lunedì, Dicembre 2, 2024
Labourdì

Professionalità e formazione: considerazioni storiche e problematiche attuali

A cura di Gabriele Longo

 

 

Abstract

In che modo deve porsi un candidato in sede di colloquio di assunzione nel mercato del lavoro odierno? Non si tratta solo della domanda più gettonata tra i neolaureati del ventunesimo secolo ma nell’evolversi del mercato e dell’economia si tratta di un interrogativo che sempre più attanaglia anche chi già un’occupazione ce l’ha e non vuole perderla a favore di chi si dimostra più “flessibile”. Il mercato del lavoro sta cambiando, ma è più importante essere specializzati nel proprio settore o duttili per affrontare qualsiasi richiesta datoriale?

How should a candidate look at today’s job interview? This is not just the most popular demand among 21st century graduates but as the market and the economy evolve it is a question that increasingly grips even those who already have an occupation and do not want to lose it in favor of those who prove more “flexible”. The job market is changing, but is it more important to be specialized in your sector or flexible to face any employer request?

La formazione è definibile alla stregua dello strumento attraverso il quale ampliare il proprio bagaglio di competenze per lo svolgimento ottimale della propria prestazione lavorativa.

Col passare del tempo però, mutando l’idea di lavoro, anche la formazione in quanto elemento strutturale legato al lavoro, ha assunto interpretazioni e sfumature differenti; il lavoro, infatti, non è più inteso alla stregua di un mero mezzo per guadagnarsi da vivere ovvero, seguendo il precetto costituzionale, alla stregua del luogo in cui si  sviluppa e realizza la personalità, ma il lavoro sta diventando sempre più un’ ossessione, è cambiato il modo di pensare al lavoro e di rapportarsi ad esso, basti pensare all’affanno con cui gli under 30 oggi provano ad inserirsi nel mercato attraverso una affannosa ricerca di occupazione.

Pensando alla situazione appena descritta, magari paragonandola a quella, certamente più rosea di 30 anni fa, sembra proprio che il lavoro abbia preso il sopravvento sugli altri aspetti della nostra vita, la negatività che hanno nel tempo assunto i concetti di inoccupazione e disoccupazione nel cotesto sociale ne sono l’esempio evidente.

Pensare al lavoro in un contesto storico differente, come quello del secolo scorso, voleva dire pensare all’industria automobilistica come punto di riferimento, alla base del concetto di lavoro si poneva la c.d. assenza di limiti; l’ingente disponibilità di manodopera e materie prime fungevano da carburante per una produzione massiccia, la quale giustificava un abbassamento dei prezzi.

Si tratta del modello taylor-fordista il quale organizzava mediante contiguità, tale espressione vuole riferirsi al fatto che i lavoratori rendevano la prestazione restando sempre a stretto contatto tra di loro, questo modello organizzativo in seguito venne meno a causa di un cambiamento del modo di intendere il lavoro, che determinò l’avvento del metodo organizzativo “per connessione”.

Nell’organizzazione per connessione la parola chiave fu flessibilità, infatti il fine da raggiungere era il facile mutamento nella gestione della forza lavoro, per cui le imprese che volevano raggiungere questo obiettivo hanno provveduto ad esternalizzare molte delle loro attività, ciò ha portato la dottrina giuslavoristica del tempo ad esprimersi affermando che “l’industria post fordista cresce dimagrendo”.

Le ripercussioni di un siffatto modo di operare si evinsero nel mutamento della professionalità e nella formazione del dipendente, il lavoratore doveva essere sempre più flessibile, questo voleva dire, dal punto di vista datoriale più facilmente assumibile e più facilmente licenziabile, mentre dal punto di vista più strettamente lavorativo, che le pause inutili venivano pressochè azzerate e che il lavoratore avrebbe dovuto essere in grado di prendere delle decisioni operando per obiettivi; tutto ciò ha prodotto come inevitabile conseguenza che il potere di controllo, tradizionalmente ricompreso tra i poteri appartenenti al datore di lavoro poteva, in alcuni casi, essere devoluto agli stessi lavoratori, nella misura in cui veniva loro chiesta la correzione in corso d’opera di determinati errori senza alcuna indicazione da parte di un superiore.

