giovedì, Maggio 16, 2024
Sustainability Age

Direttiva Green Claims: una opportunità da non perdere

A cura di Rita Tardiolo

Fondatezza, proporzione ed equilibrio, credibilità: che cosa hanno in comune questi termini? Sono i driver che dovranno sempre più guidare le aziende che intendono comunicare qual è l’impatto ambientale dei loro prodotti o servizi. L’affermazione “sempre più” discende dal fatto che in realtà, a mio avviso, si tratta di “regole” attualmente incorporate in norme e/o principi che già oggi le competenti Autorità[1]hanno elaborato e, in molti casi, anche applicato[2], almeno in Italia (e non solo).

Ma facciamo un passo indietro. Quando si tratta di comunicare l’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio entrano in gioco i così detti “green claims”, ossia quei messaggi pubblicitari che dichiarano o evocano, appunto, benefici di carattere ambientale o ecologico.

Al momento il quadro normativo applicabile ai green claims in Europa è fortemente frammentato e presenta notevoli differenze da Stato a Stato[3].

L’esigenza di una normativa uniforme a livello Europeo in tema di comunicazione green è tuttavia condivisa e ormai improrogabile.

Un primo passo in tal senso è già stato fatto dalla Direttiva UE (UE) 2024/825 per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione, così detta “Empowering Consumers Directive”. Tale Direttiva è entrata in vigore il 26 marzo 2024, gli Stati membri dovranno recepirla entro il 27 marzo 2026 e applicarla a livello locale entro il 27 settembre 2026.

In breve, la Direttiva in questione prevede, tra l’altro:

  • un divieto di utilizzare e diffondere dichiarazioni ambientali generiche come “ecologico”, “verde”, “amico della natura”, in assenza di prova di un’eccellenza riconosciuta (e personalmente non trovo che sia del tutto chiaro che cosa si debba esattamente intendere per “prova di eccellenza riconosciuta”),
  • un divieto di utilizzare e diffondere claim quali “impatto zero” e simili basati sulla compensazione delle emissioni (pratica al momento assai diffusa),
  • la previsione secondo cui i “marchi di sostenibilità”[4] sono ammessi solo se basati su sistemi di certificazione o stabiliti da autorità pubbliche,
  • limiti a claim su prestazioni ambientali future che potranno essere utilizzati solo se includono impegni chiari, oggettivi, pubblici e verificabili stabiliti in un piano di attuazione dettagliato e realistico, verificato periodicamente da un terzo indipendente che abbia obiettivi misurabili e scadenze precise oltre che altri elementi necessari per l’attuazione;

Il livello di omogeneità delle normative applicabili ai green claim negli Stati membri sarà ancora più elevato (o almeno così ci sia augura) con l’entrata in vigore della tanto attesa Direttiva Green Claims[5], giudicata dai più come un passo avanti davvero coraggioso nella lotta contro il fenomeno del greenwashing, ossia quel fenomeno che si verifica quando un’asserzione ambientale, cioè un’asserzione che suggerisce o crea in altro modo l’impressione che un bene o un servizio abbia un impatto positivo o nullo sull’ambiente o sia meno dannoso per l’ambiente rispetto a beni o servizi dei concorrenti, non è vera o non può essere verificata[6].

Ma diamo un’occhiata più in dettaglio alla Direttiva Green Claims.

Innanzitutto, è bene chiarire che tale Direttiva è destinata a integrare come lex specialis le norme generali di tutela dei consumatori previste dalla Direttiva 2005/29/CE[7] e sarà quindi interamente dedicata ai green claims per affrontare ulteriormente il problema del greenwashing.

L’ambito di applicazione della proposta di Direttiva è piuttosto ampio in quanto copre qualsiasi “ asserzione ambientale esplicita[8] adottata volontariamente da un’impresa in relazione a un prodotto, a un servizio o all’impresa medesima nel contesto della sua comunicazione commerciale. Rimarranno invece escluse le indicazioni già coperte da altre norme UE esistenti (che ne garantirebbero a priori l’affidabilità), come il marchio Ecolabel UE o il logo degli alimenti biologici.

