venerdì, Aprile 26, 2024
Uncategorized

Street photography e tutela del diritto all’immagine

a cura di Dott. Gennaro Calimà

Il presente contributo si propone di comprendere se e in che misura l’esercizio di un particolare genere fotografico sia lesivo del diritto all’immagine. Il genere fotografico in questione è la street photography (in inglese, fotografia di strada) per mezzo della quale ci si propone di riprendere le persone in situazioni del tutto spontanee e il più possibile aderenti alla realtà in modo tale da immortalare una quotidianità autentica. Emerge tuttavia come, al fine di catturare tale spontaneità, il fotografo si trovi costretto nella stragrande maggioranza dei casi a scattare all’insaputa del soggetto o dei soggetti inquadrati ovvero a scattare in condizioni tali da non essere in grado di richiedere un eventuale consenso alla pubblicazione. Ed è alla luce di ciò che entra in gioco il diritto all’immagine e i leciti dubbi sull’ammissibilità della street nel nostro ordinamento.

Il prosieguo della trattazione rende necessaria una puntuale comprensione circa la natura del diritto in questione, la quale comprensione può essere raggiunta soltanto per mezzo di una disamina di tipo diacronico. La prima fonte ordinamentale che ha rappresentato un riconoscimento del diritto all’immagine coincide con il regio decreto-legge 7 novembre 1925 n. 1950 nel quale, all’articolo 11, si afferma espressamente che “il ritratto di una persona non può essere pubblicato o messo in commercio senza il consenso espresso o tacito della persona medesima”, per poi precisare che “è libera la pubblicazione del ritratto quando abbia scopi scientifici, didattici, e, in genere, culturali, o si riferisca a fatti o avvenimenti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. La regola del consenso dell’interessato è stata poi assorbita dalle disposizioni contenute nella legge 22 aprile 1941 n. 633 la quale, agli articoli 96 e 97, ha altresì esteso il novero delle cause di giustificazione, includendo la notorietà della persona interessata, il fatto che essa ricopra un ufficio pubblico e le necessità di polizia e di giustizia. Il legislatore del ’41 ha poi tenuto a precisare che non si può procedere alla pubblicazione dell’immagine senza consenso nel momento in cui questa “rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritratta”.

Un anno più tardi, il Codice civile del 1942 introdusse una breve disciplina relativa al diritto in esame nell’articolo 10 il quale tuttavia non fornisce una definizione del diritto né aggiunge altro rispetto alla legge 633, ma si limita solo a prevedere le conseguenze di un’utilizzazione abusiva dell’immagine altrui, conseguenze consistenti nelle tutele inibitoria e risarcitoria esperibili dalla persona effigiata e dagli altri soggetti interessati.

Il punto di svolta nell’evoluzione del diritto all’immagine si ebbe grazie all’introduzione della Costituzione repubblicana nel 1948 e alle successive pronunce della giurisprudenza di legittimità. Fu proprio la Corte di Cassazione, nell’ambito del celeberrimo caso Veronesi, a stabilire che il diritto all’immagine è un diritto fondamentale della persona umana che, sebbene non abbia un’immediata collocazione costituzionale, può certamente trarre fondamento dall’articolo 2, una norma volta alla costituzionalizzazione di tutti quei diritti e quelle libertà che non sono espressamente richiamate dalla Legge fondamentale. Nello specifico, il diritto all’immagine viene qualificato come uno dei tanti elementi dell’identità personale, uno di quegli elementi cioè che sono in grado di definirla, al pari del nome, dell’orientamento politico, dell’orientamento sessuale, ecc., e pertanto diretta espressione della personalità umana[1]. Appare quindi evidente come, alla luce di questa nuova interpretazione, con la quale si è voluto qualificare l’immagine non tanto come la mera riproduzione del volto dell’effigiato quanto come elemento dell’identità personale, il più immediato ed esteriore, la persona possa ragionevolmente nutrire un meritevole interesse a che la sua immagine venga posta in una certa cornice di riservatezza[2].