Questo atteggiamento di massimizzazione della flessibilità dipendente ha finito col produrre una responsabilizzazione del lavoratore tale che la sua diligenza era garantita dalla paura di perdere il posto di lavoro, una sorta di clima del terrore in cui appunto, non era nella sostanza necessario alcun provvedimento normativo per garantire la diligenza sul posto di lavoro, non si può però pensare che il sacrificio in termini di responsabilità affrontato dal lavoratore possa essere ripagato solo economicamente, è necessario che ad un aumento della responsabilità corrisponda un aumento del potere attribuito al lavoratore, potere che viene non a caso descritto dalla dottrina come l’altra faccia della responsabilità.

Nel parlare di potere, non si deve questa volta far riferimento all’accezione più diretta del termine, ma al suo significato più sottile, legato piuttosto alla stabilità del lavoratore, in effetti è solo attraverso la stabilità contrattuale che il lavoratore acquista il “potere” di lavorare in serenità. Si tratta di un concetto molto trascurato dalla compagine imprenditoriale, quando in realtà, la riguarda direttamente: non è forse interesse del datore di lavoro porre il lavoratore in una posizione tale da garantire una maggiore produttività? Ed allora, mi permetto di parafrasare l’osservazione della dottrina appena citata affermando che se, senza dubbio, il potere è l’altra faccia della responsabilità, allora bisogna altresì ritenere che il benessere (del lavoratore) è l’altra faccia della produttività.

Questa è una tematica di forte interesse, lo dimostra il fatto che è al centro di molte discussioni anche non prettamente giuridiche. Ad ogni modo quanto detto in termini di benessere riecheggia nelle considerazioni di chi si chiede se forse non sia più coerente puntare alla fidelizzazione dei propri dipendenti piuttosto che su una incessante rotazione della manodopera; ciò che può sembrare un risparmio per l’impresa in termini retributivi, ottenuto mediante la continua rotazione della manodopera in un mercato che contempla, oramai, il triste fenomeno del salario al ribasso, si rivela in realtà un’operazione tutt’altro che conveniente per il datore di lavoro, per almeno due ordini di motivi:

  • In primis si rammenti che nel panorama socioeconomico odierno più che mai vige la regola secondo cui “il tempo è danaro”, ed è evidente che trovare nuovi lavoratori che siano in grado di svolgere una data mansione richiede giocoforza un minimo di formazione, necessaria ogni qualvolta un soggetto è inserito all’interno di un comparto aziendale;
  • In secondo luogo deve prendersi in considerazione che il mercato non solo è spietato, ma inoltre non è affatto insensibile all’altalenante ritmo di produzione derivante dalla disomogeneità delle prestazioni nel lungo periodo (in quanto nel lungo periodo le prestazioni sono rese da lavoratori differenti).

A conti fatti sembrano essere molti di più i proventi che il datore di lavoro perde a causa dei motivi elencati piuttosto che i proventi che il datore di lavoro risparmia assumendo di continuo lavoratore a salari sempre più bassi.

Questa continua richiesta di flessibilità dunque, produce degli effetti negativi non solo per i lavoratori che dal canto loro non trovano quella stabilità necessaria per trascorrere in modo sereno il tempo extra lavorativo, ma anche per le imprese che soffrono invece la perdita di conoscenze che il lavoratore aveva acquisito ma che, a causa della precarizzazione dei rapporti di lavoro, non potrà più mettere a disposizione dell’azienda in quanto sostituito da un altro lavoratore, il quale a sua volta dovrà attingere ai corsi di formazione aziendale o comunque dovrà far esperienza lavorando: nec caput nec pes sermoni apparet.

Tornando però ad analizzare la situazione del lavoratore, questo sembra essere oggetto di una grande contraddizione, il mercato sembra chiedere lavoratori altamente professionalizzati, senza però offrire loro una stabilità, ma come è possibile professionalizzarsi all’interno di un mercato all’insegna del precariato? È la stabilità che deve essere intesa come presupposto per una congrua professionalizzazione.

