venerdì, Luglio 26, 2024
Di Robusta Costituzione

Commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 163/1993

a cura di Francesco Galanti

  1. Le donne sono più basse: è legittimo trattarle diversamente?

 

Con la sentenza 163 del 1993 la Corte ritorna sul tema dell’eguaglianza ex art. 3 Cost., analizzando la questione di legittimità costituzionale del pretore di Trento relativamente all’art. 4 della legge della Provincia autonoma di Trento 15 febbraio 1980, n. 3, che ha introdotto l’art. 56- bis della legge della Provincia autonoma di Trento 23 agosto 1963, n. 8.

Il giudizio principale era stato promosso, in particolare, da una donna candidata al posto di funzionario del Servizio antincendi di Trento, esclusa dal concorso a seguito dell’accertamento del difetto del richiesto requisito: una statura minima. Il Giudice delle Leggi viene investito di un quesito: è legittimo, alla luce dell’art. 3 della Costituzione, escludere una donna per via della sua statura nell’ambito di un concorso pubblico? Secondo il giudice a quo la risposta è no, perché verrebbe attuata una “discriminazione indiretta”, cioè un trattamento pregiudiziale dovuto ad una norma che svantaggia a priori i lavoratori di sesso femminile attraverso criteri e parametri che non tengono conto di dati medico-statistici. L’altezza media di una donna, infatti, non può superare quella media maschile e, dunque, la disposizione impugnata si pone nettamente al di sopra della statura media femminile, finendo per escludere dal concorso la maggioranza delle candidate donne in ragione del loro sesso.[1]

La Provincia, che si costituisce nel processo, chiede invece alla Corte di rigettare la richiesta per inammissibilità o infondatezza: l’annullamento della norma creerebbe una “discriminazione al contrario”, perché gli uomini verrebbero ancora sottoposti ad un requisito d’altezza, mentre le donne verrebbero favorite solo in quanto di sesso femminile per via della loro statura. Il limite d’altezza, dice la Provincia, è posto dal legislatore a tutela della collettività, perché chi opera nell’ambito antincendi necessità di una statura fisica adeguata e dettata dalla natura delle mansioni richieste.

Il parametro evocato dal giudice a quo è costituito dagli artt. 3 e 37 Cost., dagli artt. 4 e 8 dello Statuto Speciale del Trentino Alto-Adige, nonché, quale norma interposta, dalla legge 10 aprile 1991, n. 125 sulla parità di genere.[2]

 

 

  1. Il principio di eguaglianza nell’ambito concorsuale e lavorativo

 

Per comprendere a pieno il dispositivo della sentenza (il “PQM”), che è il precipitato delle argomentazioni che la Corte muove, è necessario analizzare queste ultime.[3]

Nella parte del “considerato in diritto”, la Corte inizia le sue argomentazioni respingendo la richiesta di inammissibilità promossa dalla Provincia: i vizi di legittimità del giudizio a quo non sono soggetti al riesame in sede di giudizio incidentale, se non quando il difetto è macroscopico o quando gli argomenti del giudice rimettente risultano implausibili.[4]

Entrando nel merito, per la Corte la norma censurata, che stabilisce un’altezza media di 1,65 m come requisito generale per diventare funzionario del servizio antincendio, viola in maniera evidente il valore fondante, e perciò inviolabile, dell’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge senza distinzione di sesso e di condizioni personali. Andando più nello specifico, in questo caso è tradito il principio sancito dal comma 2 dell’art. 3 Cost. della parità di opportunità fra tutti i cittadini nella vita sociale, economica e politica, che la legge dovrebbe sempre perseguire. La Corte ritrova nell’art. 3 Cost. una garanzia relativa ai risultati effettivi prodotti o producibili nei rapporti concreti, grazie al “primario imperativo costituzionale” di rimuovere i limiti fattuali all’eguaglianza e di perseguire l’autodeterminazione della persona umana con la sua effettiva partecipazione alla vita economica. Oltre a fare ciò, la Corte indica in premessa come si articola il giudizio di ragionevolezza che poi applica in concreto.[5]

