Autodeterminazione e fine vita: i confini di una fattispecie in evoluzione
Autodeterminazione e fine vita: i confini di una fattispecie in evoluzione
a cura di Erika De Marchis vincitrice, per la categoria “Studenti”, del Premio di Studio Federico Baffi indetto da ELSA Italia
1. Il diritto all’autodeterminazione terapeutica
Il costante progresso scientifico, prodottosi nei campi della biotecnologia e della medicina, è caratterizzato dall’innovativa capacità di intervento nella sfera biologica dell’essere umano.
Ciò ha interrogato e scosso il lavoro degli operatori giudici e, in qualche misura, continua ancora a farlo, data l’esigenza di precisare l’inquadramento del fenomeno nella sua prospettiva normativa-ordinamentale.
In questo scenario appare compito dell’operatore giuridico svincolarsi da valutazioni sulla moralità o meno dell’ingerenza medica su di un bene culturalmente percepito come
“intimissimo” ed “indisponibile” quale quello della vita e, riportare la questione sotto il cappello dei principi costituzionali che, senza dubbio, rappresentano la più elevata espressione della nostra società.[1] Uno di questi è sicuramente rappresentato dal principio consensualistico in base al quale il trattamento sanitario, ameno che sia ritenuto obbligatorio, non può essere imposto ma, in ogni caso, lasciato alla scelta libera ed informata del soggetto che si deve sottoporre alle cure. In stretta connessione logica si pone l’affine principio dell’autodeterminazione.
Il principio di autodeterminazione terapeutica, privo di diretto riscontro testuale Costituzionale, si è affermato alla luce del diritto alla salute ex art. 32 Cost[2].
Tale elemento giuridico, ha trovato proiezione empirica in quei casi, dove, il diritto all’autodeterminazione non può essere esercitato dal soggetto interessato. Tali, dunque, da rendere necessario un intervento esterno attuativo della volontà del soggetto interessato. Proprio per quest’ultimo profilo, si caratterizza il caso del signor Welby.
1. Il caso Welby
Welby, affetto da una grave forma di distrofia muscolare degenerativa ed irreversibile che gli impediva ogni movimento, lasciandogli però intatte le capacità intellettive, aveva chiesto all’autorità giudiziaria di pronunciarsi al fine di tutelare il suo diritto a “lasciarsi morire” attraverso l’interruzione della ventilazione artificiale.
Il Tribunale di Roma, chiamato a decidere il ricorso in via di urgenza (ex art. 700 c.p.c.), con ordinanza 16.12.2006, respingeva la richiesta di porre fine alle proprie sofferenze avanzata dall’uomo affetto dalla grave malattia.
Il giudice, pur riconoscendo che “il principio dell’autodeterminazione e del consenso informato”[3] rappresentino “una grande conquista civile delle società culturalmente evolute”[4]e che essi permettono alla persona, “di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi”[5], ha stabilito che non può essere l’autorità giudiziaria a decidere se sia legittimo distaccare le macchine che tengono in vita una persona, in assenza di una previsione normativa che delimiti chiaramente il confine del cosiddetto “accanimento terapeutico”.
2. La legge n. 219\2017
La disposizione contenuta nell’art. 1, co. 1, della legge n. 219/2017 («Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento») rappresenta l’emancipazione del bene vita da ogni assolutismo.
L’autodeterminazione postula che il paziente abbia ricevuto informazioni «complete, aggiornate e comprensibili»[6] rispetto alla diagnosi, alla prognosi e ai trattamenti sanitari praticabili. Se il malato è un minorenne o incapace, le informazioni devono essergli veicolate «in modo consono alle sue capacità per essere messo nelle condizioni di esprimere la sua volontà»[7].
