lunedì, Marzo 18, 2024
Criminal & ComplianceDi Robusta Costituzione

L’ergastolo ostativo e il monito della Corte costituzionale: dal “fine pena mai” al diritto di sperare

Introduzione

Il nostro ordinamento penitenziario è regolato dal principio rieducativo, secondo cui, come stabilito dall’art. 27, c. 3 Cost., “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’art. 117, c. 1 Cost. stabilisce, poi, che la potestà legislativa statale deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, quali, ad esempio, quelli contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, all’art. 3, afferma che nessuno può essere sottoposto “a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

In effetti, la stessa L. 354 del 1975 (di seguito o.p.), che regola l’ordinamento penitenziario e l’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, sancisce che “il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona[1], tendendo, “anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale[2].

Ciò, ovviamente, vale per tutti i detenuti, in ossequio al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., ben recepito dalle disposizioni dell’o.p., che all’art. 1 afferma che il trattamento penitenziario “è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni” e all’art. 3 stabilisce che “negli istituti penitenziari è assicurata ai detenuti ed agli internati parità di condizioni di vita”.

Il principio di rieducazione e risocializzazione del condannato, sin qui richiamato, sembra contrastare con la presenza, nel nostro ordinamento, della pena dell’ergastolo, il c.d. carcere a vita.

Eppure è ormai chiaro che il fine di reinserimento del condannato nel corpo sociale è perseguito dal diritto penitenziario italiano “per tutti i condannati a pena detentiva, ivi compresi gli ergastolani[3]. Invero, la convivenza fra una condanna all’ergastolo ed il principio di risocializzazione del reo è resa attuabile dalla possibilità, per l’ergastolano, di accedere, in presenza di precise e stringenti condizioni e solo dopo aver espiato un certo quantum di pena, ai c.d. benefici penitenziari e ad alcune misure alternative alla detenzione. In altre parole, si può dire che il c. 3 dell’art. 27 Cost. sia rispettato anche con riferimento all’ergastolo proprio grazie al fatto che l’ergastolano può comunque accedere ai permessi premio, al lavoro esterno, alla liberazione anticipata, alla semilibertà o alla liberazione condizionale. Anche per il condannato all’ergastolo, dunque, “è prevista la c.d. progressione trattamentale volta a consentire sempre un maggior contatto con l’esterno fino ad arrivare al termine della pena[4].

Eppure, allo stato attuale delle cose, ciò non vale per tutti. L’art. 4-bis o.p., infatti, delinea una disciplina differente per i soggetti condannati per alcuni reati di particolare gravità come, ad esempio, quelli connotati dall’appartenenza ad una associazione mafiosa, terroristica o eversiva. In questi casi l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, fatta eccezione della liberazione anticipata, è precluso ai c.d. detenuti non collaboranti. In parole povere, il condannato per i reati di cui al c. 1 dell’art. 4-bis o.p., pur in presenza di tutte le condizioni utili a tal fine, non potrà usufruire dei benefici penitenziari e delle misure alternative a meno che non collabori con la giustizia.

Evidentemente, in virtù di questa previsione normativa, il condannato all’ergastolo per i reati in questione che decidesse di non collaborare sarà destinato a morire in carcere senza alcuna possibilità di risocializzazione. E ciò anche qualora egli dovesse essere in grado di dimostrare di aver rescisso ogni legame con la criminalità e dovesse, quindi, risultare socialmente innocuo. Si tratta del c.d. ergastolo ostativo, quello per cui la pena è veramente perpetua, tanto è vero che si suole usare l’espressione “fine pena mai”, altamente contrastante col principio rieducativo sancito dall’art. 27 Cost. e che richiama alla mente le parole di Turati e Calamandrei i quali, con rassegnata consapevolezza, definivano le carceri italiane “il cimitero dei vivi[5]. Sulla compatibilità della disciplina dell’ergastolo ostativo è stata chiamata più volte a pronunciarsi la Corte costituzionale e non raramente se ne è occupata anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo (CEDU).