Una delle “rivoluzioni” di tale Direttiva a mio avviso risiede nella istituzione di un processo di raccolta di dati a comprova di un green claim molto più complesso di quanto non sia già attualmente previsto, processo che dovrà intervenire già nella fase di ideazione di un green claim.

In particolare, prima di comunicare un beneficio ambientale, le imprese[9] dovranno infatti verificare se l’asserzione che intendono adottare e diffondere è debitamente comprovata.

Ogni green claim (che deve essere valutato caso per caso) si considererà debitamente comprovato solo se, ad esempio:

  • si basa su prove scientifiche indipendenti, soggette a revisione inter partes, ampiamente riconosciute, solide e verificabili, utilizza informazioni accurate e tiene conto delle norme UE ed internazionali pertinenti: una regola che va evidentemente nella direzione di garantire “fondatezza” e “credibilità” a quanto affermato;
  • si riferisce ad aspetti, prestazioni o impatti ambientali significativi del ciclo di vita di un prodotto o delle attività complessive di una impresa e non solo a informazioni e dati secondari; e in questa regola emerge chiaramente il principio che amo definire di “proporzione ed equilibrio” tra impatto positivo ed eventuali effetti secondari negativi derivanti magari dal processo di produzione di un prodotto. Il medesimo principio si rinviene nel requisito successivo e comunque permea molte previsioni della Direttiva;
  • in caso di claim sulle prestazioni ambientali, tale claim considera tutti gli aspetti e gli impatti ambientali significativi;
  • il claim non si limita a dichiarare che i prodotti/servizi o l’attività del professionista soddisfano i requisiti già imposti dalla legge (divieto peraltro già previsto in tema di pratiche commerciali scorrette).

Regole ancor più severe sono previste se un’impresa desidera dichiarare che i suoi prodotti/servizi o la sua attività hanno impatti ambientali inferiori o migliori prestazioni ambientali rispetto ad altri prodotti/servizi dei concorrenti attraverso una “asserzione ambientale comparativa“.

I dati a supporto di un green claim dovranno inoltre essere rivisti e aggiornati ogni qualvolta la loro accuratezza possa essere compromessa e, in ogni caso, non oltre cinque anni dalla data in cui tali informazioni sono state fornite.

Una volta raccolte adeguate e idonee informazioni a supporto di un green claim, come sopra detto, prima di essere comunicato al pubblico, qualsiasi green claim dovrà essere verificato e certificato da terzi[10].

Ciò significa che gli Stati membri dovranno incaricare enti terzi verificatori, indipendenti dalle imprese che utilizzano e diffondono green claims, di verificare, caso per caso ed ex ante, se un’indicazione ambientale soddisfa i requisiti della Direttiva, così come sopra indicati in tema di comprova di un green claim.

Se la verifica ex ante ha esito positivo, l’ente terzo verificatore rilascerà un certificato di conformità. Una volta ottenuto il certificato di conformità, le aziende saranno autorizzate a utilizzare l’asserzione ambientale nella loro comunicazione commerciale in tutto il mercato interno senza alcuna contestazione da parte delle Autorità locali competenti in relazione all’applicazione delle disposizioni della Direttiva sui green claims.

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la conformità alle disposizioni della Direttiva non pregiudica la possibilità che un green claim sia considerato illegittimo sotto altri aspetti: al contrario un green claim potrà essere ancora contestato da altre autorità e tribunali nazionali se non conforme alle norme generali della Direttiva 2005/29/CE.

Le imprese[11] dovranno inoltre rispettare ulteriori requisiti rigorosi per garantire che la comunicazione al pubblico di un green claim sia chiara e comprensibile e, in ultima analisi, non fuorviante per i consumatori.