A fronte di una crescita in termini di autonomia decisionale per alcune categorie di lavoratori, molte altre categorie hanno invece subito il peso di una subordinazione che si è fatta sempre più schiacciante e profonda, soprattutto a causa della riduzione di tutele avvenuta con il passaggio a categorie contrattuali precarie.

La differenza rispetto al fordismo è quindi netta, si è passati dalla chiara distinzione tra un lavoratore ed un inoccupato o disoccupato, ad una condizione storica in cui questa differenza non è più così evidente, anzi si fa sempre più sfumata a causa dell’incessante condizione di precariato.

Alla luce dunque di modo che intendere il lavoro che, sul lungo termine, porta ad un danneggiamento anche delle imprese, l’interrogativo sorge spontaneo: Qui prodest?

Questo tipo di considerazioni critiche sono certamente finalizzate a sottolineare il fatto che non giova a nessuna delle parti un mercato del lavoro inteso in questi termini, ma serve anche ad evidenziare che la vera colonna portante di ogni rapporto di lavoro è la formazione, in quanto rappresenta l’ elemento che più di ogni altro consente di affrontare al meglio le turbolenze dei mercati del lavoro, ignorando questo tipo di ragionamento invece il legislatore ha invece considerato, da sempre, la formazione solo alla stregua di uno strumento strettamente legato alla finalità dell’assunzione, trascurando dunque la prospettiva del lavoratore già inserito nell’organico dei dipendenti, come si può allora pretendere una congrua lettura dell’articolo 35 della costituzione, il quale contempla il principio dell’elevazione professionale? Il diritto al lavoro deve contenere anche il diritto ad acquisire e mantenere, ovvero ad elevare, la propria professionalità per poter svolgere l’attività lavorativa scelta.

 Per ovviare a tale problematica è necessario non solo intraprendere delle politiche del lavoro finalizzate a ridare stabilità ai rapporti di lavoro – in quanto, come anticipato, la stabilità è requisito per una congrua professionalizzazione – ma anche sensibilizzare il mondo datoriale per inculcare una cultura del lavoro in cui la formazione sia costantemente fornita anche in pendenza del rapporto del lavoro, e non solo come strumento per mirare all’assunzione, si badi bene che non si tratta, banalmente, di un discorso finalizzato a ribadire che la continua formazione del lavoratore è necessaria per andare incontro ai repentini cambiamenti di una società sempre più veloce e computerizzata, ma la continua formazione può altresì dimostrarsi idonea a facilitare il dipendente nello svolgimento delle sue mansioni, attraverso l’applicazione di nozioni teoriche che, magari, al tempo in cui il dipendente era stato assunto, non erano ancora in uso; il mutamento dei tempi deve essere inteso solo come una conseguenza in quanto la formazione dovrebbe prescindere da considerazioni storico/sociali, in effetti nulla impedirebbe al dipendente di continuare a svolgere la mansione per la quale è stato assunto con le metodologie adoperate in passato, ma se attraverso la formazione il dipendente può ottenere il medesimo risultato nella metà del tempo, vediamo allora come il piano di discussione non si ferma all’argomento delle esigenze derivanti dal mutamento del tempo, ma include un grande miglioramento delle condizioni del lavoratore.

In conclusione, in un contesto storico in cui il mercato del lavoro non mira più ad assumere ragazzi dotati di professionalità intesa come frutto di una elevata specializzazione, ma cerca lavoratori polivalenti e flessibili, parlare di formazione è indispensabile per evitare che la situazione peggiori ulteriormente, è utile rammentare infatti che il professor Gaeta non sbagliava quando prevedeva che “il nuovo lavoratore saprà fare pure tante cose, ma le saprà fare tutte così così”.

Oggi è già domani.

 

 

Bibliografia:

  • Loffredo A., Diritto alla formazione e lavoro, realtà e retorica, Cacucci editore, 2019.
  • Revelli M., La sinistra sociale oltre la civiltà del lavoro, Bollati Boringhieri,1997.
  • Napoli M., Disciplina del mercato del lavoro ed esigenze formative,, Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, 1997.
  • Gaeta L., Nuove regole per il lavoro che cambia?

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