Reato di diffamazione aggravata con un semplice “clic”
In un’era digitale come la nostra, nove persone su dieci sono presenti su almeno un social network, e perlomeno otto sono iscritte su Facebook, la piattaforma più nota al mondo.
Nessuno di loro, però, può immaginare di commettere un reato con un semplice “clic”.
L’affermazione può sembrare curiosa, ma gli strumenti che il colosso mondiale mette a disposizione dei suoi utenti talvolta rischiano di essere utilizzati nel modo sbagliato e la pubblicazione di un post denigratorio e offensivo sulla propria bacheca Facebook può ingenerare la condotta del reato di cui all’art. 595 c.p.
La diffamazione ex art. 595 c.p., così come l’ingiuria[1] disciplinata in apertura del Capo II – Libro II, si sostanzia in un insulto, con la differenza che nell’ingiuria ad essere leso è l’onore personale, nella diffamazione viene invece lesa la reputazione personale di un soggetto in un contesto allargato e non in un rapporto dialogico. Questo è quello che accade su Facebook ogni volta che vengono rese pubbliche delle offese, facilmente riconducibili ad un soggetto agente, con la evidente circostanza che il messaggio ingiurioso è pubblicato su un mezzo idoneo a raggiungere più destinatari.
Presupposti per la diffamazione a mezzo Facebook sono: a) la precisa individualità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose; b) la comunicazione con più persone alla luce del carattere pubblico dello spazio virtuale e la possibile sua incontrollata diffusione; c) la coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo[2].
In questi termini si è espressa la Suprema Corte la quale ha statuito che «La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone» ed infatti «il reato tipizzato all’art. 595 c.p.p., comma 3 quale ipotesi aggravata del delitto di diffamazione trova il suo fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa. D’altra parte lo strumento principe della fattispecie criminosa in esame è quello della stampa, al quale il codificatore ha giustapposto “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” […]»[3].
Inoltre, è principio di pacifica acquisizione giurisprudenziale che, ai fini dell’apprezzamento della valenza lesiva di determinate espressioni, le stesse debbano essere contestualizzate, ossia rapportate al contesto spaziotemporale nel quale siano state pronunciate, tenuto altresì conto dello standard di sensibilità sociale dei tempo[4] (v. ad. es.Sez. 5, n. 10420 del 15/11/2007 – dep. 06/03/2008, Riccardi, Rv. 239109).
Reato di diffamazione aggravata anche per chi commenta
Invero, se numerosi sono gli asserti giurisprudenziale in materia circa la pubblicazione di post diffamatori, è recente una pronuncia del Tribunale di Campobasso[5] secondo la quale il reato di diffamazione può realizzarsi anche nei confronti di chi semplicemente aggiunge al post originale un successivo commento, avente la medesima portata offensiva, in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione nella considerazione dei consociati.
Pertanto se la Suprema Corte è concorde nel ritenere che «la condotta di postare un commento (ndr. post) sulla bacheca facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo è tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.p[6]» il Tribunale di Campobasso ha precisato che a nulla vale, per escludere la rilevanza penale della condotta degli altri imputati, la considerazione che a differenza del soggetto agente principale, questi si siano solamente “limitati” ad aggiungere al post da altri pubblicato un mero commento successivo.
Neppure è sufficiente a escludere la responsabilità penale degli imputati il riferimento all’art. 21 Cost. i cui limiti naturali sono costituiti dal rispetto altrui e dalla tutela dell’ordine pubblico e del buon costume, nonché dal diritto di ogni cittadino all’integrità dell’onore, del decoro, della reputazione. Nondimeno, il fatto che il post in questione, comprensivo dei commenti denigratori, sia poi stato rimosso e diventato non più visibile sul profilo Facebook, non è valso a scagionare gli imputati, essendosi, il reato, già perfettamente consumato all’atto della percezione delle frasi denigratorie da parte di più di una persona.
