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Di Robusta Costituzione

La detenzione domiciliare per i condannati recidivi ultrasettantenni

La detenzione domiciliare per i condannati recidivi ultrasettantenni: la Sentenza n. 56/2021 della Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 56 del 2021 la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’art. 47-ter, comma 1, ord. pen.[1] in materia di accesso alla detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione limitatamente alle parole “né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale[2]” per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

La disciplina prevista dalla norma in esame prevede per persone che abbiano compiuto i settanta anni prima o dopo l’inizio dell’esecuzione della pena che possa essere disposta l’espiazione della medesima nella forma della detenzione domiciliare presso la propria abitazione o altro luogo pubblico di cura o assistenza, fatte salve alcune eccezioni stabilite dalla disposizione stessa. Si introduce, in tal modo, una regolamentazione per il condannato ultrasettantenne più favorevole rispetto a quella prevista dal successivo comma 1, lettera d) per i condannati ultrasessantenni (per i quali si ammette parimenti l’accesso alla detenzione domiciliare purché si tratti di una pena non superiore a quattro anni e che il soggetto sia “inabile anche parzialmente”[3]) e ciò avviene in base ad una duplice considerazione operata dal legislatore: da un lato, si presume diminuita la pericolosità sociale del condannato in ragione dell’età avanzata e che, proprio per tale ragione, sia adeguata la permanenza nel domicilio ai fini del suo contenimento; dall’altro lato, si pone una presunzione di incompatibilità con il regime carcerario di questa categoria di soggetti che, a causa dell’avanzare dell’età, vive con maggiore sofferenza la permanenza in carcere anche in ragione della crescente necessità di cure e assistenza che, difficilmente, possono essere garantite dalle strutture penitenziarie. La misura contemplata dalla norma censurata sembra quindi ispirata, di fatto, al principio di umanità della pena, sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost.

La disciplina, come anticipato, contempla delle eccezioni ed esclude alcune categorie di soggetti dalla misura alternativa della detenzione domiciliare: i condannati per i principali reati contro la libertà sessuale, i condannati per i delitti ex. art. 51, comma 3-bis c.p.p., coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza e infine chi sia stato condannato con l’aggravante della recidiva. Le censure di illegittimità costituzionale riguardano proprio quest’ultima ipotesi: a parere del rimettente, infatti, la preclusione assoluta operata dalla norma nei confronti dei recidivi non sarebbe ragionevole e violerebbe sia il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., nonché “il principio di proporzionalità della pena, connesso alla funzione rieducativa che l’art. 27, terzo comma, Cost. affida alla pena stessa”[4]. La Corte ha ritenuto fondate le questioni prospettate e ha dichiarato parzialmente illegittima la norma in esame limitatamente all’ultimo inciso, il cui venir meno ha aperto la possibilità per i detenuti ultrasettantenni condannati con l’aggravante della recidiva di accedere alla misura della detenzione domiciliare, presentando istanza al magistrato di sorveglianza che sarà chiamato ad una valutazione attuale sulla pericolosità sociale del soggetto istante “da apprezzarsi in concreto sulla base di tutte le circostanze risultanti al momento della decisione sull’istanza relativa”[5].

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1, ord. pen. è stata sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Milano tramite ordinanza n. 134/2020 in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. “nella parte in cui prevede che i condannati ultrasettantenni che abbiano riportato condanne con l’aggravante della recidiva non possono usufruire della misura della detenzione domiciliare prevista dalla norma in esame[6]” e inoltre “nella parte in cui non prevede che i condannati ultrasettantenni che abbiano riportato delle condanne con l’aggravante della recidiva non possono usufruire della misura della detenzione domiciliare prevista dalla norma in esame, salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti cessata o grandemente diminuita la pericolosità del soggetto”[7].

