Cass. Pen., Sez. I, Ordinanza 21 maggio 2021, n. 20338
A cura di Giuseppe Caldarelli
Con l’ordinanza del 21 maggio 2021, n. 20338, la Corte di Cassazione, I Sezione Penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117 Cost., anche in relazione all’art. 6 Cedu, nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime differenziato di cui al comma 2 e seguenti, la sottoposizione al visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori.
- Il caso
L’intervento della Suprema Corte trae origine dal ricorso presentato, con l’assistenza del proprio difensore, da un imputato – condannato a venticinque anni di reclusione poiché ritenuto esponente di vertice di una organizzazione criminale di stampo mafioso e sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis, commi 2 e seguenti, ord. pen. – avverso l’ordinanza con la quale, il 9 luglio 2020, il Tribunale di Locri aveva rigettato il reclamo proposto contro il decreto col quale, il 12 maggio 2020, il Presidente del Tribunale aveva disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato al difensore di fiducia. La missiva, inviata dal carcere nel quale il soggetto si trovava ristretto al fine di poter predisporre in tempo utile un atto d’appello ulteriore rispetto a quello già proposto dal primo difensore nominato, era infatti stata trattenuta dal Presidente del Tribunale con provvedimento poi confermato dal Tribunale calabrese sul fondamento della ritenuta sussistenza di un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, collegato alla equivocità del telegramma, il quale si presentava composto da una serie di periodi non legati tra loro da un filo logico tale da rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza. Ciò non sarebbe stato spiegabile in forza del basso grado di istruzione dell’autore, il quale aveva redatto personalmente il reclamo, dimostrandosi capace di esporne in modo chiaro e lineare i motivi.
- Il quadro normativo di riferimento
Con riguardo al quadro normativo, occorre in via preliminare osservare che, nell’ottica del trattamento penitenziario, l’art. 15 della legge 26 luglio 1975, n. 354, dispone che vadano agevolati, per il condannato e l’internato, opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. A tal fine, la disciplina prevede lo svolgimento di colloqui visivi con soggetti liberi, nonché la corrispondenza telefonica, telegrafica ed epistolare. Quest’ultima, in particolare, viene garantita attraverso l’art. 18, comma 5, della stessa legge, il quale prevede che l’amministrazione penitenziaria metta a disposizione dei detenuti che ne sono sprovvisti gli oggetti di cancelleria necessari a tale forma di corrispondenza.
Tuttavia, nonostante l’impianto di fondo dell’intera normativa pare spinga verso un uso diffuso di tali mezzi di contatto col mondo dei liberi, il diritto a una corrispondenza epistolare e telegrafica può essere sottoposto, attraverso provvedimento giurisdizionale, a restrizioni e controlli limitatamente al singolo detenuto. L’art. 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dalla legge 8 aprile 2004, n. 95, ne prevede le tipologie, i presupposti, i tempi massimi di durata, l’autorità competente e i meccanismi di tutela giurisdizionale. Nel caso in cui vengano riscontrate esigenze attinenti alle indagini o investigative o di prevenzione dei reati, nonché per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, è prevista la possibilità di disporre, nei confronti di singoli detenuti o internati e per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi che non superino i tre mesi, tre differenti forme di limitazione alla ricezione o all’invio di missive. Queste sono il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza la lettura della medesima, che costituisce la forma più lieve ed è finalizzata a verificare che in esse non si nascondano oggetti o valori non consentiti; nonché l’inibizione totale o parziale della facoltà di spedire o ricevere e, come operazione propedeutica a quest’ultima, la sottoposizione al visto di controllo, che costituiscono le forme più gravi di restrizione.
La suddetta disciplina normativa generale viene derogata dall’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, il quale, nell’ambito di un più ampio elenco di restrizioni al trattamento (aventi esigenze preventive relativamente a questa particolare tipologia di detenuti), prevede norme specifiche circa la libertà e la segretezza della corrispondenza che, dunque, pongono la norma in un rapporto di specialità rispetto all’art. 18-ter. Più precisamente, al comma 2-quater, lett. e), è disposta la sottoposizione al visto di censura. Nell’ordinanza in questione si osserva che, pur utilizzando, le suddette norme, termini diversi tra loro, quali “visto di controllo” e “visto di censura”, entrambi corrispondono allo stesso significato di “sottoposizione ad esame di una missiva, effettuato dall’autorità preposta, strumentale ad evitare la trasmissione di informazioni suscettibili di mettere a repentaglio i valori a cui presidio le disposizioni sono rispettivamente poste”[1]. In entrambi i casi l’intrusione nella sfera privata non è circoscritta alla conoscenza del contenuto, ma si risolve nella possibilità di bloccare l’inoltro della corrispondenza o di non procedere alla sua consegna al destinatario. Ad ogni modo, le due norme si differenziano sotto il profilo, che qui interessa, delle eccezioni, ossia dei soggetti la cui corrispondenza, per espressa previsione di legge, è sottratta alle suindicate limitazioni: l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), della legge n. 354 del 1975, si limita ad escludere dalla sottoposizione al visto di censura la sola corrispondenza con i membri del Parlamento e con le autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia, tralasciando la corrispondenza col difensore (oltre a quella intrattenuta con gli altri soggetti indicati dall’art. 103, comma 5, cod. proc. pen.), al contrario di quanto avviene per i detenuti non sottoposti al regime detentivo differenziato.
