CEDU e matrimoni omosessuali: love is (not) love?
Sono passati solamente undici anni dalle prime, storiche, pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo sul tema del riconoscimento delle coppie omosessuali. Undici anni, un periodo di tempo molto lungo rispetto agli attuali ritmi con cui muta la nostra sensibilità politica e culturale e, contemporaneamente, molto breve se pensiamo al notevole percorso fatto dalla Corte di Strasburgo dagli anni ’50 ad oggi.
E allora, com’è possibile che un tema oggi così centrale sia stato discusso per la prima volta solo poco più che un decennio fa?
La risposta sta, in parte, nella domanda.
Nonostante la mobilitazione per i diritti LGBTQ+ e il riconoscimento delle coppie omosessuali trovi le sue origini tra gli anni ’60 e ’70 (Harvey Milk, i moti di Stonewall), la sua presenza nel dibattito giuridico ha assunto un ruolo importante solamente a partire dagli anni 2000, con i primi interventi legislativi in materia.
Proprio per questo, il principale ostacolo a livello internazionale – e, allo stesso modo, anche davanti alla Corte di Strasburgo – è sempre stato l’assenza di un consensus internazionale. La comunità creata con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, infatti, pur essendo accomunata dall’adesione – formale – al medesimo sistema di diritti, libertà e garanzie, è caratterizzata da una moltitudine di tradizioni giuridiche, sociali, etiche e religiose che, inevitabilmente, impattano sull’applicazione concreta delle previsioni della Convenzione.
La definizione di un consensus internazionale condiviso risulta essere particolarmente complesso da raggiungere su alcuni temi storicamente controversi e discussi, su cui è ancora forte l’influenza di una morale conservatrice ed integralista. E, tra questi, spicca sicuramente la questione relativa al riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, che ha visto un progressivo ma radicale cambiamento di sensibilità a livello europeo, registrato anche dalle sentenze della stessa Corte di Strasburgo. In Italia, l’intervento del legislatore si è materializzato sia allargando l’ambito di applicazione dell’istituto matrimoniale[1], sia con previsioni ad hoc, come accaduto con la legge sulle unioni civili del 2016[2]. Altri paesi, ancora, rifiutano qualsiasi genere di riconoscimento o concedono alcune, limitate, tutele relative ai diritti di coabitazione e residenza[3].
Tale varietà di approcci rappresenta un problema non solo per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali, ma – inevitabilmente – anche nell’ambito internazionalprivatistico: nel nostro paese, ad esempio, nonostante i tentativi della giurisprudenza di riconoscere sostanziale uguaglianza tra i due istituti, il matrimonio omosessuale celebrato all’estero resta soggetto alla c.d. downgrade recognition e viene equiparato, a tutti gli effetti, all’unione civile[4].
Il primo riconoscimento: Kozak e Schalk e Kopf
Estendere la portata dei diritti convenzionali richiede uno sforzo interpretativo e “manipolativo” delle disposizioni della Convenzione in modo da rendere effettiva la sua natura di living instrument, capace di adattarsi alle mutate sensibilità politiche e culturali dei paesi del Consiglio d’Europa. Questo tema è ricorrente in tutta la giurisprudenza della Corte ed è stato anche il “carburante” che ha mosso la macchina della Corte nella sentenza Kozak c. Polonia[5] del 2 marzo 2010, una decisione che ha rappresentato la base giuridica per il successivo sviluppo della giurisprudenza in materia.
Nel caso Kozak[6], infatti, la Corte statuisce in maniera inequivocabile che (a) l’orientamento sessuale costituisce un fattore di discriminazione ex art. 14 CEDU e (b) quando gli Stati operano una distinzione (rectius discriminazione) che vada ad impattare sulla sfera più intima degli individui, gli stessi hanno un obbligo di motivazione molto più stringente ed un margine di discrezionalità molto più ristretto[7]. Simili valutazioni non possono essere però definite fuori da un contesto sociale e politico in continua evoluzione e nel quale anche le coppie omosessuali costituiscono, a tutti gli effetti, una famiglia[8]; ne consegue (c) l’applicazione dell’art. 8 CEDU anche alle unioni familiari formatesi sulla base di un rapporto omosessuale.