Con tale legge è stato compiuto uno sforzo apprezzabile nel coniugare il rilievo sempre maggiore dell’autodeterminazione del paziente con la necessità di non allentare la tutela della vita quando si è più fragili. È stato positivizzato ciò che già apparteneva alla dimensione giuridica, giacché dottrina e giurisprudenza avevano dapprima enucleato il predetto diritto. [8]
Va segnalato però che la legge 219/2017 se, da un lato, ha cercato di assicurare l’effettività del diritto di rifiutare i trattamenti, dall’altro, ha acuito il bisogno di risposta per certe situazioni in essa non contemplate. Così si è assistito al protagonismo della giurisprudenza che ha delineato un ulteriore spazio di giuridicità tra autodeterminazione del paziente e tutela della vita.[9]
Emblematica è la vicenda del suicidio assistito rispetto all’effettività dei diritti e dei valori fondamentali da esso coinvolti, alle loro dinamiche innescate dal caso concreto e all’art. 580 c.p.[10]
3. Il caso Cappato: il primo step
Partendo dal fatto, Fabiano Antoniani (noto come DJ Fabo), nel giugno 2014, a seguito di un grave incidente automobilistico, rimane tetraplegico e affetto da cecità permanente, non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione e in stato di costante e acuta sofferenza, lenibile solo mediante sedazione profonda. Conservando intatte le facoltà intellettive, esprime – consapevole dell’irreversibilità di tale condizione – la ferma volontà di porre fine alla sua esistenza; volontà in alcun modo scalfita dai numerosi tentativi di fargli cambiare idea da parte dei suoi cari e anzi ribadita dapprima con uno sciopero della fame e della parola e successivamente con varie comunicazioni pubbliche. In questa fase entra in contatto con Marco Cappato, il quale gli prospetta inizialmente la possibilità di interrompere in Italia i trattamenti di ventilazione, idratazione e nutrizione artificiale, con contestuale sottoposizione a sedazione profonda.
A fronte del saldo proposito di recarsi all’estero per ottenere assistenza alla morte volontaria, lo stesso Cappato decide di assecondare le richieste di Fabiano e di accompagnarlo, guidando un’autovettura medicalmente attrezzata, in Svizzera, ove, dopo un’ulteriore verifica, da parte del personale della struttura prescelta delle sue condizioni di salute, del permanere del consenso e della capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte, si compie, due giorni dopo il ricovero (esattamente il 27 febbraio 2017), il suicidio, realizzato azionando con la bocca uno stantuffo, attraverso il quale viene iniettato nelle vene il farmaco letale. Di ritorno dal viaggio, Cappato si autodenuncia ai Carabinieri di Milano.
La Procura della Repubblica, all’esito delle indagini, chiede in prima battuta l’archiviazione, ritenendo che, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 580c.p., la condotta debba ritenersi non punibile; in via subordinata, chiede che venga sollevata questione di legittimità costituzionale del medesimo articolo.
Il g.i.p. rigetta entrambe le richieste, disponendo invece, ai sensi dell’art. 409, comma 5,c.p.p., l’imputazione coatta nei confronti di Cappato, il quale viene così tratto a giudizio davanti alla Corte di assise di Milano, chiamato a rispondere, con riferimento alla morte di Antoniani, sia per averne rafforzato il proposito suicidario, sia per averne materialmente agevolato l’esecuzione.
La tenuta dell’art. 580 c.p. è stata infine posta in discussione dalla Corte di assise di Milano con riferimento al suo perimetro applicativo e con riguardo al trattamento sanzionatorio. Più precisamente, nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, comma 1, e 117Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo”[11] laddove “prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da5 a 10 anni senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost.”[12].
4. Gli ultimi step di una trama complessa
La già menzionata questione di costituzionalità ha dato luogo a due pronunce della Corte costituzionale.
Con la prima del 2018, la Consulta, rilevata la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p., invece di pronunciarsi di conseguenza, rinviava il giudizio al settembre 2019, concedendo al Parlamento circa un anno di tempo per predisporre una legge che regolasse quegli aspetti di dettaglio dell’aiuto al suicidio.
Il Parlamento lasciava decorrere invano il termine. Così la Consulta nel 2019, come aveva preannunciato nel 2018, dichiarava l’art. 580 c.p. costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi, osservando determinate regole indicate nella sentenza, avesse agevolato l’esecuzione del proposito di suicidio formatosi in autonomia e coscienza.
