lunedì, Dicembre 2, 2024
Criminal & Compliance

“A nemico che fugge, ponti d’oro”: la desistenza volontaria nel concorso di persone

1. La desistenza volontaria

Causa di esclusione della punibilità inserita nell’alveo della disciplina del tentativo, l’istituto della desistenza volontaria è rinvenibile all’interno dell’art. 56, comma 3, c.p., ai sensi del quale: “Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”.

La norma citata introduce nel nostro ordinamento, come dianzi riportato, una causa di non punibilità in senso stretto, ossia una norma eccezionale che si innesta su di un fatto antigiuridico e colpevole, con il solo scopo, fondato su mere ragioni di opportunità, di rendere il fatto non punibile.

La desistenza volontaria, ordunque, presuppone che sia stato compiuto un fatto che già integri gli estremi di un tentativo: tuttavia, si tratta di un tentativo “punibile ma incompiuto”, in quanto il reo, del tutto volontariamente, desiste dall’azione non portandola a pieno compimento.

Ciò non significa che l’agente sia totalmente estraneo alla responsabilità penale: la norma, con molta chiarezza, afferma che il reo risponderà di tutti gli atti compiuti fino a quel momento, qualora i medesimi siano in grado di integrare gli estremi di altra fattispecie incriminatrice. Un esempio per tutti: se Tizio, con il proposito di commettere un furto in abitazione, scavalca il muro di cinta di una villa ma, una volta arrivato all’ingresso, volontariamente decide di desistere dalla condotta furtiva e si allontana, non risponderà di tentato furto in abitazione, ai sensi dell’art. 56, comma 3, c.p., ma invero i suoi atti sono già stati in grado di integrare un reato diverso, nella specie il delitto di violazione di domicilio, di cui all’art. 614 c.p.

Ai fini dell’integrazione della causa di non punibilità, è necessario che vengano ad esistenza due requisiti: da un lato la condotta di desistenza, e dall’altro lato l’elemento della volontarietà della stessa.

La condotta di desistenza consiste o nel non portare a pieno compimento l’azione criminosa (come nell’esempio, testé citato, del furto in abitazione) ovvero, nel caso di reato omissivo, nel compiere l’azione doverosa inizialmente omessa.

L’elemento della volontarietà della desistenza rappresenta il punto cruciale di tutta la disciplina. E’ infatti necessario che la condotta di desistenza sia il frutto di una libera scelta dell’agente, non coartata né derivante da un qualsivoglia fattore esterno. Ciò in linea con la previsione della non punibilità del tentativo incompiuto: invero, il delitto tentato è rappresentato da azioni od omissioni portate a compimento, non causative dell’evento criminoso per l’insorgenza di fattori esterni (non voluti dall’agente); contrariamente, la causa di non punibilità in discorso necessita del requisito della volontarietà dell’incompiutezza dell’azione, proprio a cagione di operarne un distinguo dall’istituto del tentativo punibile.

La dottrina è stata capace di riassumere in termini comprensibili e di impatto la portata dell’istituto della desistenza: “La desistenza è volontaria quando si possa dire che l’agente ha ragionato in questi termini: «potrei continuare, ma non voglio»; inversamente, la desistenza non è volontaria quando l’agente ha detto a sé stesso: «vorrei continuare, ma non posso[1]»

La desistenza dall’azione o dall’omissione, orbene, potrà qualificarsi come volontaria ogniqualvolta l’agente sia intimamente convinto di riuscire a portare a termine il proprio proposito criminoso e ciononostante interrompa l’iter criminis senza che vi siano, in concreto, condizionamenti derivanti da fattori esterni (la giurisprudenza, sul punto, è copiosa: non potrà qualificarsi come volontario l’abbandono dell’azione, quando tale comportamento sia cagionato dall’intervento della Polizia che, a sirene spiegate, provochi la fuga dell’agente; ovvero, nel caso in cui la desistenza sia determinata dal movimento maldestro del bandito in casa altrui, che provochi l’innesco del meccanismo di allarme).

Occorre sottolineare, peraltro, che la volontarietà della desistenza non coincide affatto con il pentimento: l’agente potrà abbandonare il proposito criminoso, fruendo della non punibilità, anche per meri calcoli utilitaristici (ad esempio, Tizio, all’ingresso di una filiale di banca ed armato fino ai denti, è conscio di poter portare a compimento una rapina, ma decide di rimandarla alla settimana successiva, poiché in quella data potrà usufruire anche della sua automobile, in quel momento riposta in un’officina meccanica, per fuggire più rapidamente). Tale soluzione ben si attaglia alla natura giuridica dell’art. 56, comma 3, c.p. quale causa di non punibilità in senso stretto: invero, confondere la volontarietà con il pentimento trascinerebbe l’istituto dall’alveo della punibilità a quello della colpevolezza.