Il 2010 diventa dunque un anno febbrile per la Corte che, subito dopo Kozak, compie un altro passo in avanti con il celebre caso Schalk e Kopf, in cui i ricorrenti avevano sollevato, anche di fronte alla Corte costituzionale, l’illegittimità della legislazione austriaca che vietava la celebrazione di matrimoni omosessuali[9].
Sul punto, occorre precisare come l’interpretazione dell’art. 12 CEDU (diritto al matrimonio) non sia stata sempre pacifica: in un primo momento, facendo leva sul dato testuale[10] e preso atto dell’approccio tradizionalista adottato da molti Stati, la Corte aveva dato precedenza al margine di discrezionalità delle autorità statali, libere di disciplinare il matrimonio anche sulla base del mero dato biologico[11]; successivamente, nella pronuncia sul caso Goodwin[12], i giudici di Strasburgo hanno accolto la mutata sensibilità sociale e culturale statuendo l’incompatibilità di qualunque divieto basato sul genere che ostasse al riconoscimento di un’unione (legale o di fatto)[13] (un’interpretazione che trova pieno accoglimento nel dettato della Convenzione stessa che, indipendentemente dalla traduzione che si vuole adottare[14], non preclude alla possibilità che un’unione matrimoniale sia composta da persone dello stesso sesso).
Nella sentenza Schalk e Kopf, la Corte ha però evidenziato come dalla Convenzione non sia possibile far scaturire l’obbligo, per gli Stati, di aprire l’istituto del matrimonio anche alle coppie omosessuali[15]; secondo i giudici, infatti, le autorità nazionali, nell’ambito del loro margine di discrezionalità possono decidere di limitare l’accesso al matrimonio a coppie dello stesso sesso. Una conclusione criticabile ma che deriva dal fatto che l’interpretazione della Convenzione stessa, living instrument di tutela dei diritti fondamentali, non può prescindere dal riconoscimento delle diverse sensibilità culturali e sociali presenti nei vari paesi del Consiglio d’Europa[16].
Se da questo punto di vista la pronuncia della Corte non ha voluto – anzi, potuto – prendere una netta posizione, la sentenza mette un punto fermo nel riconoscimento delle coppie omosessuali come una relazione di natura familiare[17]. Il concetto di “famiglia”, come interpretato dalla Corte europea, comprende dunque non soltanto i nuclei familiari costituiti su base matrimoniale, ma ricomprende ogni unione de facto, i cui membri vivano insieme e stabilmente[18], anche se omosessuale[19] e anche in presenza di figli[20]. Un riconoscimento non solo formale ma anche – anzi, soprattutto – sostanziale.
Valianatos c. Grecia e Oliari c. Italia: diritti per tutt*
Non potendo agire per manipolare direttamente il margine di discrezionalità degli Stati, la Corte non ha potuto che prendere atto, col passare del tempo, della rinnovata sensibilità a livello europeo per quanto concerne il riconoscimento di diritti alle coppie omosessuali; e ciò senza peraltro sottovalutare l’ampiezza di questa categoria, che ricomprende diritti di natura patrimoniale (sul regime legale dei beni e in materia successoria) e diritti di natura personale o attinenti ai rapporti familiari (assistenza, riconoscimento dei rapporti di filiazione).
Presupposto fondamentale di tale riconoscimento è costituito dal principio statuito dalla Corte nella celebre sentenza Valianatos c. Grecia[21], emessa su istanza di un gruppo di ricorrenti (quattro coppie) che lamentavano la natura discriminatoria della legge sulle unioni civili greca, riservata alle sole coppie eterosessuali. Nonostante le opposizioni del governo ellenico, la Corte ha rilevato una violazione dell’art. 14 CEDU, in combinato disposto con l’art. 8 CEDU in quanto, stante la natura dell’unione civile, alternativa rispetto al matrimonio, non vi sono legittime ragioni per escludere le coppie omosessuali dall’accesso a questo istituto[22].