In primo luogo, la Direttiva prevede altresì che i green claim possano riguardare solo gli impatti, gli aspetti o le prestazioni ambientali che sono sufficientemente comprovati e che sono significativi per il prodotto/servizio o l’attività del professionista stesso. Di nuovo una regola che implica il principio di proporzione ed equilibrio nella comunicazione, oltre che naturalmente il requisito della fondatezza di quanto affermato.

Inoltre, le imprese dovranno fornire ai consumatori almeno le informazioni relative a quanto segue:

  • gli aspetti, gli impatti o le prestazioni ambientali oggetto del claim;
  • le norme UE o internazionali pertinenti, ove applicabili;
  • gli studi, i metodi o i calcoli utilizzati dal professionista per valutare, misurare e monitorare gli impatti, gli aspetti o le prestazioni ambientali oggetto dell’indicazione – senza omettere i risultati di tali studi o calcoli – e le spiegazioni della loro portata e delle eventuali limitazioni, a meno che le informazioni non siano un segreto commerciale;
  • una breve spiegazione di come sono stati ottenuti i miglioramenti oggetto del claim;
  • il certificato di conformità relativo alla fondatezza e alla corretta comunicazione del claim e le informazioni di contatto dell’ente terzo verificatore che ha redatto il certificato;
  • una descrizione del sistema di monitoraggio e valutazione di cui dispone il sistema di etichettatura ambientale;
  • per le asserzioni relative al clima che usano i crediti di carbonio , le dettagliate informazioni necessarie a specificare, tra l’altro, se i crediti si riferiscono a riduzioni o assorbimenti delle emissioni;
  • una sintesi chiara e comprensibile della valutazione effettuata, che includa anche le informazioni sopra elencate, in almeno una delle lingue ufficiali dello Stato membro in cui viene presentata la richiesta;
  • se il claim si riferisce a un prodotto finale destinato alla vendita ai consumatori e l’uso o il fine vita è tra le fasi più rilevanti del ciclo di vita del prodotto, informazioni sull’uso corretto o smaltimento del prodotto per ottenere le prestazioni ambientali previste;
  • se il claim si riferisce alle future prestazioni ambientali di un prodotto/servizio o di un professionista, l’impegno del professionista – basato su un approccio scientifico e misurabile – ad apportare miglioramenti alle proprie operazioni e alle catene del valore entro un determinato periodo di tempo nonché (i) un piano di attuazione con obiettivi intermedi e verificabili ed elementi necessari per sostenerne l’attuazione, (ii) un piano di monitoraggio e (iii) un piano di rendicontazione basato su relazioni e verifiche a intervalli regolari. Tale previsione, come molte altre della Direttiva, dovrà coordinarsi con le regole già introdotte dalla citata “Empowering Consumers Directive”.

Per quanto riguarda asserzioni ambientali comparative, si applicheranno regole più severe, proprio come per la fondatezza delle indicazioni.

Le informazioni di cui sopra, così come quelle relative alla fondatezza dei dati forniti, dovranno essere rese disponibili insieme al claim, sia in forma fisica che digitale (ad esempio, tramite un link a un sito web, un codice QR, ecc.).

Un complesso sistema di raccolta di prove, di verifica delle prove raccolte e di certificazione della validità delle stesse e dunque della conformità alla Direttiva di un claim, nonché stringenti obblighi informativi nei confronti dei consumatori: come questo complesso di regole verrà attuato e applicato in concreto non è ancora chiaro. È indubbio, tuttavia, che le imprese che arriveranno “preparate” all’implementazione della Direttiva avranno un forte vantaggio competitivo rispetto a concorrenti che ne avranno al contrario sottovalutato la portata. Sarà fondamentale “disegnare” insieme a tutte le business unit coinvolte (personalmente penso sicuramente al marketing e all’ufficio legale, ma anche a tutte le unità che avranno comunque un ruolo fondamentale, come finance) una procedura strutturata che “accompagni” un green claim dalla sua ideazione fino alla sua diffusione passando attraverso l’assessment interno e la verifica di conformità esterna.

