domenica, Aprile 28, 2024
Di Robusta Costituzione

Federico X di Danimarca: la forma di governo monarchica oggi

A cura di Francesco Galanti

 

  1. Da Margrethe a Federico, nel solco di una lunga storia costituzionale

Il 14 gennaio scorso, esattamente 52 anni dalla sua ascesa al trono, la regina di Danimarca (di Groenlandia e delle Isole Faroe) Margrethe II firma l’abdicazione annunciata a sorpresa il mese prima, durante il discorso di fine anno alla nazione.[1] Un atto istituzionale storico per la sua eccezionalità: il regno, infatti, non vedeva una abdicazione da 900 anni. L’ultima volta che un monarca danese lasciò volontariamente il trono prima della sua morte era il 1146, quando il re Erik III si dimise, presumibilmente per entrare in un monastero.[2]

Il passaggio di consegne si è svolto in puro stile scandinavo, con semplicità e compostezza. Non potrebbe essere altrimenti per una casa reale smart, secolarizzata e alleggerita da misticismo fiabesco come quella danese, dove le incoronazioni sono abolite dal Seicento. Non si è ripetuto lo sfarzo a cui il mondo ha assistito il 6 maggio del 2023, con l’incoronazione di Carlo III di Gran Bretagna: una monarchia indissolubilmente legata a riti religiosi e civili carichi di mistero e solennità.

Tuttavia, la cerimonia a Copenaghen ha previsto simboli rievocativi di antiche usanze. Una parata delle guardie reali per le vie della città in mattinata, un passaggio della regina uscente in carrozza fra file di folla, il passaggio in auto d’epoca del principe erede in attesa, e poi tutto si è compiuto con formalità notarile.

Nel palazzo di Christiansborg si è svolta una seduta del Consiglio di Stato, che riunisce i ministri del governo e la Corona: la regina firma l’atto di abdicazione, lascia il tavolo e invita il figlio, alla sua destra, a prendere il suo posto per poi uscire dalla sala con l’augurio “Dio Salvi il Re”.[3]

La seduta è segreta: sono stati resi pubblici soltanto i momenti della firma.

Il momento più solenne, però, è quello della proclamazione davanti al popolo del nuovo sovrano: questa usanza risale al passato, quando l’annuncio avveniva nei consigli di contea aperti nelle varie parti del Paese.

Un funzionario di fiducia annunciava il nuovo re in tutti e quattro gli angoli del mondo, così che tutti avessero l’opportunità di ascoltarlo. Poiché da tempo la proclamazione avviene dal balcone del palazzo di Christiansborg, il Primo Ministro, incaricato della proclamazione, ripete la formula di proclamazione in soli tre punti cardinali, senza dare le spalle al popolo (che rappresenta) e rivolgendosi verso la Sala del Trono. Ed è così che Federico X si è affacciato a salutare la folla (oceanica) e la premier Mette Frederiksen ha gridato: “Lunga Vita a Sua Maestà”, seguito da nove urrà della piazza.[4]

Il passaggio di consegne è stato ultimato il giorno dopo, con la visita del nuovo re, consorte e figlio (prossimo in linea di successione) al Folketinget, l’assemblea parlamentare monocamerale del Paese, cuore della politica e delle istituzioni democratiche. Ma anche qui, la cerimonia si è svolta con frugalità quasi repubblicana: il re ha partecipato dagli spalti, parlando all’aula per il tramite della premier.

Questo evento di portata, prima che storica, costituzionale ci permette di approfondire profili giuridici della forma di governo monarchica, di analizzare più da vicino l’ordinamento della Danimarca, apprezzarne gli elementi più peculiari e cercare di comprendere come riesca, nel cuore dell’Europa moderna, a coesistere la figura del re con il concetto di democrazia moderna.

Il piccolo regno “in bicicletta”, parte dell’UE dal 1973, ritenuto all’avanguardia sul fronte dei diritti, dell’istruzione, della cultura, della tutela dell’ambiente e delle libertà, condivide con altri dieci Paesi questo titolo per certi ritenuto anacronistico. La Costituzione del 1849, sostituita tre volte, l’ultima nel 1953,[5] viene celebrata ogni 5 giugno e disegna un sistema parlamentare in linea con la maggior parte degli ordinamenti europei.