Con quest’ultima pronuncia, la Corte costituzionale ha introdotto una causa di non punibilità, operante nel caso in cui la condizione della persona gravemente malata abbia definiti contorni sussistenti quando la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; sia affetta da una patologia irreversibile che è fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che la persona stessa reputi intollerabili e, infine, sia pienamente capace di intendere e di volere.
5. Una dignità piena
Il giudizio di costituzionalità ruota attorno al canone di uguaglianza/ragionevolezza e soprattutto al parametro – pur non espressamente evocato nell’ordinanza di rimessione ma abbondantemente richiamato in motivazione dalla Corte costituzionale – dell’art. 32 Cost. e della libertà di autodeterminazione terapeutica, integrato dal riferimento alla dignità della persona.
Nel percorso tratteggiato dalla Corte, allorquando il malato, per interrompere le sofferenze e darsi la morte, è costretto ad attraversare uno stato di degradazione della persona, lesivo della propria dignità (da salvaguardare e tutelare a maggior ragione nella
fase terminale della vita, ove si è ancora più vulnerabili e indifesi), il divieto assoluto di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. finisce per integrare una limitazione dell’autodeterminazione del malato stesso nella scelta delle terapie, comprese quelle appunto finalizzate a liberarlo dalle sofferenze e a condurlo in via immediata alla morte, e dunque una lesione degli artt. 2, 13 e 32 Cost.; nell’indistinto divieto è ravvisata pure un’irragionevole disparità di trattamento fra malati incurabili che sono comunque in grado di togliersi la vita da soli e malati altrettanto incurabili che invece, impossibilitati a farlo, sono costretti a sottoporsi al percorso scaturente dall’interruzione del trattamento di sostegno vitale, con l’ulteriore sperequazione fra coloro ai quali l’interruzione assicura comunque una morte rapida e coloro ai quali innesca un drammatico decorso agonico.[13]
Valorizzando il canone della dignità umana in termini di tutela della qualità dell’esistenza e di libertà morale della persona e contestualizzandolo nel perimetro della libertà di autodeterminazione terapeutica nella fase terminale della vita, anche la condotta medica volta a facilitare il realizzarsi della morte – ogniqualvolta la morte segni il passaggio finale inevitabile di una malattia che non abbia alcuna speranza di guarigione – può essere ricompresa nel prisma del rapporto medico/paziente ; la morte, in pratica, va trattata quale esito alternativo di una patologia allo stesso modo in cui, in altre circostanze, può esserlo la guarigione.
In definitiva, si può ritenere che la Corte non abbia inteso legittimare un diritto di morire quanto valorizzare la massima declinazione dell’autonomia decisionale del paziente (richiamata proprio all’art. 1, comma 3 della legge n. 219 del 2017), in connessione alla tutela della dignità umana, della quale si rafforza lo spettro applicativo, esteso ora alla libertà di autodeterminazione nelle situazioni di estrema vulnerabilità della persona, legate alla fase terminale della vita e all’alveo dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente[14].
Il risultato virtuoso è, dunque, costituito dal riconoscimento ‘’non tanto di un diritto a morire con dignità, quanto piuttosto un diritto alla piena dignità anche nel morire’’[15].
6. Una prospettiva comparata: il suicidio assistito nell’ordinamento tedesco
Con sentenza del 26 febbraio 2020[16], il Secondo Senato del Bundesverfassungsgericht ha dichiarato incostituzionale il § 217, co. 1 dello Strafgesetzbuch, introdotto con legge del 3 dicembre 2015, che punisce con la reclusione fino a tre anni ovvero con una pena pecuniaria il «favoreggiamento commerciale dell’aiuto al suicidio».