Un‘ulteriore “rivoluzione” riguarderà verosimilmente i marchi di sostenibilità.

Con il termine “marchio ambientale” la Commissione Europea si riferisce a “un marchio ambientale che riguarda uno o più aspetti ambientali di un prodotto, di un processo o di un professionista“.

Gli operatori che desiderano adottare un marchio ambientale dovranno rispettare gli stessi requisiti che regolano le “asserzioni ambientali esplicite”.

Inoltre, i marchi ambientali dovranno essere basati su un sistema di certificazione (sistemi di etichettatura ambientale), che attesti la conformità di un prodotto, di un processo o di un professionista ai requisiti stabiliti per l’assegnazione di ciascun marchio ambientale.

I nuovi sistemi di etichettatura privata saranno consentiti solo se perseguono obiettivi ambientali più ambiziosi rispetto ai sistemi pubblici esistenti. Una volta approvati, gli Stati membri dovranno notificare alla Commissione l’introduzione di ogni nuovo sistema di etichettatura privato. Lo stesso vale per qualsiasi nuovo sistema di etichettatura pubblico di un Paese terzo.

Alla luce di tutto ciò che precede, cosa dovrebbero fare le aziende per evitare le pratiche di greenwashing?

In primo luogo, dovrebbero identificare con precisione quali caratteristiche dei loro prodotti o servizi (ad esempio, il cotone biologico utilizzato per un capo di abbigliamento) o della loro attività (ad esempio, il fatto che il processo di tintura dei loro prodotti non influisca negativamente sull’ambiente) possono essere considerate “green“. Questa fase è fondamentale perché le aziende possono essere tenute a dimostrare ciò che affermano e quindi, se non identificano con precisione ciò che è effettivamente “green“, la loro affermazione sarà falsa o quantomeno fuorviante. Non fraintendete: non è di per sé vietato utilizzare e diffondere un’affermazione generica in cui un’azienda dichiara che l’intero prodotto, servizio o attività è “green“. Tuttavia, questo tipo di affermazioni sono molto rischiose perché un’azienda dovrebbe dimostrare che, ad esempio, ogni singolo aspetto di un determinato prodotto ¾ dalla sua composizione al suo metodo di produzione ¾ è interamente “green”. È evidente tuttavia che una simile prova è pressoché impossibile o quantomeno assai difficile da fornire.

In secondo luogo, le aziende devono raccogliere prove tecniche adeguate che dimostrino quanto comunicato attraverso un green claim. Tali prove dovrebbero essere raccolte prima della diffusione del claim e dovrebbero provenire da enti terzi che le hanno sviluppate secondo metodologie e standard scientifici generalmente accettati dalla maggior parte della comunità scientifica di riferimento. Qualsiasi prova raccolta solo internamente a un’impresa sarebbe molto più “debole” e, almeno per il territorio italiano, molto probabilmente non sarebbe considerata sufficiente.

In terzo luogo, una volta identificata la caratteristica “verde” e raccolte le relative prove, l’azienda può lavorare sul green claim e sulla relativa campagna pubblicitaria, assicurarsi tale green claim rifletta la caratteristica “verde” precedentemente identificata e non contraddica le prove raccolte.

In sintesi: procedure solide e autenticità consentiranno a ciascuna impresa di garantire fondatezza alla propria comunicazione ambientale, nel rispetto dei principi applicabili ed in particolare nel rispetto del principio di equilibrio e proporzione che dovrebbe di per sé escludere la formazione e diffusione di comunicazioni ambigue e fuorvianti: un’opportunità quindi per le imprese che certamente implicherà ingenti investimenti (non solo monetari) ma che vale comunque la pena cogliere.