E infatti, l’ultimo riferimento normativo a livello nazionale è rappresentato dal decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 (il cosiddetto codice della privacy) così come modificato e integrato a seguito dell’introduzione del Regolamento UE 2016/679 (il cosiddetto GDPR, dall’inglese General Data Protection Regulation) nel quale l’immagine assurge a pieno titolo a dato personale in base soprattutto alla definizione contenuta nella direttiva, ora abrogata, 95/46/CE il cui considerando 14 stabiliva che per dato personale deve intendersi anche qualsiasi dato in forma di suono o immagine relativo alle persone fisiche. La qualificazione dell’immagine come dato personale ha allora originato un diritto della persona a mantenere la riservatezza in ordine anche alla propria immagine oltre che a tutti gli altri dati personali.

Analizzate le fonti resta ora da capire se e in che modo la street photography sia idonea a ledere il diritto all’immagine. Occorre innanzitutto specificare che la lesione del diritto in esame può realizzarsi tanto al momento dello scatto quanto al momento della pubblicazione dello stesso. Fino a pochi anni fa non sussistevano particolari limitazioni al fotografare sconosciuti per strada o in luoghi pubblici o aperti al pubblico nel senso che era generalmente possibile e senza adempiere ad alcuna formalità fissare l’immagine altrui su un qualunque supporto, fosse esso digitale o analogico. L’emanazione della legislazione a tutela della privacy ha però sovvertito questa opinione[3]. Scattare una fotografia ad un soggetto, infatti, altro non è che una forma di trattamento dei dati personali ai sensi dell’articolo 4 GDPR, il quale qualifica come trattamento una qualunque operazione applicata ai dati personali, come per esempio la raccolta, e specifica che ogni forma di trattamento deve essere subordinata al consenso della persona interessata, nel nostro caso della persona che si vuole ritrarre. In altri termini, la semplice attività del fotografare un certo soggetto dovrebbe essere subordinata al suo consenso il quale presuppone di certo una messa al corrente circa la volontà di effettuare lo scatto. A queste condizioni il genere della street photography però non avrebbe motivo di esistere e perderebbe per intero la sua essenza, certo, il fotografo potrebbe anche comunicare l’intenzione di effettuare gli scatti, ma il risultato non sarebbe il medesimo. Lo stesso GDPR tuttavia, ai sensi dell’articolo 6, tende a precisare che il consenso non è necessario ogniqualvolta il titolare del trattamento (nel nostro caso il fotografo) intenda con esso perseguire un proprio interesse legittimo, sempre che nel caso concreto non prevalgano i diritti, le libertà fondamentali, la dignità o un qualunque altro legittimo interesse dell’interessato. A questo punto è lecito chiedersi quali possano essere gli interessi legittimi sopra menzionati attribuibili al fotografo e a questa domanda risponde l’articolo 85 del medesimo Regolamento il quale testualmente dispone al secondo comma che “ai fini del trattamento effettuato a scopi giornalistici o di espressione accademica, artistica o letteraria, gli Stati membri prevedono esenzioni o deroghe rispetto ai capi II (principi), III (diritti dell’interessato), IV (titolare del trattamento e responsabile del trattamento), V (trasferimento di dati personali verso paesi terzi o organizzazioni internazionali), VI (autorità di controllo indipendenti), VII (cooperazione e coerenza) e IX (specifiche situazioni di trattamento dei dati) qualora siano necessarie per conciliare il diritto alla protezione dei dati personali e la libertà d’espressione e di informazione”. In altre parole, per il legislatore europeo le regole generali in materia di trattamento dei dati personali possono cedere il passo se sussistono esigenze ritenute preminenti, tra le quali rientra senza dubbio la libertà di espressione artistica del fotografo. Non a caso l’articolo 136 del codice della privacy, recependo il dispositivo europeo, afferma espressamente che il trattamento è lecito anche senza previo consenso se “finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione anche occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell’espressione accademica, artistica e letteraria”.

Ciò non significa che l’attività dello street photographer sia illimitata, anzi. Rimanendo nella disciplina relativa alla tutela della privacy è del resto lo stesso GDPR a cristallizzare il principio della minimizzazione dei dati secondo cui essi devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati”, così come il principio di proporzionalità secondo cui deve sussistere un certo bilanciamento tra tutti gli interessi in gioco. Sempre la normativa europea poi, come precedentemente visto, attribuisce una maggiore rilevanza a diritti e libertà fondamentali, tra cui principalmente la dignità, della persona interessata al trattamento.

