giovedì, Ottobre 3, 2024
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Quale tutela giuridica per i climate refugees? Il caso Teitiota

  1. Introduzione

Nel 2020, il 95% degli spostamenti correlati a situazioni di conflitto si è verificato in paesi in cui il cambiamento climatico è già realtà[1]: il climate change impatta sul fenomeno migratorio, sia in relazione a disastri naturali come inondazioni o cicloni (c.d. sudden-onset events), sia per quanto riguarda i c.d. slow-onset events, come desertificazione e deforestazione, ossia quei fattori di degradazione ambientale che si manifestano nel medio-lungo termine. A causa di questi fenomeni, entro il 2050 si prevede lo spostamento di 250 milioni di persone, prevalentemente all’interno del territorio di origine, ma anche con l’attraversamento della frontiera e la ricerca di protezione in paesi terzi[2].

La comunità internazionale da tempo coopera al fine di contrastare il climate change, grazie a summit, conferenze e azioni che mettono al centro del dibattito – correttamente – questo fenomeno complesso e le sue ineluttabili conseguenze. Basti pensare alla Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico (COP26) tenutasi a Glasgow recentemente, oppure all’Accordo di Parigi del 2015 che ha avuto il pregio di essere il primo accordo universale sul clima, giuridicamente vincolante a livello mondiale. Tuttavia, mentre le fonti di diritto internazionale guardano al cambiamento climatico come l’urgenza del secolo, per contro, vi è una certa riluttanza da parte dei legislatori nazionali nel riconoscere le cause ambientali di migrazione tramite strumenti giuridicamente vincolanti[3]. Certamente, gli Stati hanno collaborato per la definizione di diverse linee di intervento in materia di climate change e migrazioni: dall’Agenda for the Protection of Cross-Border Displaced Persons (2015)[4], al Global Compact on Refugees (2018)[5], in cui si è evidenziato come la degradazione ambientale e i disastri climatici impattino in misura sempre maggiore sui movimenti migratori. Non di meno, il diritto internazionale non ha riconosciuto la nozione di rifugiato climatico ai sensi e per gli effetti della Convenzione di Ginevra: si parla piuttosto di “migrante climatico” in relazione al movimento della persona o al gruppo di persone che “predominantly for reasons of sudden or progressive change in the environment due to climate change, are obliged to leave their habitual place of residence, or choose to do so, either temporarily or permanently, within a State or across an international border”[6].

Il cambiamento climatico ha una propria rilevanza nel contesto della protezione internazionale dal momento che agisce da “threat multiplier” nei territori interessati da conflitto: acuisce le tensioni già presenti e apre a potenziali forme di abuso e discriminazione. Gli effetti avversi del cambiamento climatico e dei disastri ambientali si accompagnano spesso a sistemi di governance poco stabili, tensioni politiche e religiose, che fanno sì che i soggetti socialmente vulnerabili siano costretti ad abbandonare il proprio paese e a cercare protezione altrove.

  1. Il caso Teitiota c. Nuova Zelanda

Le osservazioni del Comitato dei diritti umani dell’Onu sul caso Teitiota contro Nuova Zelanda[7] rappresentano un passo avanti fondamentale per il riconoscimento di una tutela giuridica per il migrante climatico. Nel caso di specie, la decisione trae origine dal ricorso presentato da un cittadino di Kiribati avverso la decisione del Tribunale neozelandese che non riconosceva nei suoi confronti il diritto di asilo. Il signor Teitiota lamentava come il rimpatrio a Kiribati avesse compromesso il diritto alla vita sancito dall’art. 6(1) del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite (in seguito, “PIDCP”)[8], alla luce delle conseguenze provocate dall’innalzamento del livello del mare, ossia la progressiva erosione della costa, la salinizzazione dei terreni, la carenza d’acqua dolce per le colture e l’allevamento. L’impatto di questi fenomeni si misura nella quotidianità della comunità dell’isola di Tarawa e si traduce nella scarsità di acqua potabile per soddisfare il fabbisogno di una popolazione sempre più ristretta in un territorio che va rimpicciolendosi. A ciò si aggiungano la crisi abitativa e i conflitti per i terreni che contribuiscono a generare un clima di violenza diffusa, di cui le vittime sono molte. Il signor Teitiota e la famiglia decidono di migrare a fronte di una situazione diventata di fatto insostenibile[9].