Quali differenze tra desistenza volontaria e recesso attivo? Quest’ultimo, previsto dall’art. 56, comma 4, c.p., come noto, prevede un tentativo punibile ma attenuato, in tutti i casi in cui l’agente, portando a compimento l’azione o l’omissione, volontariamente impedisca l’evento descritto dalla fattispecie violata.

La distinzione è ben operata dalla cd. “tesi del dominio dell’azione”: qualora l’agente interrompa l’iter criminis nel momento in cui possieda ancora uno stato di signoria sull’azione, ci si trova nell’ambito della desistenza volontaria; qualora invece il reo perda il dominio dell’azione e abbisogni di una seconda condotta per impedire l’evento, ci si trova nell’alveo del recesso attivo.

2. Fondamento dell’istituto

Hosti non solum dandam esse viam ad fugiendum, sed etiam muniendam. Il noto brocardo latino rappresenta fedelmente ciò che la dottrina prevalente individua quale fondamento dell’istituto della desistenza volontaria.

A tal proposito si suol parlare della cd. “teoria del ponte d’oro”, derivante dalla nota massima secondo la quale: “A nemico che fugge, ponti d’oro”. La ridetta locuzione ben riflette l’atteggiamento che l’ordinamento mantiene nei confronti dei soggetti che “fuggono” dal locus commissi delicti senza portare (volontariamente, e senza l’intervento di fattori esterni) a compimento un delitto. Secondo l’orientamento in parola, infatti, il legislatore utilizzerebbe l’istituto di cui all’art. 56, comma 3, c.p., a fini di prevenzione generale: l’agente farebbe affidamento sulla promessa di impunità, contenuta nella disposizione in discorso; ciò sarebbe in grado di realizzare una “controspinta” alla spinta criminosa.

Tale suggestiva interpretazione, peraltro, deve essere integrata con ulteriori elementi: in particolare, occorre tener conto del principio della finalità rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma 3, Cost., nonché del principio di meritevolezza di pena: il ricorso ad una sanzione afflittiva dinanzi ad un tentativo incompiuto apparirebbe sproporzionato rispetto alla condotta di desistenza volontaria dell’agente.

Va segnalato, a chiosa, come vi siano deboli rimostranze su tale opzione interpretativa: v’è chi afferma la fallacia di tale teoria sull’assunto che il reo, di regola, non sarebbe affatto a conoscenza della norma sulla desistenza volontaria.

A parere di chi scrive, la critica, pur cogliendo nel segno, si dissolve attraverso l’analisi della natura giuridica dell’istituto di cui si discorre: essendo causa di non punibilità in senso stretto, è sufficiente soffermarsi sulla mera opportunità, valutata a monte del legislatore, di non punire tentativi incompiuti; la previa conoscenza della norma da parte dell’agente appare irrilevante, poiché non si attaglia alla punibilità del reo o ad esigenze di prevenzione generale, bensì, ancora una volta, a profili di colpevolezza dell’agente stesso.

3. La desistenza volontaria nel concorso di persone

Fatte tali generali premesse sull’istituto in esame, occorre ora soffermarsi sulla disciplina della desistenza volontaria, qualora il reato venga commesso da più persone, in concorso tra loro, ai sensi dell’art. 110 c.p.

In tale ottica, è necessario operare una prima distinzione.

Se a desistere volontariamente dall’azione sia l’autore del reato, chiaramente quest’ultimo non incorrerà in una responsabilità penale per il reato non portato a compimento: e tuttavia, i compartecipi risponderanno di delitto tentato (qualora gli stessi vi abbiano apportato un contributo causale), in quanto l’art. 56, comma 3, c.p., rappresentando una causa di non punibilità in senso stretto, soggiace alla disciplina di cui all’art. 119, comma 1, c.p., in tema di mancata estensione delle circostanze soggettive di esclusione della punibilità ai concorrenti.

Dubbi sono stati sollevati, invece, in merito ai requisiti necessari ad integrare una desistenza volontaria da parte del partecipe.

Sul punto, si sono avvicendati in giurisprudenza due differenti orientamenti.

Secondo una prima e più risalente tesi[2], sarebbe necessario che il partecipe tenga una condotta che impedisca la consumazione del reato, paralizzando quindi l’attività di tutti i concorrenti.

Questa tesi non pare accoglibile, in quanto da un lato introduce elementi non richiesti dalla legge, e dall’altro lato sembrerebbe quasi confondere gli elementi della desistenza volontaria con quelli del recesso attivo, addirittura richiedendo al partecipe un impedimento dell’evento, requisito tipico del comma 4 dell’art. 56, c.p., e non anche del terzo comma.