La Corte rileva un legame indissolubile fra il principio di eguaglianza sostanziale e l’art. 37 Cost., anch’esso violato dalla norma impugnata, il quale, in relazione ai rapporti di lavoro, ribadisce il principio di reale parità di trattamento fra uomo e donna; l’art. 51 Cost. impone lo stesso principio nell’ambito di accesso agli uffici pubblici e, quindi, ai concorsi pubblici come quello del caso qui commentato. In questo passaggio della sentenza non manca un riferimento alla donna madre e lavoratrice: torna ad essere citato il “particolare ruolo sociale della donna” di madre e moglie, che l’ordinamento deve tutelare in armonia con la sua volontà di lavorare[6]; la Corte è ferma nel ribadire come la Costituzione ripudi proprio in ambito lavorativo le storiche discriminazioni subite dal sesso femminile, relegato a ruoli casalinghi, che la legge non può riportare in auge.[7]

Il combinato disposto dell’art. 37 e dell’art. 51 Cost. presenta un favor per un disallineamento fra uomo e donna nell’ambito sociale e lavorativo: la donna si vede riconosciuta più funzioni dell’uomo, i quali necessitano di una tutela costituzionale. Ciò avvalora il principio in base al quale il legislatore deve operare per garantire una effettiva eguaglianza invece di, al contrario, approvare disposizioni ottusamente identiche fra uomo e donna.[8]

Per situazioni o categorie di fatto differenzi fra loro è necessario un trattamento giuridico ragionevolmente differente e commisurato ai caratteri delle determinate classi, mentre per situazioni o categorie di fatto eguali, dovute a caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in particolare per il fine della norma, è doverosa una disciplina normativa eguale in relazione al fine a cui è indirizzata. Questo è il criterio di ragionevolezza con cui la Corte si approccia al principio di eguaglianza e tale criterio impone uno scrutinio sulla classificazione adottata dal legislatore. Se è vero che il legislatore gode di discrezionalità politica, è altrettanto vero che la Costituzione impone al Giudice delle leggi di verificare che tale discrezionalità sia usata sempre nel perimetro dell’art. 3 Cost.[9]

Il trattamento giuridico è proporzionato rispetto alla classificazione attuata dalla legge e i suoi effetti pongono limiti all’eguaglianza sostanziale? La Corte risponde negativamente nel caso qui commentato. La fondatezza della questione di illegittimità deriva dalla concreta applicazione della norma impugnata. Non viene contestato il limite in sé posto, cioè quello dell’altezza, ma se ne contesta l’applicazione identica agli uomini e alle donne. Ciò sottopone irragionevolmente ad un medesimo trattamento giuridico due categorie di persone diverse biologicamente perché il legislatore ha, invece, individuato come destinataria della norma una generalità di cittadini senza fare ragionevoli differenziazioni di sesso. La Corte afferma che tale mancanza deriva da due presupposti errati:

  • l’idea della non esistenza di medie differenze fisiche fra donna e uomo;
  • l’idea che la differenza di statura sia irrilevante ai fini del trattamento posto in essere dalla norma.

Il primo presupposto viola l’art. 3.1 Cost. perché il legislatore ha classificato una categoria di persone, quella dei lavoratori, in relazione a caratteristiche fisiche non rispondenti alla natura delle cose, avuto presente che il fine obiettivo della disciplina normativa in esame è quello di selezionare l’accesso al posto di lavoro sulla base di criteri attinenti alla statura fisica. Il secondo presupposto è lesivo dei valori costituzionali perché l’aver previsto un requisito fisico identico per l’uno e per l’altro sesso produce effetti sistematicamente sproporzionati a favore dell’uomo, statisticamente più facilitato per ragioni biologiche a raggiungere altezze di statura maggiori.

La norma impugnata è irragionevole anche perché la limitazione non è giustificata dalla particolarità delle mansioni proprie della mansione oggetto del concorso, la quale non giustifica un trattamento di fatto più rigoroso per le donne: non è provato che il ruolo di funzionario del Servizio antincendi richieda una statura minima.[10] Quindi la norma non risponde doppiamente al dettato dell’art. 3 comma 2 della Costituzione, il quale giustifica trattamenti più favorevoli nei confronti delle donne in un caso come questo, ove è necessario rimuovere le cause della diseguaglianza di fatto nell’accesso al lavoro del sesso femminile.[11]

 

 

  1. La legge ha un dovere di promozione dell’eguaglianza

 

Il giudizio qui commentato tratta il tema dell’eguaglianza e ruota attorno all’art. 3 Cost., ma non ha a che fare con il fenomeno della discriminazione normativa, in senso “negativo”, cioè quel fenomeno che si ha quando una legge esclude irragionevolmente alcuni soggetti da un certo trattamento giuridico.