Un principio poi confermato nel caso Oliari, celebre pronuncia in cui la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 8 CEDU in quanto, al tempo (2011), nell’ordinamento italiano, era del tutto assente una previsione legislativa che disciplinasse i rapporti tra membri di coppie omosessuali[23]. Una sentenza che va citata anche per la durissima posizione assunta dalla Corte nei confronti del governo italiano, accusato di non “aver attribuito particolare importanza alle indicazioni fornite dalla comunità nazionale, in particolare dalla popolazione italiana in generale e dalle supreme autorità giudiziarie italiane”[24], “comprese la Corte costituzionale e la Corte di cassazione, (che) hanno dato ampio risalto all’esigenza di riconoscere e tutelare tali relazioni”, e che “hanno segnatamente e ripetutamente sollecitato il riconoscimento giuridico dei pertinenti diritti e doveri delle unioni omosessuali”[25]. Una lacuna giuridica che si è poi ripresentata anche in una successiva sentenza, quella sul caso Orlandi e altri c. Italia[26], in cui la Corte ha condannato il nostro paese per violazione dell’art. 8 CEDU in quanto la mancanza di una disciplina ad hoc in materia di unioni omosessuali aveva ostacolato anche il riconoscimento di un’unione contratta all’estero[27].
Quando il matrimonio non è accessibile a coppie omosessuali, una specifica disciplina per le unioni civili non solo rappresenta “il modo più appropriato per poter far riconoscere giuridicamente la loro relazione” e garantire “diritti fondamentali relativi a una coppia che ha una relazione stabile”, ma possiede anche un “valore intrinseco per le persone che si trovano nella situazione dei ricorrenti, indipendentemente dagli effetti giuridici, circoscritti o estesi, che esse produrrebbero” in quanto “conferirebbe … un senso di legittimità alle coppie omosessuali”[28].
Tale riconoscimento si scontra però con una realtà mutevole e che pone interrogativi sempre più pressanti per gli organi giudiziari. Un esempio in questo senso è il caso Hämäläinen c. Finlandia[29], in cui i giudici di Strasburgo sono stati chiamati a decidere sulla legittimità della “trasformazione” di un matrimonio in un’unione civile a seguito del cambiamento di sesso del ricorrente. Ai sensi del diritto finlandese, il ricorrente, dopo la transizione, aveva tre strade: mantenere il matrimonio, rinunciando al riconoscimento legale del nuovo sesso (quello femminile), divorziare o accettare la trasformazione ex lege del proprio matrimonio in un’unione civile (una sorta di downgrade recognition interna). Tutte opzioni che la Corte ha ritenuto legittime nel margine di discrezionalità concesso alle autorità nazionali, aggiungendo poi che, in particolare, la conversione in unione civile risultava essere, nel caso di specie, minimamente (o per nulla) impattante sulla prosecuzione dei rapporti familiari, sia con il coniuge che con la figlia[30].
“Figlie di un dio minore”: esistono ancora differenze tra coppie omosessuali ed eterosessuali?
Nonostante i decisi progressi effettuati nell’ultimo decennio – non solo in Italia ma in tutta Europa, non sono mancati “passi falsi”, ovverosia sentenze in cui la Corte ha sostanzialmente legittimato disparità di trattamento tra coppie eterosessuali e omosessuali.
In Aldeguer Tomàs c. Spagna[31] la Corte non ha rilevato una violazione dell’art. 8 CEDU, in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, da parte delle autorità spagnole, che non avevano riconosciuto il diritto alla reversibilità a favore del partner sopravvissuto in un’unione omosessuale[32]. Secondo i giudici il trattamento non risulta essere discriminatorio (a) per l’irretroattività della legge sul matrimonio omosessuale (il de cuius era deceduto tre anni prima dell’entrata in vigore della legge, risalente al 2005) e (b) perché, anche volendo paragonare la situazione di coppie di fatto omosessuali ed eterosessuali, queste ultime hanno sempre goduto della possibilità – teorica – di contrarre matrimonio, anche quando questa facoltà non era in concreto concessa (ad esempio, prima dell’emanazione della legge sul divorzio, datata 1981, una coppia sostanzialmente separata non poteva comunque contrarre nuove nozze), mentre questa possibilità era negata ab origine alle coppie omosessuali[33]. In altre parole, né dal punto di vista della legge applicabile né volendo valorizzare la natura stabile della relazione è possibile giungere all’esito sperato dai ricorrenti “forzando” la legislazione spagnola – che comunque, esplicitamente, riservava il diritto alla reversibilità alle sole coppie (in regime di matrimonio o more uxorio) formate da persone di sesso differente.