Ora, però, sembra che siamo prossimi ad una svolta epocale. La Consulta, chiamata a vagliare la costituzionalità delle norme che escludono l’accesso alla liberazione condizionale all’ergastolano condannato per delitti di mafia, ha pronunciato l’ord. 97 del 2021. Con essa, la Corte, muovendo il suo ragionamento dalla recente sent. 253 del 2019 e dalla sentenza pronunciata dalla CEDU nel caso Viola c. Italia, ha rinviato il giudizio al 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo termine per affrontare la materia. Che significa tutto questo? La Corte è consapevole del fatto che, in virtù del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, dovrebbe, nel caso in specie, limitarsi a sancire, eventualmente, l’incostituzionalità del c.d. ergastolo ostativo solo con riferimento alla liberazione condizionale e solo relativamente ai condannati per i delitti di mafia di cui all’art. 416-bis c.p.. Tutto il resto, invece, resterebbe così com’è. E ciò non farebbe altro che creare un gran bel caos.

La Corte, tenendo conto del fatto che è all’esame della Camera una proposta di legge volta a modificare la disciplina in questione e che “spetta al legislatore […] ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo[6], si è riservata di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni che saranno eventualmente assunte dal Parlamento in merito. E ciò avverrà proprio all’udienza del 10 maggio 2022, nella speranza che, a quella data, la disciplina dell’ergastolo ostativo risulti effettivamente innovata e che le contraddizioni che essa sembra vestire siano state superate.

 

Benefici penitenziari e progressione trattamentale

Come si è detto, la risocializzazione dell’ergastolano è resa possibile dalla c.d. progressione trattamentale, mediante la quale il detenuto, alle condizioni che si diranno, potrà accedere a quei benefici che svolgono la funzione di reinserirlo via via nella società.

Per meglio comprendere di cosa stiamo parlando è opportuno fare una breve panoramica dei principali benefici penitenziari e delle condizioni in base alle quali questi possono essere assegnati anche ai condannati all’ergastolo.

  • I permessi premio, disciplinati dall’art. 30-ter o.p., vengono assegnati ai condannati che hanno tenuto regolare condotta, manifestando costante senso di responsabilità e correttezza. Gli ergastolani possono accedervi solo dopo aver espiato la pena per dieci anni. Si tratta di permessi della durata massima di quindici giorni che vengono rilasciati al detenuto richiedente per permettergli di coltivare interessi affettivi, culturali o lavorativi. I permessi premio non possono comunque superare la durata complessiva di quarantacinque giorni l’anno.
  • Il lavoro esterno, di cui all’art. 21 o.p., è possibile anche per gli ergastolani che hanno già scontato dieci anni.
  • La semilibertà, che consente al detenuto di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario per attività di risocializzazione, è disciplinata dagli artt. 48 ss o.p. L’ammissione a tale regime è disposta in relazione ai progressi compiuti dal detenuto nel corso del trattamento purché vi siano le condizioni per un graduale reinserimento dello stesso nella società. Gli ergastolani possono accedervi solo dopo aver espiato venti anni di pena.
  • La liberazione condizionale, invece, è regolata direttamente dal codice penale con l’art. 176. Si tratta di una vera e propria liberazione che viene concessa al detenuto che abbia mostrato un sicuro ravvedimento e che abbia soddisfatto, salvo impossibilità, le obbligazioni civili derivanti dal reato. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale una volta trascorsi ventisei anni di pena. Con la liberazione condizionale l’esecuzione della pena viene sospesa ed il condannato è sottoposto a libertà vigilata per la durata residua della pena inflittagli o, nel caso dell’ergastolano, per cinque anni. Il beneficio è revocato in caso di commissione di un reato della stessa indole di quello per cui il soggetto è stato condannato oppure in caso di violazione delle prescrizioni relative al regime di libertà vigilata.
  • La liberazione anticipata di cui all’art. 54 o.p. è concessa al detenuto che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. Essa consiste in una detrazione di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata. Il beneficio è revocato in caso di sopravvenuta condanna per delitto non colposo commesso dopo la concessione dello stesso.