Il percorso democratico danese ha inizio proprio con il primo testo costituzionale, promulgato dal re Federico VII su spinta della Grundlovsudvalget del 1848, l’Assemblea costituente[6]: un patto tra la Corona e le aspirazioni liberali.[7]

 

  1. L’evoluzione del parlamentarismo scandinavo

La Costituzione del 1953 stabilisce, all’art. 2, che la Danimarca è una monarchia costituzionale: la Corona esercita il potere esecutivo e, insieme al parlamento, quello legislativo (art. 3). Basandosi sul dato letterale di queste disposizioni siamo obbligati (sembrerebbe) a ricondurre questo Stato fra quelli con un modello monarchico “limitato”, o “costituzionale” appunto, cioè quella forma di governo sviluppatasi in Europa nella transizione dall’assolutismo alla rottura fra sovrano e assemblea.

In tale modello il monarca svolgeva un indirizzo attraverso un proprio fiduciario, che rispondeva a lui soltanto e non all’assemblea eletta: spesso i comparativisti parlano anche di sistema “puro”, cioè basato su una netta divisione tra poteri, esercitati da organi liberi da condizionamenti reciproci.[8] Secondo le caratteristiche di questa categoria costituzionale, in Danimarca dovrebbe essere il re a governare, mentre il popolo sarebbe relegato ad assumere una mera funzione ostruzionistica, attraverso le elezioni di un parlamento in grado di boicottare l’agenda del trono. Evidentemente ciò non corrisponde al vero.

In effetti, analizzando ulteriori disposizioni costituzionali, come l’art. 15, comma 1, e volgendo uno sguardo alla realtà fattuale della politica danese, una classificazione del tipo anzidetto è errata. Una più corretta e ponderata analisi dimostra che l’ordinamento qui in discussione rientra fra i sistemi “misti”: la ripartizione di attribuzione fra legislativo ed esecutivo non segue un rigido criterio della funzione pubblica, bensì si basa su un rapporto di equilibrio e di reciproca influenza fra queste.

In particolare, il condizionamento fra organi si mostra nel momento dell’investitura fiduciaria che il parlamento affida al governo e nel potere di quest’ultimo di sciogliere il primo.[9] In Danimarca il rapporto fra l’assemblea eletta, il Folketinget, e il governo si palesa nella forma cosiddetta “negativa”, che di seguito sarà analizzata più approfonditamente.

Le prime parole della Costituzione danese, dunque, ingannano il lettore poco avveduto: non siamo in presenza di uno Stato ottocentesco uscito da poco dal suo periodo assolutista, cioè di una figura “mitologica” oggi nel panorama europeo; ma abbiamo fra le mani uno dei più raffinati ordinamenti parlamentari, che ha sedimentato e assimilato tutti i passaggi politico-giuridici degli ultimi secoli. Come la maggior parte delle nazioni europee anche la Danimarca ha vissuto il suo periodo monarchico-costituzionale, evolutosi fino l’attuale assetto parlamentare. La Costituzione del 1953 ha mantenuto una architettura e un linguaggio che alludono al precedente step ordinamentale, che però non corrisponde più alla realtà fattuale.

Come il resto dei Paesi del nord Europa anche il parlamentarismo danese è a preminenza governativa. Come ha correttamente descritto Walter Bagehot, riferendosi al sistema costituzionale britannico, il governo di gabinetto prevede che il consiglio dei ministri, guidato dal Primo Ministro (che non è un primus inter pares, bensì il vero mandatario della maggioranza parlamentare) si comporti come una commissione del corpo legislativo eletta dal popolo: la più importante delle commissioni parlamentari, cioè quella scelta per governare. E, infatti, i membri di tale commissione sono scelti fra quelli per cui l’assemblea nutre fiducia.[10] Il gabinetto ministeriale, infatti, detta l’agenda politica, le riforme da attuare e la legislazione da sottoporre all’assemblea legislativa. Tale potere direttivo lo esercita attraverso una sorta di veto: quando l’assemblea parlamentare paventa una mancata approvazione della linea del governo, quest’ultimo può minacciare di scioglierla. Di conseguenza: o l’esecutivo può legiferare e attuare la sua agenda politica (scelta dagli elettori con il voto) oppure scioglie l’assemblea e indice nuove elezioni, appellandosi ai cittadini e alla futura legislatura.

Se un governo cade o vive dipende dalla pubblica opinione, dai dibattiti e dalle divisioni parlamentari: più la maggioranza è fragile, maggiore sarà la possibilità che si tornerà al voto. L’elemento che può fare la differenza è, senz’altro, un corpo legislativo rappresentativo dei diversi interessi particolari, delle opinioni, delle paure, delle credenze e delle aspirazioni che si trovano all’interno della comunità. Il governo, del resto, in un sistema come quello parlamentare danese non deve essere altro che la sintesi di tutte queste particolarità rappresentate in Parlamento.