Questo caso di diseguaglianza, dunque, non è paragonabile a quello trattato e risolto dalla Corte nella sentenza n. 432 del 2 dicembre 2005, con cui si dichiarava incostituzionale una legge regionale che, irragionevolmente, esentava dal ticket gratuito per i trasporti i disabili senza cittadinanza italiana. L’indizio che ci porta ad affermare ciò sta nell’assenza apparente del tertium comparationis all’interno dell’analisi della Corte. La legge della Provincia di Trento impugnata dal giudice a quo in questo caso è una norma generale, dove il campione terzo di comparazione è “implicito” e non va allegato alla decisione. Anche perché, la questione dell’altezza minima valida per tutti pone in essere, al contrario, un fenomeno di discriminazione “positiva”: il legislatore ha incluso più del dovuto. La classe delle donne è stata inclusa nella stessa fattispecie “altezza minima”, quando andava esclusa proprio per evitare un livellamento mortificante.[12]

Tuttavia, la giurisprudenza e la dottrina costituzionale ci insegnano che il tertium comparationis è l’elemento imprescindibile di un giudizio di eguaglianza. Pertanto, anche in questo caso è presente, ma non è una norma, è bensì una situazione concreta: è lo stato di fatto delle donne nell’ambito concorsuale posto a raffronto con la legge che tratta al medesimo modo uomini e donne. La norma censurata prevede un’altezza identica per tutti, includendo irragionevolmente anche le donne, perché quando viene calata nella “strada” provoca una indebita disparità.

Il pronunciamento della Corte, che dichiara illegittime la norma impugnata “nella parte in cui” prevede il possesso di una statura fisica minima identica per uomo e donna, afferma chiaramente che un trattamento giuridico uniforme, come un requisito fisico identico per gli uomini e per le donne nell’accesso al posto di lavoro, è indirettamente discriminatorio, poiché sfavorisce in maniera proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini le persone di sesso femminile, per via di una differenza fisica statisticamente provata e dipendente dal sesso.

Il risultato immediato di questa decisione, dunque la sua applicabilità concreta, garantisce alle donne, e alla donna del giudizio a quo della vicenda qui commentata, che non hanno il requisito minimo dell’altezza di accedere al concorso. In teoria senza più limiti, che resta fermo per gli uomini, ma per le donne viene meno. La risposta al quesito iniziale, posto al Giudice delle leggi, è secca, ma per sapere quale sarà l’esito in concreto per tutti i casi futuri è necessaria una ulteriore riflessione. La Corte non è tenuta a rispondere ai problemi applicativi delle norme che passano dal suo giudizio di illegittimità, ma si preoccupa solo del profilo di compatibilità con la Carta[13]; le questioni di costituzionalità, come sempre, non si esauriscono con il pronunciamento “salomonico” di legittimità. Dispositivi come quello emesso in questa sentenza manipolano i testi e ciò produce effetti nello spazio e nel tempo meritevoli di analisi giuridica.[14]

Un’argomentazione a favore della norma impugnata, che la Corte non tiene molto in considerazione e alla quale non dedica molte parole, pone un problema: se è vero che il legislatore ha individuato una certa struttura fisica necessaria per svolgere certi lavori, eliminare il requisito dell’altezza standard per una specifica mansione, rendendo possibile l’accesso alle donne indifferentemente dalla statura, non finisce per tradire l’esigenza di corrispondenza fra attitudine fisica e ruolo lavorativo? Non viene tradito il requisito funzionale rispetto alle teorie idealistico-egalitarie?

Inoltre, l’assunto come funzionario dei vigili del fuoco potrebbe anche ritrovarsi, a causa di carenza di personale, a dover svolgere attività fisiche, come ad esempio salire su scale o utilizzare strumenti che necessitano di certe prestazioni fisiche. Questa ultima obiezione pare essere considerata irrilevante dalla Corte ai fini del giudizio finale. Per essa, invece, l’elemento che conta è il dato “altezza”: la medesima altezza minima per uomo e donna, eretto a parametro imprescindibile per fare il concorso, è il nodo da sciogliere. Certo, un funzionario addetto a mansioni amministrativo-burocratiche potrebbe essere smistato per svolgere attività fisiche, ma ciò non è in discussione nel caso di specie.