Speculari sono altre due pronunce nei casi Taddeucci e McCall c. Italia[34] (successiva alle citate Orlandi e Oliari) e Pajic c. Croazia[35]. Entrambe rinviano al più generale ambito di applicazione del divieto di discriminazione e al principio affermato nella sentenza Thlimmenos c. Grecia, secondo cui il divieto di discriminazione risulta violato non solo quando gli Stati, in assenza di oggettive e ragionevoli giustificazioni, trattino due soggetti in una situazione analoga in maniera differente, ma anche quando trattino in maniera identica due soggetti che si trovano in posizioni sensibilmente diverse[36].
Nella sentenza Taddeucci e McCall, i giudici europei hanno deciso per la non violazione dell’art. 14 CEDU e dell’art. 8 CEDU da parte delle autorità italiane, che non avevano concesso il permesso di soggiorno “per motivi familiari” ad uno dei due ricorrenti (una coppia di uomini uniti dapprima in unione civile in Nuova Zelanda, convolati a nozze in Olanda e trasferiti successivamente in Italia) sull’assunto che la nozione di “familiare”, nel diritto comunitario, è limitato al solo coniuge e non al convivente di fatto, indipendentemente dall’orientamento sessuale della coppia. Un “calderone” in cui coppie de facto, omosessuali ed eterosessuali, sono sostanzialmente equiparate, anche se la Corte evidenzia come “la situazione dei ricorrenti non può tuttavia essere considerata analoga a quella di una coppia eterosessuale non sposata” atteso che “a differenza di quest’ultima, gli interessati non hanno in Italia la possibilità di sposarsi”. In altre parole, l’impossibilità di accedere all’istituto del matrimonio e “un’interpretazione restrittiva della nozione di «familiare»” costituiscono “un ostacolo insormontabile al rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari soltanto per le coppie omosessuali”[37].
Pur vertendo sullo stesso tema (mancata concessione di un permesso di soggiorno al membro di una coppia omosessuale non comunitario), i giudici, nella sentenza sul caso Pajić, hanno invece riconosciuto una violazione dei diritti convenzionali da parte della Croazia. La legislazione croata, infatti, pur riconoscendo anche alle coppie omosessuali la natura di unione familiare, esclude tacitamente – e in maniera del tutto arbitraria – le coppie composte da persone dello stesso dalla possibilità di accedere alle procedure per il ricongiungimento familiare[38].
Il quadro sopra delineato è dunque particolarmente variegato e in continua evoluzione, anche se possono essere evidenziati alcuni, minimi, comuni denominatori. In primis, sembra che la Corte sia molto prudente nel maneggiare il margine di discrezionalità degli Stati in materia, anche alla luce del fatto che manca a tutt’oggi un consensus internazionale univoco in materia (soprattutto per quanto riguarda i paesi dell’ex blocco sovietico, molto rigidi nel riconoscere le coppie omosessuali e garantire loro diritti e tutele). D’altra parte, i giudici non possono nemmeno astenersi dal ravvisare violazioni della Convenzione quando il trattamento delle autorità sia palesemente discriminatorio, non riconoscendo giuridicamente coppie omosessuali o negando loro specifici diritti e ciò sia quando queste si trovano in regime matrimoniale (e, dunque, a confronto con coppie eterosessuali sposate) sia in regime di convivenza de facto (paragonandole a convivenze tra persone di sesso diverso more uxorio).
Una lunga strada ancora da percorrere
L’attuale posizione della Corte è ben delineata dalla recente sentenza sul caso Fedotova e altri c. Russia[39] del 13 luglio 2021, in cui le tre coppie ricorrenti lamentano una violazione dei loro diritti fondamentali in quanto l’ordinamento russo non prevede alcun istituto che riconosca giuridicamente un’unione omosessuale: il matrimonio è infatti limitato alle sole coppie di sesso diverso (per convolare a nozze, infatti, è necessaria l’espressa volontà di un uomo e di una donna[40]) e non sono presenti sistemi alternativi per far riconoscere la propria unione. Un mancato riconoscimento che ha un effetto diretto sulla quotidianità dei ricorrenti e sul godimento di tutta una serie di diritti che trovano copertura convenzionale, ad esempio in materia abitativa, successoria o alla possibilità di visitare il partner ricoverato in ospedale[41].