È bene precisare, però, che nell’analisi delle condotte diffamatorie rilevano diversi elementi per cui non tutti i commenti a prima vista offensivi risultano poi integranti una fattispecie di reato. Difatti, la Corte di Cassazione con una illuminante pronuncia del 2015[7], ancora una volta in tema di diffamazione via Facebook, ha tentato di racchiudere il reato ex art. 595 c.p. nei limiti determinati e logicamente prevedibili che la lettera della stessa legge gli impone. La S.C. ha statuito che una condotta intrinsecamente inoffensiva non può non essere ritenuta tale solo perchè la stessa dovrebbe considerarsi indirettamente e implicitamente adesiva a quella diffamatoria commessa in precedenza da altri […]. Il che risulterebbe per l’appunto errato nella misura in cui, per un verso, attribuisce all’art. 595 c.p., contenuti ultronei rispetto a quelli effettivamente ricavabili dalla lettera della disposizione incriminatrice e, per l’altro, finisce per negare qualsiasi effettività alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost.
[1]L’ingiuria ex art. 594 c.p.è stata depenalizzata con il decreto legislativo 15 gennaio 2016 n. 7 recante “Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili” in attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67.
[2] www.altalex.com
[3] Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 24431 del 28/04/2015 Cc. (dep. 08/06/2015) Rv. 264007. In senso parzialmente difforme si veda Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 4873 del 14/11/2016 Cc. (dep. 01/02/2017) Rv. 269090, per cui «La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza anche dell’aggravante di cui all’art. 13 della legge n. 47 del 1948).».
[4] Cass. Pen., sez. V, sentenza 13 luglio 2015, n. 451
[5] Tribunale di Campobasso, Sezione Penale, Sentenza 2 ottobre 2017 n. 396
[6] Cass. Pen. Sez. V, sentenza 1 marzo 2016, n. 8328
[7] Cass. Pen, Sez. V, sentenza 21 settembre 2015, n. 3981
Piera Di Guida nasce a Napoli nel 1994.
Ha contribuito a fondare “Ius in itinere” e collabora sin dall’inizio con la redazione di articoli. Dopo la maturità scientifica si iscrive alla facoltà di giurisprudenza Federico II di Napoli e nel 2015 diviene socia ELSA Napoli (European Law Student Association).
Ha partecipato alla redazione di un volume dal titolo “Cause di esclusione dell’antigiuridicità nella teoria del reato- fondamento politico criminale e inquadramento dogmatico”, trattando nello specifico “Lo stato di necessità e il rifiuto di cure sanitarie” grazie ad un progetto ELSA con la collaborazione del prof. Giuseppe Amarelli ordinario della cattedra di diritto penale parte speciale presso l’università Federico II di Napoli.
Seguita dallo stesso prof. Amarelli scrive la tesi in materia di colpa medica, ed approfondisce la tematica della responsabilità professionale in generale. Consegue nel 2017 il titolo di dottore magistrale in giurisprudenza con votazione 110/110.
Nell’anno 2016 ha sostenuto uno stage di 3 mesi presso lo studio legale Troyer Bagliani & associati, con sede a Milano, affiancando quotidianamente professionisti del settore e imparando a lavorare in particolare su modelli di organizzazione e gestione ex d.lgs. n. 231/01 e white collar crimes. Attualmente collabora con lo Studio Legale Avv. Alfredo Guarino, sito in Napoli.
Ha svolto con esito positivo il tirocinio ex art.73, comma 1 d.l. n.69/2013 presso la Corte d’Appello di Napoli, IV Sezione penale.
Nell’ottobre 2020 consegue con votazione 399/450 l’abilitazione all’esercizio della professione forense.
Dal 27 gennaio 2021 è iscritta all’Albo degli Avvocati presso il Tribunale di Napoli.
Un forte spirito critico e grande senso della giustizia e del dovere la contraddistinguono nella vita e nel lavoro.
Email: piera.diguida@iusinitinere.it