I benefici di cui sopra, fatta eccezione della liberazione anticipata, non sono però accessibili dai detenuti per i reati indicati dai cc. 1 e 1-bis dell’art. 4-bis o.p. che non abbiano collaborato con la giustizia. Conseguentemente, come già affermato, per l’ergastolano non collaborante condannato per uno dei delitti in questione si applica la disciplina del c.d. ergastolo ostativo, che di seguito si andrà meglio ad illustrare.

 

Il regime ostativo e le sue criticità

I cc. 1 e 1-bis dell’art. 4-bis o.p. si riferiscono ai condannati per i seguenti reati:

  • Delitti commessi con violenza per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;
  • Associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), delitti commessi col metodo mafioso o per agevolare l’attività di tali associazioni e il c.d. voto di scambio politico-mafioso (art. 416-ter c.p.);
  • Associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 D.P.R. 309 del 1990) o al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater, D.P.R. 43 del 1973);
  • Gravi delitti contro la pubblica amministrazione;
  • Riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600) e compravendita di schiavi (art. 602 c.p.);
  • Tratta di esseri umani (art. 601 c.p.);
  • Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (D. Lgs. 286 del 1998)
  • Prostituzione e pornografia minorile (artt. 600-bis e ter c.p.);
  • Violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);
  • Sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.).

Si tratta dei c.d. reati ostativi, ossia quei reati in presenza dei quali, come già ampiamente spiegato, è precluso l’accesso ai benefici premiali innanzi descritti. In altre parole, chi viene condannato per uno di questi reati non potrà usufruire dei permessi premio, del lavoro esterno, della liberazione condizionale e delle misure alternative alla detenzione a meno che non collabori con la giustizia. Conseguentemente, il condannato all’ergastolo per un reato ostativo che non dovesse, poi, collaborare con la giustizia, non potrà mai uscire dal carcere né beneficiare di alcuna forma di risocializzazione.

È evidente, dunque, che il trattamento riservato all’ ergastolano condannato per uno dei reati indicati dai cc. 1 e 1-bis dell’art. 4-bis o.p. è fortemente più rigido rispetto a quello cui è sottoposto un ergastolano comune. Quella appena illustrata è la significativa differenza che intercorre fra l’ergastolo comune, che in virtù della c.d. progressione trattamentale è sicuramente ossequioso dei principi di rieducazione e risocializzazione del condannato nonché dei principi di uguaglianza e di umanità del trattamento detentivo, ed il c.d. ergastolo ostativo, la cui disciplina sembra contrastare con quanto disposto dal diritto costituzionale ed europeo in materia penitenziaria.

La disciplina ostativa opera su due tipi di fattispecie: fattispecie ordinaria e fattispecie sostitutiva o “vicaria”.

La fattispecie ordinaria è quella, sin qui ampiamente delineata, prevista dal c. 1 dell’art. 4-bis o.p., in base alla quale il detenuto non collaborante non può accedere ai benefici premiali. Tutto il suo impianto è legato al concetto di “collaborazione con la giustizia”. Il c. 1 dell’art. 4-bis o.p. richiama in maniera esplicita le norme di cui agli artt. 58-ter o.p. e 323-bis, c. 2 c.p., secondo cui sono “persone che collaborano con la giustizia”:

  1. Chi, anche dopo la condanna, si è adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori;
  2. Chi ha aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati;
  3. Chi si è efficacemente adoperato per il sequestro di somme o di altre utilità.

La fattispecie sostitutiva o vicaria è, invece, prevista dal c. 1-bis del medesimo articolo ed afferma la possibilità di accedere ai benefici premiali per i detenuti per i quali siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e la cui collaborazione sia impossibile, inesigibile o oggettivamente irrilevante.