La contro-argomentazione, velatamente mossa anche dal giudice a quo, che la Corte sposa parte da un punto: la legge che regola il concorso per la mansione di funzionario antincendio non richiede specifiche prestazioni fisiche, se non quella dell’altezza, quindi è possibile addurre che il legislatore faccia derivare dalla sola altezza di 1,65 m una serie di prestazioni assenti in colui che tale altezza non raggiunge. Ma non vi sono basi scientifiche con cui il legislatore può affermare che una persona sotto una certa soglia non sia in grado di svolgere una certa mansione, mentre chi la supera è, per ciò soltanto, ritenuto idoneo, anche a prescindere dal sesso.[15]

Questo è il cardine dell’argomentazione: il legislatore, nel voler scegliere per un concorso pubblico “i più adeguati”, ha ridotto il tema dell’attitudine al solo dato della fisicità, stabilendo un’altezza comune che, però, non può essere da tutti mediamente raggiunta. Nel fare ciò, a giudizio della Corte, ha commesso una discriminazione nei confronti del sesso femminile. Vi è, dunque, una sproporzione fra mezzi (altezza minima) e fini (soggetti idonei alla mansione). L’altezza non raggiunge il fine che si era preposto l’ente pubblico perché non garantisce nessun tipo di attitudine particolare nella selezione concorsuale.

In gioco, in questa vicenda, vi sono chiaramente due beni: l’interesse pubblico ad avere vincitori di concorso validi e capaci, e la difesa delle donne per non essere discriminate. Per la Corte prevale questo secondo bene, perché il mezzo dell’altezza è reputato non sufficiente per soddisfare l’interesse pubblico e finisce solo per discriminare. La legge avrebbe potuto differenziare il trattamento fra donne e uomini sulla base delle attitudini, come in parte fa per l’ammissione alle Forze Armate, dove i requisiti fisici sono ragionevoli perché necessari e fondati; in questo caso, invece, la legge ha discriminato sulla base del sesso.

Oltre a ciò, con questa sentenza fa ingresso nella giurisprudenza costituzionale italiana il concetto di “discriminazione indiretta”, cioè il seguente fenomeno: una disposizione, un criterio legale, una prassi o un comportamento formalmente idonei ex art. 3.1 Cost. o neutri, quando sono messi alla prova risultano invece essere causa di particolare svantaggio per una categoria di lavoratori, per esempio le donne o per soggetti affetti da forme di disabilità fisica. La legge che, formalmente eguale per tutti, si fa limite indebito e non mezzo di emancipazione. [16]

L’attenzione, nel caso qui commentato, è stata posta sull’elemento che rende differente l’uomo e la donna rientranti nella categoria dei lavoratori: il sesso. L’altezza è legata al sesso nel senso che è statisticamente più complesso per il genere femminile riuscire ad eguagliare l’uomini nel raggiungimento di una data soglia imposta dalla legge, tarata sulla base di dati statistici del sesso maschile.

È interessante notare come nella sentenza si ritrovi un chiarimento dell’oggetto, svolto con una scrematura degli argomenti posti dal giudice a quo, e una individuazione netta dei parametri. Non c’è solo un problema di eguaglianza, ma un problema più ampio di riequilibrio di genere: la Costituzione non opera solo una parificazione fra sessi, ma anche un concreto riequilibrio di genere fra uomo e donna, quest’ultima sottoposta nella storia a discriminazioni in ambito lavorativo.

La sentenza qui commentata, al punto 4 del “considerato in diritto”, contiene una sorta di “manuale” del giudizio di costituzionalità vertente il problema dell’eguaglianza; chi legge il testo può trovare una sintesi u un quadro efficaci che spiegano cosa, in concreto, la Corte è chiamata a fare quando è in ballo l’art. 3 Cost. per sciogliere i nodi:

  • verificare la correttezza della classificazione fatta dal legislatore in relazione ai soggetti considerati;
  • verificare la congruenza fra disposizione, trattamento giuridico e classificazione;
  • verificare la proporzionalità del trattamento normativo in concreto rispetto alla classificazione.[17]