La norma solleva, a parere del rimettente, dubbi di costituzionalità sia in riferimento al principio di “eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza”[8] ex art. 3 Cost., sia in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost. che sancisce la funzione rieducativa della pena. Si mette in evidenza come l’applicazione della recidiva non si basi tanto su un giudizio di maggiore pericolosità del condannato, quanto piuttosto su una valutazione di maggiore gravità del fatto commesso e, se anche si ritenesse l’applicazione di questo istituto derivante da un giudizio di maggiore pericolosità, si tratterebbe in ogni caso di una valutazione non “attuale” rispetto alla decisione sulla misura della detenzione domiciliare, giacché risalirebbe al tempo della sentenza di condanna: un giudizio compiuto da un giudice diverso (giudice del merito), sulla base di elementi diversi e lontano nel tempo (perché effettuato al momento della sentenza di condanna). Sarebbe, inoltre, irragionevole concedere la detenzione domiciliare ai condannati ultrasettantenni senza soglie di pena e precluderla in toto, senza alcun margine di valutazione, a coloro ai quali è stato applicato un istituto che incide solo sulla commisurazione della pena e non è “rappresentativo di pericolosità attuale o non meritevolezza”[9].  La norma nel negare in automatico la concessione della misura ad una serie di categorie di detenuti (ivi compresi quelli condannati con l’aggravante della recidiva), impedisce una qualunque valutazione attuale da parte del magistrato di sorveglianza e di fatto “il giudizio sulla personalità del reo e sulla sua pericolosità soggettiva è bloccato dal meccanismo automatico della norma quando invece – proprio perché ultrasettantenne – egli potrebbe essere concretamente ben lontano nel tempo e nello spazio da contesti, ambienti, occasioni, relazioni, capacità al delitto, in misura tale da neutralizzare nel presente la pericolosità ritenuta nel passato”[10].

Posizione contraria si rinviene nelle argomentazioni addotte dall’Avvocatura generale dello Stato (intervenuta in rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio) la quale richiede che le questioni siano dichiarate infondate: in primo luogo, non si riscontra una incompatibilità di per sé tra l’età del condannato e il regime carcerario, in quanto la misura non è in ogni caso concessa in via automatica, poiché è necessario che il magistrato valuti previamente la concreta meritevolezza del condannato ad accedere alla misura, nonché se la stessa sia idonea a perseguire il duplice obiettivo del recupero e della prevenzione di nuovi reati; in secondo luogo, si evidenzia come la preclusione sia il risultato di una scelta discrezionale compiuta dal legislatore, sindacabile solo in caso di manifesta irragionevolezza (non riscontrabile in questo caso); infine, si sottolinea come la norma in esame non ponga in essere tanto una presunzione assoluta (perché non superabile con prova contraria) di pericolosità, come sostenuto dalle argomentazioni contrarie, quanto piuttosto una “presunzione di inidoneità della detenzione domiciliare”[11] che si fonda su un giudizio sfavorevole al condannato e per tale ragione non si ritiene irragionevole.  Infatti, citando la sentenza n. 73 del 2020 della Consulta, l’Avvocatura mostra come l’applicazione dell’istituto della recidiva si giustifichi laddove il nuovo delitto sia il segno non solo di una pericolosità sociale più marcata, ma anche di un “maggior grado di colpevolezza, legato alla maggiore rimproverabilità della decisione di violare la legge penale nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne”[12] e da queste considerazioni si ritiene non irragionevole (e pertanto non sindacabile) la scelta del legislatore.

La Corte, con la sentenza in esame, dichiara fondate le questioni sollevate in via principale dal rimettente adducendo le seguenti motivazioni.

In primo luogo, si evidenzia come la norma censurata introduca nell’ordinamento una disciplina più favorevole per il condannato ultrasettantenne, poiché non si richiedono ulteriori condizioni per l’accesso alla misura oltre al compimento dei settanta anni e ciò in base a due considerazioni: il legislatore presume, da un lato, diminuita la pericolosità sociale di questa categoria di soggetti in ragione dell’età avanzata, mentre dall’altro lato  presume che il regime carcerario, che impone una “forzata convivenza con un gran numero di altri detenuti”[13], renda più difficile assicurare cure e assistenza adeguate a tali persone. Infatti, la Corte evidenzia come la misura alternativa della detenzione domiciliare sia ispirata, in questo caso, al principio di umanità della pena (sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost.), più che al fine rieducativo del detenuto.

La tendenza a favorire la detenzione domiciliare per questi soggetti non è incondizionata (come già visto in precedenza), poiché il legislatore individua delle cause ostative in presenza delle quali viene meno la presunzione di attenuata pericolosità sociale del condannato.

Tuttavia, la Corte nota, in primis, come la norma censurata sia l’unica nell’ordinamento penitenziario a far discendere conseguenze così preclusive di misure alternative per il recidivo[14] e come il “singolare automatismo preclusivo”[15] non riposi davvero su una valutazione individualizzata del surplus di pericolosità sociale come sostenuto dall’Avvocatura, dal momento che la stessa si rivela solo apparente. Secondo le argomentazioni presentate dall’Avvocatura generale, infatti, l’esclusione dei recidivi dall’accesso alla detenzione domiciliare deriverebbe non da una preclusione assoluta, bensì da una valutazione operata dal giudice della cognizione al momento della sentenza di condanna con l’aggravante della recidiva, che presuppone sia un “giudizio di maggiore gravità del fatto di reato”[16] legata alla scelta di commettere nuovamente un reato nonostante la precedente condanna subita, sia “un giudizio di maggiore pericolosità del condannato, dimostrata dalla sua accentuata propensione a violare la legge penale”[17]: pertanto, il fatto che il giudice del merito abbia applicato l’istituto della recidiva sarebbe il segno di una pericolosità sociale del condannato  tale da giustificare la scelta del legislatore di negare l’accesso alla misura alternativa.