Un altro limite sembra applicabile poi alla fotografia avente ad oggetto minori di età. In questo caso infatti l’indubbia vulnerabilità in cui versa il minore fa sorgere problematiche non indifferenti per il fotografo, anche sul piano morale. Al riguardo né il GDPR né il codice della privacy stabiliscono alcunché, se si esclude la disciplina relativa ai servizi della società dell’informazione[4], per cui sembra ragionevole ritenere che le deroghe alla regola del consenso giustificate da esigenze di libertà di espressione siano applicabili anche nei casi in cui i soggetti che si vogliono ritrarre siano minori. Invero, la Convenzione sui Diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU a New York nel 1989 (e ratificata dall’Italia nel 1991) cristallizza all’articolo 3 il principio del superiore interesse del minore, nel senso che in tutte le decisioni che li riguardano l’interesse dei minori deve essere considerato preminente e appunto superiore rispetto a qualunque altro interesse in gioco. Emerge pertanto come, nel nostro caso, la libertà di espressione, anche se avente finalità artistiche, cede inevitabilmente il passo al diritto del minore alla riservatezza in ordine alla propria immagine. Tra l’altro, entrando nel dettaglio, l’articolo 8 della medesima Convenzione stabilisce espressamente che “gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità” tra i cui elementi, in base a quanto sopraesposto, rientra anche l’immagine. Per cui, qualora lo street photographer voglia ritrarre soggetti minori di età sembra indispensabile l’ottenimento del previo consenso da parte di chi esercita la responsabilità genitoriale o in generale la rappresentanza legale.

Anche la legislazione penale pone dei limiti importanti, il riferimento è all’articolo 615-bis del Codice penale il quale sanziona le cosiddette interferenze illecite nella vita privata, integrando tali interferenze l’utilizzazione di strumenti idonei ad acquisire immagini attinenti alla vita privata nelle abitazioni altrui o nei luoghi di privata dimora[5].

Nel caso in cui invece il fotografo voglia ritrarre gli attimi di un evento pubblico quale una manifestazione, un corteo, ecc. non sembrano sussistere particolari limiti nell’esercizio della sua attività. I partecipanti all’evento pubblico infatti sono ben consapevoli di poter essere ritratti in immagini o riprese video per cui sembra possibile riscontrare un consenso implicito, interpretabile per comportamenti concludenti (ossia la partecipazione stessa all’evento), all’essere immortalati, del resto, sarebbe materialmente impossibile ottenere la liberatoria di tutti i partecipanti. Ovviamente in concreto i problemi sono ben maggiori, si pensi alla persona che si trovi sì nel bel mezzo di un corteo ma soltanto perché è l’unico modo per raggiungere la sua abitazione. È evidente che in questo caso la persona coinvolta non stia in realtà partecipando alla manifestazione pubblica e di conseguenza non si possa affermare che abbia espresso il consenso implicito ad essere ritratta, per cui sembra indispensabile il previo ottenimento di una liberatoria.

Come detto, oltre che al momento dello scatto, il diritto all’immagine può ritenersi leso anche in fase di eventuale pubblicazione, la cui disciplina è quella contenuta nella già analizzata legge sul diritto d’autore del 1941, che è opportuno richiamare. Ai sensi della legge 633 la pubblicazione dell’immagine altrui necessita di un previo consenso mediante liberatoria, da farsi in qualunque forma, della persona interessata tranne in casi eccezionali individuati dalla stessa fonte normativa. I casi eccezionali in questione sono la notorietà dell’effigiato o il fatto che ricopra un ufficio pubblico, le necessità di giustizia o di polizia, il valore scientifico, didattico o culturale dell’immagine e infine il fatto che essa sia collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

Premesso quindi che la regola generale è quella del consenso, anche in questo caso esiste un’importante deroga. È infatti indubbio che l’immagine risultante dalla street photography abbia un importante valore artistico e culturale[6] tale da far ragionevolmente soccombere la regola del consenso. Tale causa di giustificazione non sussiste però, occorre precisarlo, nel momento in cui l’immagine venga utilizzata in qualità di materiale pubblicitario o promozionale per eventi a pagamento o con finalità lucrative, quandanche tali eventi avessero un oggettivo valore didattico, culturale o artistico[7]. Nel nostro caso quindi, l’immagine altrui non potrebbe essere utilizzata per pubblicizzare un certo evento ovvero non potrebbe rappresentare materiale espositivo di una mostra fotografica a pagamento.