La Corte costituzionale federale era stata adita con sei ricorsi diretti, proposti principalmente da pazienti gravemente malati, i quali lamentavano d’essere stati lesi nel loro fondamentale diritto ad autodeterminarsi scegliendo la modalità della propria dipartita, che essi facevano discendere per principio generale dal «diritto alla propria personalità» di cui all’art. 2, co. 1 GG4, in connessione con il «principio di dignità umana» di cui all’art. 1, co. 1 GG5. [17]
Secondo il Bundesverfassungsgericht, il «diritto ad una morte autodeterminata» è da ricomprendersi all’interno del più generale «diritto alla propria personalità», che nel Grundgesetz è inscindibilmente ancorato al principio di «dignità umana». [18]
La decisione di terminare la propria vita ha, infatti, un profondo significato esistenziale per ogni uomo, in quanto «tocca le questioni fondamentali sull’essere umano e interessa come nessun’altra l’identità e l’individualità del singolo uomo». Quale sia il significato che il singolo veda nella propria esistenza, e quali le ragioni per cui possa determinarsi a terminare la propria vita, «rientra nelle sue più personali convinzioni e credenze». Tale diritto non si esaurisce nella libertà di interrompere le misure di sostegno vitale, ma si estende alla facoltà di porre fine alla propria vita autonomamente, se del caso anche con l’assistenza di terze persone. [19]
Volendo cogliere le analogie e le differenze tra le due pronunce (tedesca e italiana) si può anzitutto notare che la Corte tedesca si è, in effetti, posta dapprincipio il problema se sia configurabile in capo al singolo un «diritto di morire», dandovi risposta affermativa. È partendo da questo assunto che, nel prosieguo della trattazione, i giudici tedeschi risolvono il problema della discrezionalità riservata al legislatore nella difesa e salvaguardia della vita in ottica pubblicistica. [20] Diversa e, quasi opposta, è invece la prospettiva della Corte Costituzionale italiana che si sviluppa prendendo le mosse dalla questione della giustificazione costituzionale del divieto penale di aiuto al suicidio (art. 580, co. 1 c.p.) nell’ottica del legittimo scopo di tutelare la vita umana.
7. La recente pronuncia del tribunale Portoghese[21]
La decisione ha origine dal ricorso presentato dal Presidente della Repubblica con cui si chiedeva un controllo preventivo di costituzionalità degli articoli 2, 4, 5, 7 e 27 del
Decreto da Assembleia da República n. 109/XIV, rilevando l’eccessiva indeterminatezza dei concetti di sofferenza intollerabile e lesioni certe di estrema gravità secondo il consenso scientifico.
In primo luogo, il Tribunal Constitucional riconosce che l’inviolabilità della vita umana
sancita dall’art. 24, comma 1, della Costituzione non costituisce un ostacolo all’elaborazione di una norma che permetta una morte anticipata medicalmente assistita in presenza di determinate condizioni, sottolineando come il diritto di vivere non possa tradursi in un dovere di vivere in tutte le circostanze. Infatti, il concetto di persona proprio di una società democratica, laica e plurale dal punto di vista etico, morale e liberale legittima la soluzione della tensione tra il dovere di proteggere la vita e il rispetto dell’autonomia personale in situazioni di estrema sofferenza attraverso opzioni di natura politico-legislativa. In questa prospettiva si collocano gli interventi normativi realizzati dal Portogallo e da altri ordinamenti in questa delicata materia.
In secondo luogo, e con riferimento alla prima questione di legittimità sollevata dal Presidente della Repubblica, il Tribunal Constitucional ritiene che il concetto di sofferenza intollerabile, per quanto indeterminato, sia determinabile facendo riferimento alle regole e allo stato dell’arte della professione medica. Questo significa che il concetto oggetto di giudizio non possa essere considerato eccessivamente indeterminato e, in tale misura, incompatibile con il dettato costituzionale.
Per quanto riguarda, invece, la seconda questione di legittimità sollevata dal Capo dello Stato, il Giudice costituzionale sottolinea come la nozione di sofferenza intollerabile e lesioni certe di estrema gravità secondo il consenso scientifico, a causa della sua vaghezza, non permette di delimitare con il rigore necessario le situazioni concrete in cui possa essere applicato dando, di conseguenza, accesso alle procedure di morte medicalmente assistita.
Quindi, a causa dell’indeterminatezza normativa, il Tribunal Constitucional riconosce che la norma contenuta nell’articolo oggetto di giudizio è in contrasto con il principio di determinatezza della legge e per tali ragioni ne dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del Decreto da Assembleia da República n. 109/XIV e degli articoli 4, 5, 7 e 27.