Essa opera, dunque, in sostituzione di quella ordinaria e costituisce, in altre parole, un’altra modalità di accesso ai benefici premiali per i detenuti ostativi. Per comprenderne bene la portata è tuttavia necessario analizzare attentamente i casi di applicazione:

  1. Collaborazione inesigibile. Si tratta del caso in cui l’eventuale collaborazione del detenuto risulti del tutto superflua poiché da una sentenza irrevocabile emerge chiaramente l’integrale accertamento sui fatti e sulle responsabilità.
  2. Collaborazione impossibile. La norma si riferisce sostanzialmente a quei casi in cui la sentenza abbia accertato la limitata partecipazione del condannato all’azione criminale e che, quindi, lo stesso non può disporre di informazioni utili ai fini collaborativi.
  3. Collaborazione oggettivamente irrilevante. Ci si riferisce a quel tipo di collaborazione, pur possibile ed esigibile, che però non avrebbe alcuna rilevanza concreta, non aggiungendo nulla di significativo all’accertamento di fatti e responsabilità né incidendo in alcun modo sulle ulteriori conseguenze dell’attività criminale. Per potersi configurare una collaborazione oggettivamente irrilevante è altresì necessario che nei confronti del detenuto sia stata applicata una delle seguenti circostanze attenuanti:
    • Spontaneo risarcimento del danno derivante dal fatto-reato (art. 62, n. 6 c.p.);
    • Marginalità del contributo personale del detenuto alla preparazione o alla commissione del reato (art. 114 c.p.);
    • Condanna per un reato diverso e più grave di quello in concreto voluto dal condannato (art. 116, c. 2 c.p.).

L’accesso ai benefici del detenuto ostativo la cui collaborazione sia ritenuta, secondo quanto innanzi, inesigibile, impossibile o oggettivamente irrilevante è condizionato alla presenza di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. In altre parole, per poter usufruire dei benefici premiali il detenuto ostativo non collaborante che abbia pur compiuto ampi progressi sotto il profilo rieducativo e che si sia manifestato diligente dal punto di vista della condotta carceraria dovrà provare – in maniera particolarmente rigorosa – di non avere più alcun collegamento con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Si tratta di una probatio diabolica! Sembra concretamente molto difficile, infatti, che un detenuto ostativo possa riuscire ad allegare elementi idonei ad escludere senza dubbio alcuno la presenza attuale di legami con la criminalità. Così configurato, l’onere probatorio posto in capo al detenuto ostativo non collaborante sembra rappresentare nient’altro che un altro giro di chiave a chiusura della sua cella.

È indubbio che la scelta di subordinare l’accesso ai benefici premiali alle condotte collaborative innanzi delineate abbia contribuito al raggiungimento di obiettivi importanti nella lotta alla criminalità. Essa, infatti, “ha permesso di scoprire […] le consorterie mafiose, il loro funzionamento, la loro struttura, le loro responsabilità, i loro associati, e di prevenire in molte occasioni la commissione di efferati delitti[7]. La nascita dei c.d. collaboratori di giustizia ha permesso di minare le fondamenta del fenomeno mafioso, costituite da quel “legame che viene stretto tra il singolo e l’organizzazione e che assume una grandissima rilevanza, spesso anche superiore ai legami amicali, affettivi o famigliari”[8]. Eppure non si può negare che questo sistema presenti una “presunzione legale assoluta di pericolosità sociale, fondata esclusivamente sul titolo di reato commesso[9]. In altre parole, per il semplice fatto di aver commesso un reato ostativo il detenuto non collaborante viene ritenuto pericoloso per la società e, quindi, inidoneo al reinserimento sociale. E ciò, ovviamente, si traduce per i condannati all’ergastolo in un assunto dai connotati estremi: fine pena mai.