Sono poi fatti salvi i limiti insiti nella stessa legge 633, tanto che non si può procedere alla pubblicazione senza il consenso dell’effigiato se l’immagine può in qualche modo recare pregiudizio al suo onore, reputazione e decoro. Sembra pertanto evidente l’impossibilità di procedere alla pubblicazione di tutte quelle immagini che ritraggono situazioni imbarazzanti o che ad altro titolo offendono la persona ritratta. Al riguardo è utile accennare ad una sentenza della Corte di Cassazione nella quale viene fatto notare come “chi sia costretto a praticare la mendicità e venga additato come tale si sentirà mortificato e gravemente ferito nella sua onorabilità” qualora la sua immagine venga resa pubblica. Tra l’altro, il giudice di legittimità prosegue facendo presente che “quando…si mostrano immagini di persone in qualche modo coinvolte in fenomeni sui quali grava un pesante pregiudizio negativo della collettività – vicende criminali, prostituzione, accattonaggio – al fine di evitare che si crei un pericoloso collegamento tra un fenomeno generale ed una specifica ed individuabile persona fisica ed evitare, quindi, la conseguente inevitabile ed inutile carica di disdoro personale, si usa sgranare, o comunque coprire, l’immagine del volto della persona ritratta per renderla non identificabile”[8]. In altre parole, per la Suprema Corte la pubblicazione di un immagine raffigurante un soggetto posto in una condizione particolarmente drammatica e spesso non voluta (mendicità, prostituzione, ecc.) ha un’oggettiva valenza diffamatoria, per cui la pubblicazione senza previo consenso è ammessa solo se la persona ritratta viene resa non identificabile.

Un altro limite attiene poi alla pubblicazione di foto raffiguranti minori di anni diciotto. La legge sul diritto d’autore, disponendo la regola del consenso, vorrebbe implicitamente che la pubblicazione di foto raffiguranti minori debba essere autorizzata da chi esercita la responsabilità genitoriale ovvero dal tutore o curatore, essendo il minore sprovvisto della capacità di agire, requisito indispensabile per la disponibilità delle situazioni giuridiche soggettive. Invero, l’articolo 108 stabilisce che “l’autore che abbia compiuto sedici anni di età ha capacità di compiere tutti gli atti giuridici relativi alle opere da lui create e di esercitare le azioni che ne derivano”. Tale disciplina sembra applicabile anche nei casi degli atti dispositivi dell’immagine[9] ma in ogni caso l’istituto della rappresentanza legale non è al giorno d’oggi pienamente efficace per la disciplina di situazioni di tal sorta, innanzitutto perché non tiene conto della capacità di discernimento del minore, il cui sotteso principio impone di attribuire una certa rilevanza alle sue volontà, inclinazioni e aspirazioni. Ma non solo, giacché l’istituto della rappresentanza legale risulta depotenziato anche in presenza di minori non ancora provvisti di detta capacità[10]. È utile al riguardo richiamare un’importante pronuncia del Tribunale di Monza secondo il quale il consenso alla pubblicazione di immagini raffiguranti minori di età sarebbe ammissibile soltanto qualora l’immagine non risulti dannosa per il minore e anzi rechi al medesimo un’utilità non irrilevante[11]. E proprio quest’ultimo principio, oltre a classificare il consenso del rappresentante legale come non automaticamente valido, sembra erigere una barriera invalicabile anche per il fotografo che voglia pubblicare l’immagine senza consenso alcuno. Senza escludere che le deroghe previste a tutela della libertà di espressione, proprio come precedentemente visto per la riservatezza, ragionevolmente cedono il passo al miglior interesse del minore così come disposto dalla già analizzata Convenzione ONU.