La decisione offre numerosi spunti di riflessione: in primis perché[10] contribuisce a sedimentare la giurisprudenza sul principio di non respingimento, a mente della quale il principio opera a fortiori quando si rende necessaria la tutela dei diritti di cui all’art. 6 e 7 PIDCP. Secondo l’interpretazione degli artt. 6 e 7 del PIDCP, l’obbligo di non rimpatriare, deportare o trasferire deve essere inteso in modo più ampio rispetto al principio di non refoulement sancito dal diritto internazionale dei rifugiati; di conseguenza tale principio può essere applicato anche a coloro che non ricadono nella definizione di rifugiato In secondo luogo, il Comitato ribadisce la persistente responsabilità degli Stati nel porre in essere tutte le misure necessarie per assolvere agli obblighi positivi discendenti dalla tutela del diritto alla vita[11]. Nel caso di Kiribati, il Comitato riconosce che l’innalzamento del livello del mare renderà l’isola inospitale già nel prossimo decennio, ma che in questo arco di tempo la Repubblica di Kiribati potrà, con l’assistenza della comunità internazionale, adottare misure per proteggere la popolazione e, se necessario, ricollocarla[12]. Il Comitato afferma che, al tempo dei fatti di causa, la Repubblica di Kiribati stava già compiendo tutti gli sforzi necessari a tutelare i suoi cittadini e, per questo motivo, la decisione del Comitato è sfavorevole per il signor Teitiota. Non di meno, la portata innovativa di questa pronuncia risiede nell’applicare un integrated approach tra legislazione sui diritti umani e legislazione in materia di asilo[13], avvalorando la tesi per cui la compromissione di diritti quali l’accesso all’acqua e al cibo può tradursi in una violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti[14]. Tra le sentenze citate dal Comitato spicca il richiamo alla sentenza della CEDU sul caso Ilva[15] in cui si afferma che “danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata”.

La pronuncia del Comitato ONU, in definitiva, permette di bypassare la rigidità della nozione di rifugiato prevista dalla Convenzione di Ginevra[16], ampliando lo spettro della protezione dei diritti dell’uomo attraverso il rafforzamento del principio di non refoulement, sia nelle ipotesi di sudden-onset events che per gli slow-onset events, a condizione che si provi la sussistenza di un rischio effettivo, individualizzato e ragionevolmente prevedibile per il diritto alla vita.

