La commercializzazione della cannabis light: la parola alle Sezioni Unite
Non tutte le coltivazioni di piante di Canapa sono destinate al consumo ma alcune delle varietà sono rivolte alla produzione delle filiere agroindustriali. La Cannabis Sativa L. (comunemente detta Cannabis Light) è una specie del genere Cannabis[1] coltivata soprattutto per utilizzi tessili, edili e per la produzione di carta; è molto diffusa nel settore del florovivaismo, ossia nell’ “attività professionale di produzione e commercializzazione di fiori recisi e di piante in un complesso di serre e vivai”.[2] Negli ultimi anni l’utilizzo di tale specie vegetale è aumentato sensibilmente, tanto che sono sorte circa 1000 aziende agricole che si occupano della sua produzione e si è assistito ad un forte incremento occupazionale nel relativo settore. La Legge 2 dicembre 2016, n. 242, all’art. 2 lett g) ha stabilito che la coltivazione delle varietà di canapa Sativa L. è consentita senza necessità di autorizzazione se tali coltivazioni sono destinate al florovivaismo. La legge, quindi, ha sancito la liceità del suo utilizzo ma, da un punto di vista strettamente culturale la canapicoltura in generale, implicando l’utilizzo di piante contenenti sostanza stupefacente, ha da sempre subito l’eco di una forte eredità ideologica talvolta proibizionista, talvolta di prevenzione, che ha provocato una forte tendenza a restringerne l’impiego.
In contrasto con tale sentire sociale, l’ultima pronuncia delle Sezioni Unite in materia ha sollevato un forte clamore mediatico e si ritiene utile tracciarne gli elementi di novità rispetto al passato.
Come premesso, la norma di riferimento rispetto alla disciplina dell’uso della Cannabis Light è la Legge 2 dicembre 2016, n. 242, recante disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, entrata in vigore il 14 gennaio 2017. Quest’ultima afferma che la coltivazione della Cannabis Light è consentita senza obbligatorietà di autorizzazione, la quale è invece richiesta per la coltivazione di Canapa ad elevato contenuto di Delta-9-tetraidrocannabinolo e Delta-8-trans-tetraidrocannabinolo (ossia THC), per gli usi concessi dalla legge. All’epoca della sua introduzione, la finalità del provvedimento era quella di agevolare l’attività di controllo e repressione da parte degli organi a ciò preposti[3].
In seguito all’entrata in vigore della legge, il Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo (MiPAAFT) si è occupato di fornire alcuni chiarimenti sulla sua interpretazione, in quanto la norma si presentava dal contenuto alquanto “criptico”[4], poiché proponeva alcune limitazioni al florovivaismo sprovviste di un idoneo sostegno logico-giuridico. Il risultato di quest’attività ermeneutica, però, era stata l’emanazione di due circolari di segno completamente opposto rispetto alla liceità del commercio di infiorescenze ai sensi della L. 242 del 2016; il Ministero, dunque, fallì nel tentativo di rendere la disciplina più organica, dando vita, al contrario, a due diversi filoni interpretativi in giurisprudenza di legittimità.
- Secondo un primo orientamento che si può definire “negativo”, la Legge 242/2016 non considera come lecita la commercializzazione dei derivati della coltivazione della Canapa, che siano Hashish o Marijuana, poiché la norma disciplina unicamente l’attività di coltivazione per obiettivi commerciali (art. 1 co. 3 della Legge) ed esclude la commercializzazione dei prodotti composti da inflorescenze e resina.[5] Inoltre, “i valori di tolleranza di THC consentiti dall’art. 4, comma 5, I. n. 242 del 2016 (0,2-0,6%) si riferirebbero solo al principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio. La detenzione e commercializzazione dei derivati della coltivazione disciplinata dalla predetta legge, costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish), rimarrebbero, conseguentemente, sottoposte alla disciplina di cui al d. P. R. n. 309 del 1990.”[6] (Cass. Sez. VI del 17.12.18 n.56737 e Cass. Pen. Sez, VI, 10 ottobre 2018, n. 52003)
- Per un differente indirizzo, cristallizzato in numerose pronunce della giurisprudenza di merito[7], anche i derivati della Canapa rientrano nella filiera agroalimentare la cui commercializzazione è stata promossa dalla novella del 2016 e quindi la possibilità di venderli è un corollario logico giuridico della L. 242/2016. Dalla liceità della coltivazione, inoltre, deriva la liceità dei prodotti che contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6%, “nel senso che non potrebbero più considerarsi (ai fini giuridici), sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del D.P.R. 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto d.P.R..”[8]La fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenterebbe, nell’ottica del legislatore, un coerente punto di equilibrio fra le esigenze cautelari concernenti la tutela della salute e dell’ordine pubblico e quelle legate alla commercializzazione. Al di sotto dello 0,6% i possibili effetti della cannabis non possono valutarsi psicotropi o stupefacenti.