La presunzione assoluta di pericolosità sin qui illustrata con riferimento al detenuto ostativo non collaborante non sembra, fra l’altro, rispondere ad un criterio di ragionevolezza. E ciò anche perché ad essere presunta non è una generica “pericolosità”, ma quella di un perdurante legame con l’organizzazione criminale. Eppure non è assolutamente detto che una condotta collaborativa del detenuto possa escludere a priori una permanenza del legame intercorrente fra lo stesso e l’organizzazione criminale così come non può dirsi con certezza che una mancata collaborazione sia invece sintomatica della sussistenza di tali legami. La stessa Corte Costituzionale ha infatti chiarito che “la mancata collaborazione non puo’ essere assunta come indice univoco di mantenimento di legami con la criminalita’ organizzata e quindi come indice di pericolosita’ specifica[10]. In effetti, il regime ostativo sembra obbligare il condannato, ed in particolar modo l’ergastolano, “a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine”. Il regime in questione non sembra tener conto del fatto che il detenuto sarebbe, in molti casi, chiamato ad operare “una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli[11].

Un altro – non trascurabile – pericolo che può scaturire dal carattere assoluto della presunzione posta in essere dalla disciplina ostativa è quello dell’abuso del fenomeno collaborativo. Il desiderio di libertà, infatti, potrebbe stimolare la fantasia dei detenuti e spingerli ad una falsa collaborazione che potrebbe, fra l’altro, trarre in inganno l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria e quindi, sortire l’effetto contrario a quello che il legislatore cerca di perseguire mediante il regime ostativo.

Ulteriore vulnus del sistema in esame è rappresentato dalla totale indifferenza che esso ha nei confronti “del percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti” dal detenuto “dal momento della condanna[12] in poi.

Quanto innanzi fa emergere con chiarezza l’evidente contraddittorietà del regime ostativo rispetto a quanto stabilito dagli artt. 3 e 27 Cost. e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In altre parole, la presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto ostativo non collaborante operata dall’art. 4-bis o.p. viola il principio di uguaglianza ed il principio rieducativo così come il principio di umanità del trattamento penitenziario ed il principio di ragionevolezza[13].

 

Il monito della Corte costituzionale e le riflessioni del Parlamento

Nel marzo 2021 la Corte costituzionale è stata chiamata a decidere sulla legittimità della disciplina ostativa con riferimento alla liberazione condizionale. Sostanzialmente, si chiedeva alla Consulta se fosse conforme al dettato costituzionale – e, specificatamente, ai sopracitati principi di uguaglianza, di rieducazione del condannato e di umanità del trattamento detentivo – il regime secondo cui, pur in presenza di sicuro ravvedimento, l’ergastolano condannato per reati di mafia o di agevolazione alla mafia non può accedere alla liberazione condizionale in assenza di una collaborazione con la giustizia. La Corte, onde evitare una pronuncia che, limitandosi alla sola liberazione condizionale, avrebbe potuto mettere a rischio l’equilibrio complessivo della disciplina ostativa finendo per creare una forte incoerenza legislativa con incisivi effetti disarmonici sull’ordinamento penitenziario, ha adottato la tecnica decisoria del rinvio con monito. Essa ha, infatti, deciso di non decidere, rinviando la questione all’udienza del prossimo 10 maggio 2022. E ciò anche in virtù del fatto che in Parlamento si sta lavorando per cercare di innovare la disciplina in questione tramite delle soluzioni che potrebbero renderla certamente più adeguata alle prescrizioni costituzionali ed internazionali. La Corte costituzionale, pur non dichiarando apertis verbis l’incostituzionalità dell’impianto ostativo attualmente in vigore, ha comunque lasciato intendere l’illegittimità dello stesso. Invero, non sarebbe errato sostenere che l’ordinanza di rinvio abbia anche il carattere di una pronuncia di incostituzionalità prospettata, se non differita.

Il compito che attende il Parlamento non è facile: occorrerà coordinare le esigenze costituzionali poste a garanzia dei detenuti con quelle, pur presenti nell’ordinamento poste, invece, a garanzia della collettività e a contrasto della criminalità organizzata, terroristica ed eversiva. Occorre, evidentemente, superare la vigente presunzione assoluta secondo cui chi non collabora con la giustizia è automaticamente ritenuto ancora legato alla criminalità organizzata.