  1. La questione dei migranti climatici nell’ordinamento italiano: prima e dopo Teitiota c. Nuova Zelanda

La pronuncia del Comitato per i diritti umani dell’ONU ha avuto un’eco anche nella giurisprudenza delle corti nazionali. La Corte di Cassazione, nella nota sentenza n. 4455/2018[17] aveva già evidenziato che quando i diritti fondamentali del richiedente asilo sono pregiudicati da motivi di carattere ambientale, il c.d. giudizio di comparazione con il livello di integrazione sociale raggiunto in Italia[18] non è più necessario, perché queste situazioni di estrema povertà e disastro ambientale sono di per sé espressione del necessario riconoscimento della protezione umanitaria[19]. A voler risalire ulteriormente nel tempo, la Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo, nel luglio 2015, aveva diramato una Circolare[20] in cui erano incluse tra le ipotesi di riconoscimento della protezione umanitaria le “gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi ad un rimpatrio in dignità e sicurezza”. In seguito, il d.l. del 4 ottobre 2018 n. 113, avendo abolito l’istituto della protezione umanitaria, ha lasciato sul tavolo, tra gli altri, il permesso di soggiorno per calamità naturali di cui all’art. 20-bis, di durata semestrale, rinnovabile al permanere delle condizioni di eccezionale calamità ed in ogni caso non convertibile in un permesso di lavoro più “stabile” come il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a riprova di un giudizio di tolleranza temporanea della persona sul territorio, alla quale si dà la possibilità di lavorare senza nessuna prospettiva di potersi stabilirsi nel lungo termine[21]. La norma prendeva in considerazione, ai fini del rilascio del titolo, eventi di carattere “contingente ed eccezionale” a conferma del carattere precario e temporaneo della permanenza della persona: si tratta, infatti, di un permesso di soggiorno non idoneo a coprire le situazioni analoghe a quelle del sig. Teitiota[22]. È poi interessante rilevare che l’ordinamento italiano non prevede alcuna tipologia di visto di ingresso in relazione alle ipotesi di calamità: questo tipo di permesso, nei limiti delle possibilità di rinnovo e conversione, è pensato per regolarizzare la presenza dello straniero in Italia. L’assenza di una tipologia di visto esclude che, a seguito di un disastro, una certa quota di persone possa cercare protezione altrove per lavorare ed inviare rimesse alla famiglia nel paese di origine.

In seguito, il d.l. 130/2020 ha apportato una modifica terminologica di rilievo, sostituendo i requisiti della contingenza ed eccezionalità dell’evento, per far spazio ad una valutazione più ampia sulla “gravità della calamità”. Tale valutazione, seppur favorevole al richiedente, rimane pur sempre soggetta alla discrezionalità del Questore che rilascia il permesso, di talché diversi studiosi paventano il rischio che in assenza di criteri specifici per il rilascio, si generi una situazione di disparità di trattamento da questura a questura[23]. Ad ogni modo, preme evidenziare che il numero di permessi di soggiorno per calamità rilasciati in Italia non rappresenta una cifra significativa

Per questo motivo, sembra più utile soffermare l’attenzione sulla recente pronuncia della Cassazione nell’ambito del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale, dal momento che il Giudice di legittimità riprende il ragionamento della pronuncia Teitiota c. Nuova Zelanda nell’accogliere il ricorso presentato da un cittadino nigeriano.

Nell’ordinanza n. 5022 del 24 febbraio 2020[25], la Cassazione, come già il Tribunale, dà atto del contesto di instabilità dell’area del Delta del Niger, dove la popolazione locale non beneficia delle risorse petrolifere i cui proventi sono in mano alle società petrolifere ivi presenti: ne consegue una condizione di insicurezza legata a sabotaggi, danneggiamenti e rapimenti di persone. La Cassazione ribadisce, sulla scorta di quanto affermato nella pronuncia Teitiota, che “quando il giudice di merito ravvisi, in una determinata area, una situazione idonea a integrare un disastro ambientale, o comunque un contesto di grave compromissione delle risorse naturali cui si accompagni l’esclusione di intere fasce di popolazione dal loro godimento, la valutazione della condizione di pericolosità diffusa esistente nel Paese di provenienza del richiedente, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, va condotta con specifico riferimento al peculiare rischio per il diritto alla vita e all’esistenza dignitosa derivante dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico o dallo sviluppo insostenibile dell’area”.

In definitiva, con questa decisione della Cassazione si apre un nuovo filone giurisprudenziale che mette in luce la necessità di riconoscere l’esistenza dei migranti ambientali: al di là delle etichette di rifugiato, migrante climatico, migrante ambientale e via dicendo, ciò che preme è dare una tutela giuridica a queste persone, abbandonando l’approccio securitario per volgere l’attenzione ad una gestione organizzata della migrazione, in vista di un fenomeno, quale il climate change, che sembra ineluttabile.

[1] Internal Displacement Monitoring Centre, Internal displacement in a changing climate, 2021.

