venerdì, Ottobre 4, 2024
Criminal & Compliance

The new scientific evidence: il processo penale e la prova scientifica.

Il panorama della prova scientifica: i criteri Freye e i criteri Daubert.

Non è difficile immaginare l’importanza che oggigiorno la prova scientifica assume nelle aule dei tribunali. Casi di cronaca, come quello di Yara Gambirasio, dimostrano come l’andamento di un giudizio può assumere una direzione piuttosto che un’altra sulla base di un semplice test del DNA.

Siamo di fronte ad un punto di svolta del processo penale: non è più il processo della prova dichiarativa (la c.d. prova specifica) ma è il processo della prova scientifica, con tutto ciò che ne consegue. Non si ragiona più con l’argomentazione, ma con l’informazione. E se nella prova dichiarativa il maggiore ostacolo è il dolo, in quella scientifica la più grande insidia è l’errore nell’acquisizione della prova mediante procedimenti e pratiche complessi e altamente sofisticati.

Certo,la prova scientifica arriva là dove la prova dichiarativa non può neppure sperare. Permette di riaprire cold cases e riduce sensibilmente il numero di casi irrisolti per mancanza di indizi, come furti in appartamento.

La new scientific evidence ha, tuttavia, un lato oscuro.

Essa è innanzitutto complicata: e ciò la porta lontano dalla conoscenza del giudice, abituato a lavorare su prove dichiarative e allenato a cercare il dolo nelle dichiarazioni, e non a identificare l’errore nell’ iter logico-scientifico.

Essa spesso è la prova decisiva del giudizio, determina l’esito del processo in un senso piuttosto che in un altro. È costosa ed applicabile su larga scala. Ma, soprattutto, queste nuove prove sono controverse e mutano rapidamente. E se la scienza è sempre in movimento e cambia velocemente, il processo è lento e inevitabilmente si trova  sempre un passo indietro rispetto ad essa.

Questo che cosa significa in termini di impatto sul processo penale? Si è detto che la new scientific evidence costa. Il che vuol dire che la conoscenza scientifica non è accessibile a tutti. E così ci saranno casi “privilegiati” in cui si ricorrerà a prove scientifiche, e casi “non privilegiati” di difficile soluzione. Tale circostanza si traduce nella compressione del principio di obbligatorietà dell’azione penale e del carattere democratico del processo penale.

Anche la cross-examination viene spiazzata. Gli operatori del diritto non hanno le conoscenze necessarie per poter mettere in crisi un esperto nel campo, per esempio, del DNA, con la conseguenza che non potrà che affidarsi a consulenti e periti. Allora un contraddittorio orale non ha più ragion d’esistere, perché il conflitto si svolgerà tramite consulenze scritte e memorie di replica. E parlare di contraddittorio scritto non è forse una contraddizione in termini?

Quando il giudice, poi, giungerà ad una decisione, non si limiterà soltanto ad una motivazione per relationem: la decisione stessa sarà per relationem, proprio perché non ha le conoscenze necessarie per decidere autonomamente.

L’art. 220 co. 1 c.p.p. recita: “La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche”. Ma rispetto a questi dati e valutazioni, qual è il ruolo del giudice?

Partiamo dal dibattito giuridico nel sistema statunitense. Una prima sentenza fondamentale in merito alla questione fu la Freye, pronunciata nel 1923 dalla Court of Appeals for the District of Columbia in merito all’ammissibilità di una primitiva versione del poligrafo (cioè della macchina della verità) basata sulla valutazione della pressione arteriosa del soggetto, richiesta dall’imputato accusato di omicidio. La corte rigettò la richiesta di ammissione del mezzo di prova in quanto, rivolgendosi alla comunità scientifica, risultò che questa tecnica non avesse ancora raggiunto un sufficiente grado di accettazione da parte degli esperti: non era affidabile. La Corte ideò così il primo criterio di ammissibilità della prova scientifica usato per i successivi settant’anni: la general acceptance.

Questo criterio fu superato nel 1993 con la sentenza Daubert. Il caso riguardava un farmaco contro le nausee della gravidanza prodotto dalla Merrell Dow Pharmaceuticals, sospettato di aver provocato gravi malformazioni ai feti delle donne che lo avevano assunto. I genitori del bambini malformati avevano chiesto di assumere la testimonianza di esperti i quali, reinterpretando in i dati relativi al farmaco, erano giunti alla conclusione opposta a quella della Merrel Dow: i farmaci in questione erano molto pericolosi. Lo studio, però, era avvenuto utilizzando metodologie nuove, ancora non accettate dalla generalità della comunità scientifica. La Merrel Dow allora richiamò nella sua difesa lo standard Freye, ma la Corte Suprema preferì rifarsi alla regola 702 concernente l’ammissione della testimonianza esperta, disponendosi favorevolmente verso l’accettabilità dello studio anzidetto.

La Corte però non si limitò ad applicare la regola 702, ma adottò anche altri principi per stabilire l’ammissibilità delle teorie presentati dagli esperti dell’accusa. Il ruolo del giudice viene ridefinito: egli deve stabilire ciò che può e ciò che non può entrare nel processo. E lo deve fare sulla base di quattro criteri:

  • Controllabilità empirica della teoria;
  • Sottoposizione della teoria ad una revisione critica da parte degli esperti di settore (peer review e publication);
  • Percentuale di errore attribuito alla teoria;
  • Widespread acceptance.