Del resto si è appena conclusa una settimana davvero intensa, complice l’avvicinarsi della scadenza della Commissione Europea che ha fatto da propulsore alla definizione di molte delle proposte che erano in una fase avanzata di discussione.  E così, ad esempio, il 23 aprile il Parlamento Europeo ha approvato le sue osservazioni sulla proposta di Regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili. Soltanto il giorno successivo, ossia in data 24 aprile, il Parlamento Europeo ha dato il via libera all’accordo provvisorio sulla Corporate Sustainability Due Diligence Directive: il prossimo passo sarà la convalida dell’accordo da parte del Consiglio, nel mese di maggio. Inoltre, lo stesso giorno è stata adottata la revisione del regolamento sugli imballaggi, progettata per rendere il packaging più sostenibile e ridurre i rifiuti di imballaggio nell’Unione Europea. Sempre il 23 aprile, il Parlamento europeo ha dato la sua approvazione definitiva al regolamento che vieta alle aziende dell’Unione Europea di rendere disponibili nell’Unione medesima prodotti che provengono da lavoro forzato o di esportarli all’estero.

Le novità già introdotto e quelle a venire sono dunque davvero numerose: mi rendo conto che può essere difficile stare al passo con i cambiamenti, ma non ci si può davvero permettere di rimanere indietro e in questo, ancora una volta, il giurista di impresa giocherà un ruolo fondamentale.

[1] In Italia l’Autorità Garante della Competenza e del Mercato (AGCM) e l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP).

[2] Cfr. ad esempio, Giurì dello IAP, pronuncia 4/2021, Comitato di Controllo dello IAP, ingiunzioni 46/2021, 50/2021, 9/2021, etc.

[3] In Italia la normativa di riferimento è la seguente: Articoli 20 e ss. del Decreto Legislativo n. 206/2005 (Codice del Consumo); Decreto Legislativo n. 145/2007 sulla pubblicità ingannevole e comparativa; Articoli 12 e 27 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP); Articoli 2598 e ss. del Codice Civile in tema di atti di concorrenza sleale.

[4] Ossia “qualsiasi marchio di fiducia, marchio di qualità o equivalente, pubblico o privato, avente carattere volontario, che mira a distinguere e promuovere un prodotto, un processo o un’impresa con riferimento alle sue caratteristiche ambientali o sociali oppure a entrambe, esclusi i marchi obbligatori richiesti a norma del diritto dell’Unione o nazionale”.

[5] Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sull’attestazione e sulla comunicazione delle asserzioni ambientali esplicite (direttiva sulle asserzioni ambientali), 22 marzo 2023, COM/2023/166 final. In data 12 marzo 2024, il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di Direttiva in prima lettura, mentre si attende l’approvazione da parte del Consiglio (cfr. https://oeil.secure.europarl.europa.eu/oeil/popups/ficheprocedure.do?reference=2023/0085(COD)&l=en).

[6]Greenwashing” è una parola che è diventata molto popolare di recente. Si tratta di un neologismo inglese composto dal sostantivo “green” e dal verbo “to whitewash” (cioè coprire qualcosa), coniato negli Stati Uniti a metà degli anni ’80 dall’ambientalista Jay Westerveld, che lo utilizzò per la prima volta per descrivere le cattive pratiche di una catena alberghiera. Da allora, il termine è stato utilizzato per descrivere quella pratica sta diventando sempre più popolare tra le imprese che si chiarano indebitamente particolarmente sensibili alle tematiche ambientali e presentano i propri prodotti/servizi come dotati di qualità ecosostenibili al solo scopo di conquistare il favore dei consumatori e aumentare così il fatturato delle aziende.

[7] Come modificata dalla “Direttiva (UE) 2024/825 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 febbraio 2024 che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione“.

[8] Un’asserzione ambientale esplicita è definita come l’asserzione ambientale in forma testuale o riportata in un marchio ambientale.

[9] Fatta eccezione per le microimprese, ossia le imprese con meno di dieci dipendenti e un fatturato annuo non superiore a 2 milioni di euro.

[10] Le microimprese potranno accedere alla verifica ex-ante di e alla certificazione dei loro crediti solo su richiesta.

[11] In una certa misura, anche le microimprese.

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