Il caso russo è però diverso rispetto a quelli visti sino ad ora. Se per altri paesi europei il mancato riconoscimento delle coppie omosessuali rappresenta una discrasia tra legge e sentimento popolare, ciò non vale per la Russia, dove quasi l’80% della popolazione è contraria ai matrimoni omosessuali e, in generale, una gran parte considera l’omosessualità una malattia (complessivamente più del 30% della popolazione) e gli omosessuali come persone non gradite o addirittura pericolose (20%)[42]. Un sondaggio del 2018 ha segnalato come più del 60% della popolazione russa consideri la propaganda LGBTQ+ come un pericolo per la “fibra spirituale” del paese[43]. Il referendum del luglio 2020 ha certificato questa diffusa intolleranza anche tra le autorità russe: nell’ambito di una più ampia riforma costituzionale è stata infatti approvata una modifica del testo “a favore della famiglia tradizionale”, che ora qualifica il matrimonio come un’unione esclusivamente tra uomo e donna[44]. Rispetto a quest’ultimo aspetto[45], la Corte, nel decidere per la violazione dell’art. 8 CEDU da parte delle autorità russe, sottolinea come il sentimento popolare possa certamente giocare un ruolo nella valutazione della condotta degli Stati quando si tratta di riconoscere le coppie omosessuali, ma ciò non può comunque giustificare una violazione dei diritti convenzionalmente garantiti[46]. Nel caso di specie, la Russia ha ampiamente superato questo limite non riconoscendo alcuno strumento capace di riconoscere le relazioni omosessuali, negando loro garanzie e tutele fondamentali[47].
Lo standard di tutela accordato dalla Corte risulta essere comunque abbastanza basso, atteso che questo riconoscimento può avvenire con qualsiasi strumento idoneo (la sentenza, al §56, cita “civil partnership, civil union, or civil solidarity”). Che la Corte sia indifferente a questo aspetto, rimettendosi al margine di discrezionalità delle autorità nazionali, genera più di una preoccupazione: un’efficace tutela dei diritti convenzionale non può prescindere da un riconoscimento non solo formale ma anche sostanziale di garanzie in capo alle coppie omosessuali. Lasciare queste valutazioni in mano alle autorità nazionali – soprattutto di paesi, come la Russia, poco disponibili verso la comunità LGBTQ+ – non può che rappresentare un ulteriore fattore di rischio.
C’è un futuro per il riconoscimento del matrimonio omosessuale di fronte alla Corte?
Il percorso compiuto fin qui dalla Corte è di lento e costante progresso, anche se Strasburgo non ha mai dimostrato grande coraggio nel prendere posizione; al contrario, i giudici si sono spesso trasformati in semplici “notai”, certificatori di un’evoluzione culturale – più che giuridica – che è avvenuta, con alterne fortune, in tutta Europa.
In un simile contesto, la Corte si è spesso ritrovata nella scomoda posizione di accettare il volere della maggioranza, limitando il proprio raggio d’azione e riducendo al minimo il livello di tutela garantito agli individui. Una scelta che si è tradotta in risultati paradossali, con i giudici che hanno implicitamente accettato tutto quell’insieme di pregiudizi e miscredenze che si celano dietro il concetto (spesso politicamente abusato) di “famiglia tradizionale”; e ciò a detrimento della tutela dei diritti della minoranza LGBTQ+, ignorata – nella migliore delle ipotesi – o perseguitata – nella peggiore – in diversi paesi del Consiglio d’Europa.
Da un punto di vista giuridico alcuni commentatori[48] hanno evidenziato due criticità: (a) la frequente applicabilità dell’art. 8 CEDU, in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, che spostano il focus sulla portata discriminatoria di un atto delle autorità, non discutendo mai, nel merito, dell’esistenza di un obbligo positivo di riconoscimento del matrimonio omosessuale ex art. 12; (b) la mancata individuazione di un nucleo minimo di diritti convenzionalmente garantiti alle coppie omosessuali.