Un importantissimo contributo verso questa direzione è dato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, meglio conosciuta come Commissione antimafia, che, in una apposita relazione, ha analizzato attentamente il problema prospettando una soluzione che è anche alla base del progetto di legge[14] la cui discussione dovrebbe portare ad una concreta modifica della disciplina ostativa di cui all’art. 4-bis o.p.

La Commissione antimafia ritiene possibile innovare il regime ostativo prevedendo, alternativamente all’elemento collaborativo, altri congrui e specifici elementi che possano dimostrare, pur con un certo rigore ed in presenza di un sicuro ravvedimento del condannato, l’avvenuta dissociazione del detenuto dal sodalizio criminale. Come superare, però, l’ostacolo, già illustrato, della probatio diabolica? La Commissione suggerisce la creazione di un efficace meccanismo di raccolta degli elementi a carico del singolo soggetto internato o detenuto secondo cui spetterebbe alla Procura Nazionale Antimafia raccogliere le informazioni dalle singole procure distrettuali nonché i pareri dei comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica i quali, fra l’altro, dovrebbero puntualmente interfacciarsi con le forze di polizia operanti nel territorio provinciale. Si creerebbe, così, una catena di raccolta in grado di entrare nel tessuto territoriale e sociale di operatività delle organizzazioni criminali e di immagazzinare le informazioni utili alle valutazioni dei singoli casi. Dall’altro lato, poi, anche il detenuto avrebbe un certo onere di allegazione, dovendo allegare alla richiesta di concessione del beneficio, elementi idonei a far ritenere cessato il collegamento con la criminalità organizzata. A titolo esemplificativo, sono indicati come possibili allegati: condotte riparatorie, prove inerenti una acclarata inattività dell’originario sodalizio criminale o la chiara marginalità della posizione ricoperta al suo interno dal richiedente, l’assenza di sopravvenute imputazioni specifiche, il tenore di vita ed il contesto sociale di azione della famiglia del detenuto etc.

Ciò che potrebbe fare la differenza, quindi, a detta della Commissione, è un più rigoroso accertamento da parte della Magistratura di sorveglianza, la quale, nel dover decidere sull’ammissibilità o meno del detenuto ai benefici,  sarebbe fortemente aiutato dalle allegazioni prodotte dal richiedente e dalle informazioni raccolte dalle singole procure antimafia secondo quanto innanzi delineato.

Il progetto di legge in esame alla Camera (primo firmatario on. Bruno Bossio) segue questa direzione. Esso propone di modificare il c. 1-bis dell’art. 4-bis o.p. aggiungendo che i benefici penitenziari siano accessibili per i detenuti ostativi non solo in presenza di una collaborazione con la giustizia o in caso di collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante, ma anche “nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima che permettono la concessione dei benefici citati[15].

In più, la proposta prevede anche l’inserimento di un c. 3-ter, secondo cui le informazioni raccolte dai magistrati ai fini della concessione dei benefici non devono contenere pareri, ma devono fornire solo “elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti” con la criminalità e, inoltre, “gli eventuali pareri […] non possono essere utilizzati nella motivazione della decisione”[16].

In altre parole, la proposta di legge in esame cerca di mitigare la presunzione operata dalla disciplina ostativa e di depotenziarne il carattere di assolutezza trasformandola in una presunzione di tipo relativo. Con l’approvazione del progetto de quo, il magistrato, dinanzi al detenuto ostativo non collaborante che abbia fatto richiesta di accesso ai benefici penitenziari, potrà pronunciarsi in senso favorevole una volta accertata la positiva partecipazione del condannato al percorso rieducativo e valutata attentamente la presenza di specifici elementi e comportamenti tali da dimostrare il distacco dalle associazioni criminali.