Alla luce di tutti questi aspetti, torna utile riaffermare, dunque, che la Danimarca appartiene a quella classe di Stati europei liberaldemocratici, nati però come sistemi assolutistici che successivamente si sono trasformati di fatto, per prassi, convenzioni e/o consuetudini, in sistemi di governo parlamentare. Nessuna rivoluzione o strappo forte con la storia e l’assetto monarchico, ma una evoluzione progressiva, a volte anche rapida, verso la democrazia rappresentativa.

Altre fonti di rango costituzionale sono la legge di successione al trono e gli accordi di autogoverno della Groenlandia e delle Isole Faroe.[11]

  1. La Corona danese nel quadro dei poteri

A seguito di una tale analisi, dunque, viene da chiedersi: che ne è del Re, che la carta costituzionale pone, anche da un punto di vista testuale, al vertice e al centro del sistema? Ciò che gli viene riservata, in effetti, è la parte “solenne” dell’ordinamento: non ha funzioni di governo, né responsabilità, ma esercita una prerogativa prettamente cerimoniale, da non dover erratamente ritenere, però, inutile. Tutti gli svolti politici e giuridici più importanti previsti dalla Costituzione vedono come protagonista la Corona: promulga le leggi (art. 22), nomina e revoca i ministri (art. 14), ratifica trattati e guida le forze armate (art. 19), concede la grazia (art. 24), batte moneta (art. 26).  Addirittura l’art. 12 stabilisce che gli spetta l’autorità suprema per tutti gli affari del Regno. Ma, nei fatti, nessuna di queste prerogative è svolta sulla base di una volontà politica del monarca, bensì per volontà del governo.[12] Inoltre, secondo quanto l’art. 13 dispone, il Re è, come i suoi omologhi capi di Stato europei, irresponsabile per i suoi atti, che devono essere controfirmati dai ministri (i veri responsabili di tutti gli atti ufficiali).

Al contrario egli è “sacro ed inviolabile”: il primo attributo, antico retaggio storico, non ha più ragione di essere ed è privo di vera efficacia normativa,[13] l’inviolabilità, invece, ribadisce oggi il mero concetto di irresponsabilità regia in sede politica (ma non morale) e penale.[14]

E, dunque, quando ancora oggi l’art. 3 della Costituzione esordisce affidando al Re il potere esecutivo, rappresenta un tributo al concetto liberale di divisione dei poteri: le altre istituzioni non possono intervenire in materia amministrativa. Tuttavia, secondo una convenzione costituzionale affermatasi dalla metà dell’Ottocento, il potere esecutivo è esercitato esclusivamente dal gabinetto,[15] guidato dal Primo Ministro. La sua investitura spetta ancora al monarca, ma l’effettiva nomina dipende, come visto, dalla maggioranza parlamentare.

Anche qui, perciò, l’evoluzione costituzionale ha lasciato alla Corona una attività che richiama le antiche prerogative.

Ma sempre l’art. 3 riconosce al sovrano una funzione legislativa, accanto al Parlamento. Anche qui, però, dobbiamo chiarire l’attualità di tale enunciazione normativa: per quanto il sovrano possa incidere, indirettamente, sulle scelte legislative dell’esecutivo, attraverso una moral suasion tipica di tutti i capi dello Stato, il sistema gli impedisce qualsiasi possibilità di esercitare un potere deliberativo accanto al Parlamento. Ecco, allora, che la sua vera attività è ancora una volta simbolica: appone una firma alle leggi affinché prendano vigore. Non può rifiutarsi di fare ciò, per quanto, stando alla lettera della Costituzione, potrebbe ancora. Tuttavia, un tale gesto, oltre che creare un certo scalpore nell’opinione pubblica, verrebbe con ogni probabilità scavalcato con altri strumenti costituzionali come avvenne nel 1990 in Belgio: il re Baldovino, rifiutatosi di firmare la legge sull’aborto, venne sospeso dalle sue funzioni per tre giorni, il tempo necessario per promulgare la legge senza creare alcuna crisi costituzionale[16] (si interpretò estensivamente l’art. 93 della Costituzione, che stabilisce la possibilità di sospendere il sovrano provvisoriamente dalle sue funzioni in caso di sua incapacità).[17]

Ad ogni modo, il concetto chiave attorno alla figura del monarca è quello di “Capo dello Stato”: qui si riassume la vera portata delle funzioni della Corona, al vertice di tutto il complesso dei poteri pubblici. Partecipa, anche se simbolicamente e senza controllarsi, a tutti i poteri dello Stato. Ne consegue che occupa una posizione super partes e di garanzia dell’assetto costituzionale.[18] Non scende nell’agone politico, mai.