Intervenire su questi due aspetti potrebbe essere il primo passo, per la Corte, per affrancarsi dalla “dittatura della maggioranza” e stabilire gli estremi di una disciplina comune in tutto il continente.
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[1] Come fatto, ex multis, dalla Francia (2013), dalla Spagna (2005), dalla Germania (2017) e, più di recente, anche dall’Austria (2019)
[2] Legge n. 76 del 20 maggio 2016 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg).
[3] Su tale aspetto è anche intervenuta l’Unione Europea che, nel 2018, ha contestato l’approccio particolarmente restrittivo delle autorità romene, si veda https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2018-01/cp180002en.pdf
[4] Come previsto anche dall’art. 32 della L. n. 218/1995, la quale dispone che “Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana”, si veda Barel B., Armellini S., Manuale Breve Diritto Internazionale Privato, Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, pp. 161 e ss.
[5] Corte EDU, Kozak c. Polonia, ricorso n. 13102/02, sentenza 2 marzo 2010.
[6] In cui la Corte ha rilevato una violazione dell’art. 8 CEDU, in combinato disposto con l’art. 14, in quanto le autorità polacche avevano negato al ricorrente l’acquisto mortis causa di un immobile dopo il decesso del compagno.
[7] Ibid., §92.
[8] Ibid., §99, Danisi C., How far can the European Court of Human Rights go in the fight against discrimination? Defining new standards in its nondiscrimination jurisprudence, Oxford University Press and New York University School of Law, 2011, pp. 802 e ss.
[9] L’art. 44 del Codice civile austriaco definisce il matrimonio come un accordo tra due persone di sesso diverso.
[10] “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”
[11] Corte EDU, Schalk e Kopf c. Austria, ricorso n. 30141/04, sentenza 24 giugno 2010, §51, in cui vengono citate altre importanti pronunce quali Corte EDU, Sheffield e Horsham c. Regno Unito, ricorsi nn. 22985/93 e 23390/94, sentenza 30 luglio 1998, §67, Corte EDU, Cossey c. Regno Unito, ricorso n. 10843/84, sentenza 27 settembre 1990, §46, e Corte EDU, Rees c. Regno Unito, ricorso n. 9532/81, sentenza 17 ottobre 1986, §§49-50. .
[12] Corte EDU, Christine Goodwin c. Regno Unito, ricorso n. 28957/95, sentenza 11 luglio 2002, E, ancora, nei casi Corte EDU, Parry c. Regno Unito, ricorso n. 42971/05, decisione 28 novembre 2006, e Corte EDU, R. e F. c. Regno Unito, ricorso n. 35748/05, decisione 28 novembre 2006.
[13] Corte EDU, Schalk e Kopf c. Austria, cit., §52, In particolare, nel caso Goodwin, riconoscendo la possibilità di convolare a nozze per una persona che ha completato il percorso di transizione
[14] La Convenzione riconoscere il diritto di convolare a nozze a tutti, senza alcun riferimento al genere o al sesso. Rispetto alla traduzione, nelle varie versioni troviamo, in italiano, “l’uomo e la donna”, in francese, “l’homme et la femme”, in inglese, “men and women”.
[15] Corte EDU, Schalk e Kopf c. Austria, cit., §61-62 Un obbligo, peraltro, che non può scaturire nemmeno dall’interpretazione di altre norme della Convenzione, quali l’art. 8 in combinato disposto con l’art. 14, §101.
[16] Ibid., §104.
[17] Ibid., §90.
[18] Ibid., §91, si vedano anche Corte EDU, Elsholz c. Germania, ricorso n. 25735/94, sentenza 13 luglio 2000, §43, Corte EDU, Keegan c. Irlanda, ricorso n. 28867/03, sentenza 26 maggio 1994, §44, e Corte EDU, Johnston e altri c. Irlanda, ricorso n. 9697/82, sentenza 18 dicembre 1986, §56.
[19] Corte EDU, Schalk e Kopf c. Austria, cit., §§93-94.
[20] Corte EDU, Gas e Dubois c. Francia, ricorso n. 25951/07, sentenza 15 marzo 2012, e Corte EDU, X e altri c. Austria, ricorso n. 19010/07, sentenza 19 febbraio 2013, §96.