Come ha sottolineato la dottrina, “Questa tesi chiede troppo. (…) per la configurazione della desistenza sarà sufficiente che il partecipe abbia neutralizzato gli effetti della sua azione; l’eventuale successiva condotta autonoma che porti l’autore a realizzare il reato sarà priva di ogni collegamento causale con la condotta del partecipe e potrà fondare una responsabilità del solo autore[3]”.

Ed è proprio questa la linea accolta dalla giurisprudenza più recente: “In tema di tentativo il concorrente nel reato plurisoggettivo, d’altro canto, per beneficiare della desistenza volontaria non può limitarsi ad interrompere la propria azione criminosa, occorrendo, invece, un quid pluris consistente nell’annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva e nella eliminazione delle conseguenze dell’azione che fino a quel momento si sono prodotte[4]”.

Tale soluzione è da ritenere preferibile.

Invero, le norme concorsuali richiedono, tra i vari elementi, la necessità di aver contribuito causalmente alla realizzazione del fatto tipico, pur causato in concreto da altri soggetti, attraverso un concorso morale o materiale.

Ma se così è, ciò che il partecipe deve neutralizzare, ai fini della non punibilità, sarà esclusivamente l’azione ed il contributo causale apportato dall’azione stessa, e non già l’evento delittuoso che, se realizzato da terzi in assenza del contributo del partecipe, non potrebbe mai essere ascritto al medesimo.

Una soluzione giurisprudenziale che appare certamente aderente al dato letterale della norma sul tentativo, nonché rispettosa di tutti i requisiti necessari alla realizzazione di un concorso di persone nel reato; la necessità di un contributo causale nei reati plurisoggettivi (da parte di tutti i concorrenti) permette di rifuggire dall’opposta tesi che, erroneamente, richiede al partecipe non già la neutralizzazione del suo contributo causale, ma addirittura l’impedimento del reato, in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 56, comma 3, c.p. e 110 c.p.

Fonte immagine: ilgiornale.it

[1] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, Edizione 2020.

[2] Si veda Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 7436, 27 Novembre 1987.

[3] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, Edizione 2020.

[4] Si vedano Cass. Pen., Sez. II, sentenza n.22503, 22 Maggio 2019; Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 9284, 10 Gennaio 2014.

Dario Quaranta

https://avvocatodarioquaranta.it/ Avvocato penalista, nato nel 1993. Ha conseguito il Master universitario di secondo livello in Diritto Penale dell'Impresa, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, con la votazione di 30/30 e lode, ottenendo altresì il premio indetto dall'Associazione AODV231 destinato ad uno studente del Master distintosi per merito, ex aequo con altro partecipante. E' membro dell'Osservatorio Giovani e Open Day dell'Unione delle Camere Penali Italiane ed è responsabile della Commissione Giovani della Camera Penale di Novara. Frequenta dal 2021 il Corso biennale di tecnica e deontologia dell’avvocato penalista, attivato dalla Camera Penale di Torino. Si laurea in Giurisprudenza all'Università del Piemonte Orientale con la votazione di 110/110, discutendo una tesi in diritto penale intitolata: "La tormentata vicenda del dolo eventuale: il caso Thyssenkrupp ed altri casi pratici applicativi". Durante gli studi universitari ha effettuato un tirocinio di 6 mesi presso la Procura della Repubblica di Novara, partecipando attivamente alle investigazioni ed alle udienze penali a fianco del Pubblico Ministero. Da Maggio 2018 è Praticante Avvocato presso lo Studio Legale Inghilleri e si occupa esclusivamente di diritto penale. Da Dicembre 2018 è abilitato al patrocinio sostitutivo. Ad Ottobre del 2020 consegue l'abilitazione all'esercizio della professione di Avvocato presso la Corte d'Appello di Torino, riportando voti elevati nelle prove scritte (40-35-35) ed agli orali. Nel corso della sua attività professionale ha affrontato molte pratiche di rilievo, inerenti in particolar modo i delitti contro la Pubblica Amministrazione,  i delitti contro la persona, contro la famiglia e contro il patrimonio, nonchè in tema di reati tributari, reati colposi, reati fallimentari e delitti relativi al DPR n.309/1990. Si è occupato inoltre di importanti procedimenti penali per calunnia e diffamazione. Ha sostenuto numerose e rilevanti udienze penali in completa autonomia. E' collaboratore dell'area di Diritto Penale di Ius In Itinere e di All-In Giuridica, ed ha pubblicato un contributo sulla rivista Giurisprudenza Penale . E'altresì autore della sua personale rubrica di approfondimento scientifico, denominata "Articolo 40", disponibile sul sito della Camera Penale di Novara. Vanta 46 pubblicazioni sulle menzionate riviste e banche dati, tra contributi autorali e note a sentenza. Indirizzo mail: dario.quaranta40@gmail.com

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