8. Un virtuoso esempio di avanguardia legislativa: la legge Spagnola
In data 18 marzo 2021, la Camera dei deputati spagnola ha approvato in via definitiva la legge organica che detta la disciplina generale dell’eutanasia, definendola come un vero e proprio diritto richiedere e ottenere l’aiuto necessario a morire.
La legge riconosce, a fronte di una decisione autonoma basata sul consenso informato, il diritto di richiedere e ricevere assistenza per porre fine alla propria vita. I presupposti previsti dalla legge (art. 5) perché ciò sia consentito sono[22]: il possesso della nazionalità spagnola o residenza in Spagna; la maggiore età; la capacità di intendere e di volere e essere cosciente al momento della decisione o, in alternativa, aver rilasciato disposizioni anticipate di trattamento; aver ricevuto adeguate informazioni scritte riguardo la propria situazione clinica e le alternative possibili, comprese le cure palliative; aver rilasciato due richieste scritte di aiuto a morire, a distanza di almeno 15 giorni l’una dall’altra (salvo particolari casi di necessità e urgenza); essere affetto da una malattia grave ed incurabile o da una malattia grave, cronica ed invalidante, come definite dalla legge stessa e certificate dai medici competenti ed aver sottoscritto il consenso informato a ricevere la prestazione di aiuto a morire.
La legge, inoltre, contiene la descrizione dettagliata delle procedure da seguire a cura del medico e prevede un doppio sistema di controlli in capo alla commissione di controllo e valutazione competente, la quale, a seguito di un controllo preventivo sul profilo clinico e non del paziente, concede o vieta la procedura.
La legge specifica che l’aiuto a morire sarà interamente coperto dal sistema sanitario nazionale e l’accesso alla procedura dovrà essere garantito a tutti, nel rispetto della privacy e della riservatezza.
Infine, consente ai medici l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza, specificando che questo non dovrà mai pregiudicare l’accesso e la qualità dell’assistenza.[23]
[1] Breve rassegna sul diritto all’autodeterminazione terapeutica, a cura di Anna Salsano in http://www.comparazionedirittocivile.it/
[2] “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
[3] Ordinanza 16 dicembre 2006, sezione I civile, Tribunale di Roma, pag.4
[4] Idem
[5] Idem
[6] art. 1, co. 3, l. n. 219/2017
[7] art. 3, co. 2, l. n. 219/2017
[8] A. Gorgoni. L’autodeterminazione nelle scelte di fine vita tra capacità e incapacità, disposizioni anticipate di trattamento e aiuto al suicidio, in Persona e Mercato, 2020, 3, pp. 221-244.
[9] Idem
[10] “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.”
[11] Ordinanza n.1\2018, Corte d’Assise di Milano
[12] idem
[13] C. Cupelli. Il caso Cappato e i nuovi confini di liceità dell’agevolazione al suicidio. Dalla “doppia pronuncia” della Corte costituzionale alla sentenza di assoluzione della Corte di assise di Milano, in Cassazione penale, 2020, 4, pp. 1428-1450.
[14] idem
[15] L. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, in Il caso Cappato, cit., p. 140 ss.
[16] BVerfG, Urteil des Zweiten Senats vom 26. Februar 2020, – 2 BvR 2347/15.
[17] Il Bundesverfassungsgericht dichiara incostituzionale la fattispecie penale di «favoreggiamento commerciale del suicidio» (§ 217 StGB): una lettura in parallelo con il “caso Cappato” di Giulio Battistella in Biolaw Journal, n.2\2020.
[18] idem
[19] idem
[20] idem
[21] https://www.biodiritto.org/Biolaw–pedia/Giurisprudenza/Portogallo–Tribunal–Constitucional–Acordaon.–123–2021–illegittimita–costituzionale–del–Decreto–da–Assembleia–da–Republica–n.–109–XIV–in–materiadi–morte–medicalmente–assistita
[22] https://www.biodiritto.org/Biolaw–pedia/Normativa/Spagna–approvata–legge–organica–sull–eutanasia
[23] idem