In definitiva, si può senz’altro affermare che lo street photographer può non chiedere il consenso all’acquisizione dell’immagine ovvero alla pubblicazione della stessa, sempreché ricorrano i presupposti, prevalentemente coincidenti, individuati ora dalla legislazione sulla privacy ora da quella sul diritto d’autore. Bisogna precisare che, come del resto ogni altra situazione esistenziale, il diritto all’immagine non è inquadrabile in confini precisi e ciò lo dimostra l’indubbia mancanza di uniformità della relativa disciplina, che il più delle volte è desumibile attraverso un’interpretazione sistematica e per mezzo di principi più che di regole ma soprattutto è cangiante da caso a caso. Essendo quindi fondamentale una puntuale descrizione del caso concreto e una altrettanto puntuale contestualizzazione dei fatti emerge una certa impossibilità nel rispondere aprioristicamente alla domanda se la street photography leda il diritto all’immagine o meno. Ciò non toglie che il fotografo, sulla base di principi morali ed etici, possa decidere, anche se astrattamente autorizzato dalla legge, di non scattare o pubblicare determinate fotografie ovvero di oscurare i volti delle persone coinvolte ovvero ancora di fare in modo che i volti non rientrino affatto nell’inquadratura.

 

[1] Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 3769, 22 giugno 1985, disponibile qui:

[2] L. Mezzasoma, “Il diritto all’immagine fra Codice civile e Costituzione”, in Revista Internacional de Doctrina y Jurisprudencia, 2, 2013, DOI: http://dx.doi.org/10.25115/ridj.v2i2.1775

[3] La giurisprudenza ha in seguito attribuito a tale condotta, sussumendola nell’ambito dell’articolo 660 cod. pen., anche una rilevanza penale. La norma in questione persegue infatti “chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo”. E la Corte di cassazione ha tenuto a precisare che la norma si ritiene violata anche nel momento in cui la vittima non si accorge della condotta posta in essere dal reo giacché “in materia di molestia o di disturbo alle persone, l’articolo 660 cod. pen. è teso a perseguire quei comportamenti astrattamente idonei a suscitare nella persona direttamente offesa, ma anche nella gente, reazioni violente o moti di disgusto o di ribellione, che influiscono negativamente sul bene giuridico tutelato che è l’ordine pubblico…cosicché nell’ipotesi in cui il fatto sia oggettivamente molesto o disturbatore, è del tutto irrilevante che la persona offesa non abbia risentito alcun fastidio”, Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 9446, 24 maggio 2017, disponibile qui: https://canestrinilex.com/risorse/fotografare-le-persone-e-reato-cass-944618/

[4] In questo caso infatti il trattamento dei dati personali è ammesso con il consenso del minore stesso, se ha compiuto i quattordici anni di età, ovvero del rappresentante legale se il minore è infraquattordicenne

[5] Tra l’altro anche la Corte europea dei diritti dell’uomo sembra andare nella stessa direzione. Con la sentenza Söderman contro Svezia emanata il 12 novembre 2013 infatti i giudici di Strasburgo hanno sottolineato come non soltanto l’utilizzazione abusiva ma anche la semplice acquisizione di un’immagine privata altrui può integrare una violazione dell’articolo 8 CEDU, posto a tutela della vita privata e familiare delle persone. Nel caso di specie una cittadina svedese era stata ripresa di nascosto, per uso meramente personale, dal suo patrigno nel bagno di casa mentre era nuda. A detta della Corte tale condotta integrava senza dubbio una lesione dell’integrità della richiedente, Corte Europea Diritti dell’uomo, ricorso n. 5786, 21 gennaio 2008, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-138444

[6] La street photography è infatti un genere fotografico vecchio quanto la fotografia stessa e nel corso degli anni artisti del calibro di Henri Cartier-Bresson o di Steve McCurry (l’autore della celeberrima Ragazza Afghana) ci hanno regalato scatti sensazionali in grado di rendere immortale quasi ogni sfaccettatura dell’essere umano

[7] Cass. Civ. Sez. III, sentenza n. 11353, 11 maggio 2010, disponibile qui:

[8] Cass. Pen. Sez. V, sentenza n. 3721, 30 gennaio 2012, disponibile qui: https://canestrinilex.com/risorse/diffamazione-per-accostamento-di-fotografie-cass-pen-372112/

[9] A. Scalisi, “Famiglia e diritti del minore”, in Fam. pers. e succ., 2006, pag. 815

[10] G. Cazzetta, “Il diritto all’immagine alla luce della giurisprudenza interna e della Corte EDU”, in G. Chiappetta, Lezioni di diritto civile, Edizioni scientifiche calabresi, Rende, 2018

[11] Ibidem

Lascia un commento