L’art. 3 Cost., bussola irrinunciabile per la Corte, ci dice che è fondamentale essere considerati, in quanto cittadini, come eguali di fronte alla legge per eliminare qualsiasi forma di discriminazione, ma tale assunto non può portare il legislatore a trattare situazioni diverse in modo uguale, poiché ciò attuerebbe, in maniera indiretta, una chiara discriminazione. Ecco che il principio di ragionevolezza, evolutosi per via giurisprudenziale, tiene insieme i due aspetti presenti nell’art. 3: chi è differente venga trattato in maniera ragionevolmente differente, così da eliminare quegli ostacoli formali che ne impedirebbero una effettiva parità, chi è eguale venga trattato in maniera eguale.[18]

A ciò si aggiunge l’art. 37 Cost., il quale eleva a fondamentale il fatto che uomini e donne vengono trattati in modo paritario nell’ambito lavorativo. Qui le parole della Carta sono importanti: “pari” trattamento non significa “identico” trattamento, ma significa per il legislatore adottare una equa e ragionevole disciplina che tenga conto delle differenze esistenti, affinché queste siano un punto di forza e non ostacoli fattuali.[19]

La legge, dunque, non deve discriminare le donne per via del sesso, ma anzi, deve promuoverne l’eguaglianza con la rimozione degli ostacoli concreti e, nel caso qui in esame, essa è venuta meno a tale dovere imposto dalla Costituzione.

[1] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, link: https://www.consiglio.provincia.tn.it/leggi-e-archivi/giurisprudenza-costituzionale/Pages/giurisprudenza.aspx?uid=19836 .

[2] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, punto 1 “Ritenuto in fatto”.

[3] A. Morrone, Il bilanciamento nello stato costituzionale. Teoria e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Giappichelli, 2014, pagg. 7 – 13.    ( sostituire con A. Morrone, correggere in tutte le note)

[4] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, punti 2- 3 “Considerato in diritto”.

[5] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, parte 3 “Considerato in diritto”.

[6] Gabriella Luccioli, L’art. 51 della Costituzione, 13 dicembre 2021, link: https://lamagistratura.it/commentario/lart-51-della-costituzione/.

[7] La legge per tutti, Angelo Greco, Articolo 37 Costituzione: spiegazione e commento, 4 gennaio 2022, link: https://www.laleggepertutti.it/541020_articolo-37-costituzione-spiegazione-e-commento.

[8] Agata C. Amato Mangiameli, Donne e Costituzione. Spunti di riflessione, 8 aprile 2019, link: https://www.astrid-online.it/static/upload/9779/9779b1bc0cf217dea995e84ab20236f2.pdf.

[9] Marsilia D’Amico, Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore in materia penale, 17 novembre 2016, link: https://www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/4_2016_D’Amico.pdf.

[10] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, punto 1 “Ritenuto in fatto”.

[11] M. Spataro, È discriminatorio assumere una donna per la sua statura,  Altalex, 1 aprile 2019,  disponibile qui: https://www.altalex.com/documents/news/2019/02/08/statura-minima-per-accesso-al-lavoro-discriminazione-indiretta.

[12]   A. Morrone, Il diritto costituzionale nella giurisprudenza, Cedam, 2021,p. 64-65

[13] A. Morrone, op. cit.,  pag. 412.

[14] A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto costituzionale, il Mulino, Quinta edizione, pagg. 537 – 547.

[15] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, punto 2 “Ritenuto in fatto”.

[16] Camera dei deputati, Servizio Studi, Lotta alle discriminazioni per motivi di sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità, 4 novembre 2020, link: https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1227970.pdf?_1617829003271

[17] Corte costituzionale, sentenza 163/1993, punto 4 “Considerato in diritto”.

[18] Marta Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, 2013, link: https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/RI_Cartabia_Roma2013.pdf .

[19] Altalex, Maria Spataro, È discriminatori assumere una donna per la sua statura, 1° aprile 2019, link: https://www.altalex.com/documents/news/2019/02/08/statura-minima-per-accesso-al-lavoro-discriminazione-indiretta.

Francesco Galanti

Francesco Galanti, studente del terzo anno presso la Facoltà di Giurisprudenza di Bologna. Dal 2018 al 2021 componente del Tavolo di coordinamento della Prefettura di Firenze per le strategie di intervento e prevenzione sull'abuso e la violenza all'infanzia e all'adolescenza. Dal 2019 al 2020 Presidente del Parlamento Regionale degli Studenti della Toscana, interessato al diritto costituzionale, diritto costituzionale comparato e al diritto pubblico anglo-americano.

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