- Il dubbio di legittimità
La Corte di Cassazione, nell’ordinanza di cui si tratta, prima ancora di esaminare i motivi di legittimità lamentati col ricorso (violazione di legge e vizio di motivazione), dubita della compatibilità costituzionale della suddetta disposizione proprio nella parte in cui non prevede che il difensore rientri nel novero dei soggetti la cui corrispondenza è sottratta al visto di censura. Il vulnus non riguarderebbe soltanto la segretezza della corrispondenza (tutelata dall’art. 15 Cost.), ma in particolar modo anche il diritto di difesa (di cui all’art. 24 Cost.) e il diritto ad un giusto processo (ai sensi dell’art. 111 Cost.), con riguardo alla garanzia di poter disporre del tempo e delle condizioni necessarie ad approntare le proprie difese che, ai sensi dell’art. 6 Cedu, rientra tra gli elementi che costituiscono l’equo processo e che, dunque, è tutelato anche a livello sovranazionale.
La Suprema Corte osserva come la compressione di tali diritti fondamentali sia fondata sull’esigenza, per i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione, di neutralizzare la loro maggiore pericolosità nell’ottica della difesa della società nei confronti della criminalità organizzata. Tuttavia, come più volte affermato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, i diritti fondamentali possono essere sacrificati ed entrare in una operazione di bilanciamento tra loro, purché ne sia verificata la ragionevolezza. I profili dubbi, secondo la Corte di Cassazione, sarebbero rinvenibili proprio su questo piano, in quanto la stessa ritiene che “l’assoluta compressione dell’interesse a mantenere una corrispondenza riservata con il difensore, quand’anche ispirata all’esigenza di impedire i contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, non può superare il vaglio di ragionevolezza e, quindi, ritenersi giustificata”[2].
Dubbi di ragionevolezza si avrebbero innanzitutto con riguardo all’equiparazione dei difensori ai familiari del detenuto. La Corte di Cassazione, infatti, riprendendo le parole della sentenza 20 giugno 2013, n. 143, della Corte Costituzionale – la quale, citata più volte nell’ordinanza di cui si tratta, aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), nella parte in cui apportava limiti quantitativi ai colloqui col difensore e che segna sotto vari profili la sorte della norma oggetto della questione sottoposta al vaglio della Consulta[3] – afferma che, seppure la possibilità che un difensore possa fungere da illecito canale di comunicazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale d’appartenenza non possa essere esclusa a priori, cionondimeno tale eventualità non può neanche essere assunta a massima d’esperienza e tradotta in enunciato normativo, differentemente da quanto avviene per parenti e conoscenti. I difensori sono infatti tenuti al rispetto di un codice deontologico e sono sottoposti alla vigilanza disciplinare dell’ordine professionale d’appartenenza. Si tratterebbe, dunque, di una disciplina che “finisce col trattare in modo analogo situazioni differenti, in patente violazione del principio di eguaglianza, irragionevolmente comprimendo, altresì, il diritto di difesa”[4].
Inoltre, dubbi di ragionevolezza sarebbero riscontrabili in un’ottica di comparazione della normativa censurata con quella prevista per i colloqui visivi e telefonici col difensore, i quali sono sottratti, ai sensi dello stesso art. 41-bis, ord. pen., all’applicazione delle norme sul controllo auditivo e sulla videoregistrazione previsti, al contrario, per i familiari. Ciò rafforzerebbe, secondo i Giudici di legittimità, le criticità in ordine alla compressione del diritto di difesa, stante la non effettiva neutralizzazione del pericolo, in quanto, restando riservati i colloqui visivi tra imputato e difensore, le occasioni di realizzazione di un illecito scambio comunicativo con l’organizzazione criminale d’appartenenza a mezzo del difensore, in astratto, non verrebbero comunque meno. La penalizzazione al diritto di difesa finirebbe così non solo con l’essere irragionevole, ma anche con l’essere inutile.
Sulla base di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale e ha sospeso il procedimento in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci.
[1] Cass. Pen. Sez. I, ordinanza n. 20338, 21 maggio 2021, punto 4 del Considerato in diritto.
[2] Ibidem, punto 11 del Considerato in diritto.
[3] Cfr. C. Minnella, Alla Consulta il visto di censura della corrispondenza tra il detenuto al 41-bis e il suo difensore, Diritto & Giustizia, fasc. 102/2021, pag. 6.
[4] Cass. Pen. Sez. I, ordinanza n. 20338, 21 maggio 2021, punto 12 del Considerato in diritto.