A partire dalla sentenza Daubert, l’ammissibilità della prova scientifica nel sistema americano viene valutata sulla base di questi quattro standard. Ma sono essi valevoli anche in Italia?

La risposta è senz’altro positiva, dal momento che si tratta di criteri di razionalità e come tali adottabili senza limiti territoriali. Si rendono necessari, tuttavia, degli adattamenti. Adattamenti dovuti ad un’importante differenza tra ordinamento italiano ed ordinamento americano: in America i criteri Daubert sono criteri di ammissibilità della prova; in Italia l’ammissibilità viene decisa sulla base degli artt. 188 e 189 c.p.p. : si tratta, invece, di criteri di valutazione della prova. Si deve guardare alla prova scientifica, dunque, ponendosi dalla prospettiva degli artt. 192 e 546 c.p.p., non essendo i criteri Daubert niente di diverso dai indizi gravi, precisi e concordanti richiamati dalle norme procedurali.

Vediamo, così, che i criteri della testabilità e della review and publication possono essere tranquillamente ricavati dal nostro principio del contraddittorio. Il calcolo dell’error rate si combina col principio del ragionevole dubbio, che impone sempre di valutare le alternative. Per la widspread acceptance, invece, bisogna fare attenzione. Essa funziona come criterio di ammissibilità della prova nel sistema americano. Da noi è criterio di valutazione. Ciò significa che essa è richiesta  solo se la prova scientifica è l’unico o il principale indizio a carico dell’indiziato. In caso contrario, la prova viene ammessa anche se controversa nel mondo scientifico proprio perché poi sarà il giudice ad attribuirle un peso più o meno incisivo a seconda della sua ritenuta attendibilità.

È questa la differenza rispetto al sistema statunitense: un giudice americano rigetta immediatamente una prova controversa; un giudice italiano la ammette e poi la valuta. Ma quella prova, per quanto controversa, avrà sempre –  anche se minimo –  peso nel processo.

In conclusione, quando si parla di prove scientifiche nel processo penale è necessario ricordare che anche esse sono fallibili e possono dar luogo ad errori giudiziari. Compito del giudice, dunque, non è stabilire ciò che è scienza e ciò che lo è, perché questo è un compito che spetta agli scienziati. Deve dire cosa può entrare nel processo. E lo deve fare non valutando l’attendibilità scientifica della prova (il giudice deve fare il giudice e non lo scienziato) ma la correttezza dei procedimenti adoperati sulla base dei criteri Daubert. Deve essere non peritus peritorum ma, come suggerisce Iacoviello, iudex peritorum.

 

Laura De Rosa

Raccontarsi in poche righe non è mai semplice, specialmente laddove si intende evitare l’effetto “lista della spesa”. Cosa dire di me, dunque, in questa piccola presentazione per i lettori di “Ius in itinere”? Una cosa è certa: come insegnano le regole di civiltà e buona educazione, a partire dal nome non si sbaglia mai. Mi chiamo Laura De Rosa e sono nata nella ridente città di Napoli nel 1994. Fin da bambina ho coltivato la mia passione per la scrittura, che mi ha portato a conseguire col massimo dei voti nel 2012 il diploma classico presso il liceo Adolfo Pansini. Per lungo tempo, così, greco e latino sono stati per me delle seconde lingue, tanto che al liceo rimproveravo scherzosamente la mia professoressa di greco accusandola del fatto che a causa sua parlassi meglio delle “lingue morte” piuttosto che l’inglese. Tuttavia, ciò non ha impedito che anche io perdessi la mia ignoranza in proposito e oggi posso vantare un livello B2 Cambridge ed una forte aspirazione al C1. Parlo anche un po’ di spagnolo e, grazie al programma Erasmus Plus che mi ha portato nella splendida Lisbona, ora posso dire con fierezza che il portoghese non è più per me un mistero. Sono cresciuta in un ambiente in cui il diritto è il pane quotidiano ed ho sempre guardato a questo mondo come a qualcosa di familiare e allo stesso tempo estraneo, perché talvolta faticavo a comprenderlo. Approcciata agli studi legali, invece, la mia visione delle cose è cambiata e mi sono accorta come termini che prima mi apparivano incomprensibili e lontani invece rappresentano la realtà di tutti giorni, anzi ci permettono di vedere e capire questa realtà. Ho affrontato, nel mio percorso universitario, lo studio del diritto penale con uno spirito critico mosso da queste considerazioni e sono giunta alla conclusione che questo ramo è quello che, probabilmente, più di tutti gli altri rappresenta l’uomo. Oggi sono iscritta all’ultimo anno della laurea magistrale presso l’Università Federico II di Napoli e, nonostante non ci sia branca del diritto che manchi di destare la mia curiosità, sono sempre più convinta di voler dare il mio contributo all’area penalistica. L'esser diventata socia di ELSA sicuramente ha rappresentato per me un'ottima opportunità in questo senso. Scrivere per un giornale non è, per me, un’esperienza nuova. La mia collaborazione con “Ius in itinere” ha però un sapore diverso: nasce dal desiderio di mettermi in gioco come giurista, scrittrice e membro della società. Il diritto infatti, come l’uomo, vive e si sviluppa. E come l’uomo ha un animo, aspetto da tenere sempre presente quando ci si approccia a studi giuridici. Mia volontà è dare un contributo a questo sviluppo nell’intento e nella speranza di collaborare ad un diritto più “giusto” e più “umano”. Oggi nelle vesti di scrittrice, un domani in un ruolo ancor più attivo. Mail: laura.derosa@iusinitinere.it

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