[21] Corte EDU, Valianatos e altri c. Grecia, ricorsi nn. 29381/09 e 32684/09, sentenza 7 novembre 2013.
[22] Corte EDU, Schalk e Kopf c. Austria, cit., §§90 – 91. L’art. 14 CEDU non prevede, tra i casi di discriminazione, l’orientamento sessuale, che però è sempre stato considerato come tale fin dal celebre caso Corte EDU, Dudgeon c. Regno Unito, ricorso n. 7525/76, sentenza 24 febbraio 1983.
[23] Corte EDU, Oliari e altri c. Italia, ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11, sentenza 21 luglio 2015.
[24] Ibid., §179.
[25] Ibid., §180.
[26] Corte EDU, Orlandi e altri c. Italia, ricorsi nn. 26431/12, 26742/12, 44057/12 e 60088/12, sentenza 14 dicembre 2017.
[27] Ibid., §201 e 210.
[28] Corte EDU, Oliari e altri c. Italia, §§173-174.
[29] Corte EDU, Hämäläinen c. Finlandia, ricorso n. 37359/09, sentenza 16 luglio 2014.
[30] Ibid., §§84-86.
[31] Corte EDU, Aldeguer Tomàs c. Spagna, 35214/09, sentenza 14 giugno 2012.
[32] Ai sensi della legge n. 13/2005, tale diritto veniva riservato ai partner sopravissuti in coppie sposate o coppie de facto eterosessuali che non potevano divorziare prima dell’entrata in vigore della legge n. 30/1981, ibid., §76 e §83.
[33] Ibid., §§83–91.
[34] Corte EDU, Taddeucci e McCall c. Italia, ricorso n. 51362/09, sentenza 30 giugno 2016.
[35] Corte EDU, Pajić c. Croazia, ricorso n. 68453/13, sentenza 23 febbraio 2016.
[36] Corte EDU, Thlimmenos c. Grecia, ricorso n. 34369/97, sentenza 6 aprile 2000, §38.
[37] Corte EDU, Taddeucci e McCall c. Italia, cit., §83.
[38] Corte EDU, Pajić c. Croazia, cit., §§72-78.
[39] Corte EDU, Fedotova e altri c. Russia, ricorsi nn. 40792/10, 30538/14 e 43439/14, sentenza 13 luglio 2021.
[40] Ibid., §6.
[41] Ibid., §40 e §51.
[42] Ibid., §35, dati del 2015.
[43] Most Russians Think LGBT ‘Propaganda’ Aims to Destroy Traditional Values: State Poll, Newsweek, 8 dicembre 2018 (https://www.newsweek.com/most-russians-think-lgbt-propaganda-will-destroy-traditional-values-state-1082616). Sul ruolo dell’attivismo LGBTQ+ nel paese si veda Buyantueva R., LGBT Rights Activism and Homophobia in Russia, PubMed.gov, 6 giugno 2017.
[44] La Russia vota la riforma costituzionale: plebiscito per Putin, il sì oltre il 70%, La Stampa, 1° luglio 2020 (https://www.lastampa.it/esteri/2020/07/01/news/riforma-costituzionale-in-russia-ultime-ore-prima-degli-exit-poll-ma-pochi-dubbi-sul-successo-di-putin-1.39031731).
[45] Emerso anche in altre vicende, come la pronuncia sul caso Corte EDU, Bayev e altri c. Russia, ricorsi nn. 67667/09, 44092/12 e 56717/12, sentenza 20 giugno 2017, in cui le autorità russe hanno giustificato la propria posizione di chiusura rispetto al riconoscimento delle coppie omosessuali sostenendo di voler proteggere i minori dall’esibizione ed ostentazione dell’omosessualità.
[46] Corte EDU, Fedotova e altri c. Russia, cit., §52.
[47] Ibid., §56.
[48] Poppelwell-Scevak C., Here We Go Again? Is Fedotova And Others Just Splitting Hairs When It Comes To Same-Sex Couples?, Strasbourg Observer, 5 ottobre 2021.
30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all’esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017.
Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell’Unione Europea.
Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos – Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo Paulo Pinto de Albuquerque (“I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 – 2020”).