Seguendo quest’ orientamento, in definitiva, si escluderebbe la responsabilità penale di chi coltivi lecitamente (a norma della L. 242/2016) le infiorescenze ed il commerciante o l’agricoltore potrebbero essere sottoposti, al più, soltanto ad un sequestro di matrice amministrativa.[9] Essendo i due orientamenti giurisprudenziali sensibilmente diversi, i sequestri disposti in via amministrativa sono improvvisamente aumentati ed il nodo interpretativo è rimasto immutato, fin quando, recentissimamente, con sentenza Cass. civ. Sez. Un., 10 luglio 2019, n. 30475, le Sezioni Unite si sono eloquentemente espresse.
Alla Suprema Corte è stato sottoposto il seguente quesito: si chiedeva di stabilire se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell’art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 241 e, in particolare, la commercializzazione di Canapa Sativa L., rientrassero o meno, e se sì, in quali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e fossero, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi della normativa”.[10]
La soluzione: Cass. pen. Sez. Un., 10 luglio 2019, n. 30475
Secondo i giudici la disciplina di legge pone il problema di coordinare le nuove norme con quelle del Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti tramite l’utilizzo degli ordinari criteri euristici e considerando la possibilità del legislatore di intervenire a regolare la materia.
Difatti, facendo un passo indietro, il menzionato T.U. vieta la produzione e la circolazione delle sostanze che sono elencate nelle tabelle al Testo allegate. Nella tabella n. II sono inclusi anche la Cannabis e i derivati ottenuti senza differenziare le varietà e la percentuale di principio attivo. È inoltre vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II ex art. 14 ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli indicati dall’art. 27, consentiti dalla normativa dell’UE. Questo significa che il legislatore del 2014 aveva la piena volontà di qualificare la cannabis come sostanza stupefacente.
Nel 2016, invece, la L. 242 attribuiva natura tassativa alle sette categorie di prodotti elencate dall’art. 2 che potevano essere ottenuti dalla coltivazione che risultava lecita sono eccezionalmente rispetto al divieto generale di coltivare la cannabis penalmente sanzionato. La coltivazione di questi prodotti era consentita solo per le finalità espresse tra le quali non rientrava la commercializzazione che restava condotta penalmente rilevante ai senti del TU sugli stupefacenti.
In base a questo excursus, i giudici, in un giudizio di bilanciamento hanno voluto dare centralità alla tipicità del fatto penalmente rilevante ed al principio di concreta offensività della condotta da applicare attraverso la verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti. In questo senso, non rileva il superamento della dose media giornaliera ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione di stupefacente. In particolare, non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta a documentare l’offensività del fatto, bensì l’idoneità della medesima a produrre un concreto effetto drogante.
Pertanto, in base a tale ragionamento, I giudici hanno sintetizzato la disciplina della commercializzazione della Cannabis Light nel seguente principio di diritto: «la commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242 del 2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività».[11]
[1] Tratto da www.wikipedia.org
[2] Tratto da www.treccani.it
[3] Questo è quanto dichiarato dal Vice Ministro Andrea Oliviero. Tratto da www.politicheagricole.it
[4] MARANI S., Stupefacenti, Sezioni Unite: è reato vendere Cannabis Light. Tratto da www.altalex.com
[5] Cass. Pen., n. 4920/2018
[6] Cannabis light e diritto: dal florovivaismo alle sezioni unite della Cassazione. Tratto da www.dolcevitaonline.it
[7] Tribunale di Ancona, 27/07/2018; Tribunale di Rieti 26/07/2018; Tribunale di Macerata 11/07/2018; Tribunale di Asti, 4/07/2018
[8] Cannabis light e diritto: dal florovivaismo alle sezioni unite della Cassazione. Tratto da www.dolcevitaonline.it
[10] MARANI S., Stupefacenti, Sezioni Unite: è reato vendere Cannabis Light. Tratto da www.altalex.com
[11] Cass. pen. Sez. Un., 10 luglio 2019, n. 30475
Immagine tratta da: www.ilsole24ore.com
Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli.
Iscritta all’Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano.
Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo “Il dolo eventuale”, con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello.
In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici.
Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere.
Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell’organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.