 

Conclusioni

Il percorso intrapreso dal legislatore sembra quello giusto. Indubbiamente, infatti, la proposta di legge Bruno Bossio segue il solco tracciato dalla Corte costituzionale, dalla CEDU e, soprattutto, dalla stessa Costituzione nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il monito lanciato dalla Consulta con l’ord. 91 del 2021 va raccolto in fretta, onde evitare gli effetti disarmonici che potrebbero derivare dalla pronuncia di incostituzionalità che la Corte sarebbe costretta ad emettere qualora, all’udienza del 10 maggio 2022, la disciplina ostativa non dovesse risultare innovata in maniera tale da superare quella presunzione assoluta che non lascia scampo ai condannati all’ergastolo ostativo, a cui, ad oggi, non è riconosciuto nemmeno il cd right to hope, il diritto di sperare. Un’ultima riflessione appare necessaria, in attesa ed in vista dell’intervento del legislatore: c’è bisogno di chiarezza! Le riflessioni della commissione antimafia ed il testo della proposta di legge Bruno Bossio appaiono adeguate ad oltrepassare l’assolutezza della presunzione ostativa, ma non sembrano ancora connotate della chiarezza e della esaustività che dovrebbero caratterizzare una disciplina che ha il potere di incidere con forza sulla vita di alcuni esseri umani e cittadini. La sfida che attende il legislatore è questa: realizzare il necessario adeguamento costituzionale del regime ostativo senza però dar vita a norme dal contenuto nebuloso o evanescente. Chi attende di poter sperare ha bisogno di risposte certe.

[1]Art. 1, c., L. 354 del 1975

[2]Art. 1, c. 2, L. 354 del 1975

[3]Corte cost., sent. 274 del 1983, disponibile qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:1983:274

[4]A. M. Mellone, Ergastolo ostativo – Guida all’istituto: l’evoluzione della normativa, il doppio binario, la giurisprudenza costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Altalex, 16 aprile 2021, disponibile qui: https://www.altalex.com/guide/ergastolo-ostativo

[5]P. Calamandrei, Bisogna aver visto, in Il PonteRivista mensile di politica e letteratura, n. 3 del 1949, p. 225, disponibile qui: http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/89.pdf

[6]Corte cost., ord. 97 del 2021, disponibile qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2021&numero=97

[7]Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della corte costituzionale, 20 maggio 2020, p. 29, disponibile qui: https://www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1592073213_commissione-parlamentare-antimafia-relazione-4-bis-corte-costituzionale-253-2019.pdf

[8] Ivi

[9]A.M. Mellone, op. cit.

[10] Corte cost., sent. 306 del 1993, disponibile qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:1993:306

[11]Corte cost., ord. 97 del 2021.

[12]Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis […], p. 19.

[13]v. Corte cost., ord. 97 del 2021 e sent. 253 del 2019, disponibile qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=253; v. Corte eur. dir. uomo, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, disponibile qui: http://www.mastercsp.unirc.it/wp-content/uploads/2018/03/Corte-edu-13-giugno-2019-Viola-c.-Italia.pdf

[14]Documentazione disponibile qui: https://www.camera.it/leg18/126?tab=1&leg=18&idDocumento=1951&sede=&tipo=

[15]Proposta di legge a.C. n. 1951 – XVIII legislatura, disponibile qui, a p. 7:  http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.1951.18PDL0067790.pdf

[16]Ivi.

Michele D'Onofrio

Michele D'Onofrio è nato a Bari nel 1992, vive a Pisticci (MT), dove ha conseguito la maturità classica. Si è laureato con lode in Giurisprudenza presso l'Università degli studi Aldo Moro di Bari discutendo una tesi in Diritto Costituzionale. È socio under 35 del Centro Studi Livatino e ne frequenta le iniziative di formazione giuridica. Attualmente svolge la pratica forense presso lo Studio Legale D'Onofrio, con sede a Pisticci, collabora con la rivista giuridica online Ius in itinere ed è componente del comitato di redazione della Rivista Semestrale di Diritto. È anche vicepresidente e responsabile del settore giovani di Azione Cattolica presso l'Arcidiocesi di Matera-Irsina.

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