La Corte, tuttavia, sottolinea come questa valutazione individualizzata non sia né attuale, né specifica in quanto la condanna con l’aggravante della recidiva potrebbe non discendere dalla sentenza di condanna “attualmente in esecuzione”[18] ma potrebbe derivare da una pronuncia assai risalente nel tempo.

La norma fa discendere in automatico un effetto preclusivo della detenzione domiciliare da un giudizio svolto da un giudice diverso (il giudice della cognizione) e con oggetto diverso dalla concreta meritevolezza di accedere alla misura alternativa: valutare se il condannato debba espiare la propria pena in carcere o in regime di detenzione domiciliare è un fattore che  normalmente  è oggetto di un giudizio operato dal magistrato di sorveglianza al quale si presenta l’istanza della misura alternativa e dovrebbe essere estraneo “all’orizzonte valutativo del giudice della cognizione”[19]; inoltre la scelta del legislatore non consente di prendere in considerazione eventuali cambiamenti nella condotta del condannato o l’eventuale intrapresa di percorsi di rieducazione nel “lungo periodo che normalmente separa il tempus della commissione del reato ritenuto aggravato dalla recidiva […]  e quello del passaggio in giudicato della relativa sentenza di condanna”[20] e dell’eventuale periodo trascorso in carcere.

Dalle suesposte motivazioni la Corte fa discendere l’irragionevolezza della disposizione censurata sia rispetto all’art. 3 Cost, che all’art. 27, terzo comma, Cost. e ne dichiara l’illegittimità costituzionale limitatamente alle parole “né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale[21].

Con il venir meno dell’ultima parte della disposizione si assiste ad una “riespansione degli ordinari poteri discrezionali della magistratura di sorveglianza[22], la quale di fronte all’istanza del condannato ultrasettantenne recidivo sarà chiamata a operare una valutazione attuale sulla meritevolezza del soggetto istante ad accedere alla detenzione domiciliare, sulla base di elementi e fattori che risultano al momento della definizione della domanda: in tal modo si apre la possibilità per i condannati con recidiva che abbiano raggiunto i settanta anni di accedere alla misura della detenzione domiciliare che prima della sentenza in esame era preclusa in toto.

 

 

[1] Legge n. 354/1975.

[2] Corte Costituzionale, sent. n. 56, 31 marzo 2021.

[3] Art. 47- ter, comma 1, lettera d), ord. pen.

[4] Corte Costituzionale, sent. n. 56, 31 marzo 2021, punto 1.2 del Ritenuto in fatto.

[5] Ibidem, punto 2.6 del Considerato in diritto.

[6] Magistrato di Sorveglianza di Milano, ordinanza n. 134, 20 marzo 2020.

[7] Ivi

[8] Magistrato di Sorveglianza di Milano, ordinanza n. 134, 20 marzo 2020.

[9] Ivi.

[10] Magistrato di Sorveglianza di Milano, ordinanza n. 134, 20 marzo 2020.

[11] Corte Costituzionale, sentenza n. 56, 31 marzo 2021, punto 2 del Ritenuto in fatto.

[12] Ivi.

[13] Corte Costituzionale, sentenza n. 56, 31 marzo 2021, punto 2.1 del Considerato in diritto.

[14] Un riferimento viene fatto, ad esempio, all’ art. 30-quater ord. pen. che prevede condizioni più gravose per l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati con la recidiva reiterata (ex. art. 99, quarto comma, c.p.)

[15] Corte Costituzionale, sentenza n. 56, 31 marzo 2021, punto 2.4 del Considerato in diritto.

[16] Ivi.

[17] Corte Costituzionale, sentenza n. 56, 31 marzo 2021, punto 2.4 del Considerato in diritto.

[18] Ivi.

[19] Corte Costituzionale, sentenza n. 56, 31 marzo 2021, punto 2.4 del Considerato in diritto.

[20] Ivi.

[21] Corte Costituzionale, sentenza n. 56, 31 marzo 2021, punto 2.4 del Considerato in diritto punto 2.6 del Considerato in diritto.

[22] Ivi.

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