altri c. Italia, cit., §130.

[33] Si veda A. Ferri, Non siete Stato voi, People, Busto Arsizio, 2021.

[34] A. Camilli, Limoni – Il G8 di Genova vent’anni dopo (La Giustizia), Internazionale, 28 luglio 2021.

[35] Si veda https://www.amnesty.it/appelli/inserire-subito-i-codici-identificativi/

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

Lascia un commento