[2] Stabilire una stima esatta risulta impossibile stante l’assenza di una definizione univoca di migrante climatico. Sul punto, esistono varie previsioni che vanno dai 200 milioni al miliardo a seconda dei parametri scelti da chi raccoglie i dati. F. Laczko, C. Aghazarm, Migration, Environment and Climate Change: Assessing the Evidence, disponibile https://publications.iom.int/system/files/pdf/migration_and_environment.pdf, 2009.

[3] C. Scissa, Migrazioni ambientali tra immobilismo normativo e dinamismo giurisprudenziale: un’analisi di tre recenti pronunce, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2, 2021.

[4] The Nansen Initiative, Agenda for the protection of cross-border dispiace persons in the context of disasters and climate change, 2015.

[5] UN, Global Compact on Refugees, New York, 2018.

[6] IOM, Migration and the Environment, Discussion Note: MC/INF/288, in occasione del IOM Council, 27-30 Novembre 2007, Geneva.

[7] UN Human Rights Committee, Ioane Teitiota v. New Zealand, CPR/C/127/D/2728/2016, 7 gennaio 2020, https://www.refworld.org/cases,HRC,5e26f7134.html

[8] UN, International Covenant on Civil and Political Rights, disponibile OHCHR | International Covenant on Civil and Political Rights).

[9] Ivi, §2.1

[10] §9.3, UN Human Rights Committee, General comment No. 36 (CCPR/C/GC/36), §31.

[11] Ivi, §9.14.

[12] Ivi, §9.12.

[13] V. Chetail, Moving towards an Integrated Approach of Refugee Law and Human Rights Law, in C. Costello, M. Foster, J. McAdam (a cura di), The Oxford Handbook of International Refugee Law, Oxford University Press, 2021.

[14] A. Brambilla, M. Castiglione, Migranti ambientali e divieto di respingimento, in Questione Giustizia, rubrica Diritti senza Confini, disponibile

[15] Corte Europea Diritti dell’Uomo, ricorsi nn. 54414/12 e 54264/15, Cordella et al. c. Italia, 24 gennaio 2019.

[16] W. Kälin, N. Schrepfer, Protecting People Crossing Borders in the Context of Climate Chance, Normative Gaps and Possible Approaches, 2012.

[17] Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 4455, 23 febbraio 2018.

[18] Per un aggiornamento sulle ultime pronunce della Cassazione in materia di giudizio di comparazione, A. Palmisano, Le Sezioni Unite n. 24413/2021 sulla protezione umanitaria: cronaca di una decisione annunciata, Ius in itinere, 22 dicembre 2021, disponibile in https://www.iusinitinere.it/le-sezioni-unite-n-24413-2021-sulla-protezione-umanitaria-cronaca-di-una-decisione-annunciata-40917

[19] C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, in Questione giustizia, Giurisprudenza e documenti disponibile: https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-per-motivi-di-integrazion_14-03-2018.php

[20] Commissione nazionale per il diritto di asilo, Circolare prot. 00003716 del 30.07.2017, Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Ipotesi in cui ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

[21] F. Santolini, Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove vanno, Rubettino, 2019, p. 75.

[22] C. Scissa, La protezione per calamità: una breve ricostruzione dal 1996 ad oggi, in Forum di Quaderni Costituzionali, 1, 2021, disponibile https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2021/01/09-Scissa-FQC-1-21.pdf

[23] Nota 19 e 13

[24] I dati ISTAT consultati, nell’indicare quante persone presenti sul territorio abbiano un certo tipo permesso di invece di un’altro, non riporta alcun dato rispetto al numero di permessi di soggiorno per calamità rilasciati.  Dati disponibili: https://www.istat.it/it/files/2021/10/Cittadini-non-comunitari_2020_2021.pdf

[25] Cass. Civ. Sez. II, ordinanza n. 5022, 24 febbraio 2021

Isabella Pagin

Isabella Pagin, dottoressa in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Ferrara e (ormai ex) studentessa del Percorso d'Eccellenza Andrea Alciato, con focus sul diritto europeo ed internazionale. Padovana di origine, ma mi sto milanesizzando... Volevo dire ambientando!

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