  1. Il Folketinget: il sistema elettorale e i referendum

L’ordinamento danese si impernia nel Folketinget, cuore della politica nazionale: composto da una sola camera di 179 deputati eletti direttamente dai cittadini ogni quattro anni, 175 sono eletti in Danimarca, due nelle Isole Faroe e due in Groenlandia. Le attività si suddividono in sessioni annuali, che si aprono ad ottobre e si chiudono proprio il 5 giugno, giorno della Costituzione.[19]

L’assenza di una seconda camera è compensata dalla presenza di strumenti di democrazia diretta, utili, per lo più, per garantire alle opposizioni la possibilità di bloccare una iniziativa legislativa della maggioranza. Inoltre, così come avviene in Svizzera, la presenza della democrazia diretta incide molto sulle modalità di esercizio del potere da parte dei partiti e del governo: la possibilità che una proposta di legge possa finire davanti agli elettori spinge verso una forma consociativa di approccio al potere.[20]

 Ad ogni modo, la Costituzione danese istituisce, nell’art. 42, il referendum confermativo: un terzo dei parlamentari può chiedere che una proposta di legge approvata dalla maggioranza venga sottoposta al voto popolare, affinché si esprima per confermarla o rigettarla. Inoltre, per prassi, è stato introdotto anche una forma di referendum consultivo.[21]

Il sistema elettorale è sancito direttamente dalla Costituzione, all’art. 31: è di tipo proporzionale; la legge elettorale prevede una soglia di sbarramento per i partiti al 2%, nonché un’articolazione in due livelli, cioè quello circoscrizionale e quello nazionale, utile per assegnare dei seggi di compensazione. L’elettorato attivo coincide con quello passivo.[22]Questo metodo elettorale ha favorito il multipartitismo e governi di coalizione: dal 1909 nessun partito politico ha più conseguito la maggioranza assoluta in Parlamento. A differenza di quanto avviene in Italia, però, ciò non è sinonimo di instabilità. Sono molto frequenti, infatti, i cosiddetti governi di “minoranza”, creati proprio grazie al metodo della fiducia negativa.[23]

Unendo i punti esce fuori un quadro politico-costituzionale interessante: i governi sono espressione di un pluralismo spinto, che favorisce un continuo confronto interno al Parlamento e al di fuori di esso, grazie ai referendum. Per cui, spesso, per ogni singolo provvedimento l’esecutivo deve cercare la quadra all’interno dell’assemblea eletta, pena la sfiducia o un confronto diretto con gli elettori sul provvedimento contestato. A giovarsene sono, quindi, il cittadino e il Parlamento.

Il gabinetto ministeriale, la famosa commissione direttiva dell’assemblea, detta sì l’agenda politica, ma deve sempre barcamenarsi fra il rischio di non avere il sostegno necessario da parte dei partiti e il pericolo di andare al voto anticipato e perdere la battaglia elettorale. Dunque, alla luce di questa analisi, il parlamentarismo danese si regge su un chiaro insieme di pesi e contrappesi: da una parte un esecutivo potenzialmente forte, dall’altro un Parlamento centrale e determinante. Il baricentro si trova nel consociativismo.

  1. La fiducia negativa e l’esecutivo danese

Nella maggior parte dei sistemi parlamentari europei il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo si instaura in maniera solenne: dopo la formazione della squadra dei ministri (come in Italia) o dopo l’individuazione del candidato premier (in Spagna, Germania, ecc.) l’assemblea è chiamata a votare per confermare il suo sostegno e per autorizzare l’insediamento del ramo esecutivo.

Questa procedura, dettata dalla necessità di garantire trasparenza e compattezza alla maggioranza e ai neo-ministri, ha un possibile difetto: potrebbe rallentare la formazione del governo. Come spesso avviene in Italia, o in Spagna, infatti, fra le elezioni e la nascita di una maggioranza passa diverso tempo: vi è la necessità che le forze politiche elette trovino la quadra per scrivere un programma e presentare al voto parlamentare la giusta composizione del gabinetto. Fino a che non si trova un accordo non si forma un esecutivo e nessuna fiducia viene votata oppure, come spesso è accaduto di recente (in Spagna e in Polonia) il voto di fiducia si svolge e si risolve con una bocciatura del gabinetto candidato.

Per ovviare a questo empasse la Costituzione danese ha previsto un meccanismo differente di formazione del governo: l’assenza di una investitura fiduciaria iniziale. Dopo le elezioni politiche, i partiti si confrontano e cercano l’accordo per dare vita ad un programma di maggioranza e ad una squadra di ministri. Il nodo del premier per prassi è risolto con l’affidamento di tale ufficio al leader del partito di maggioranza relativa: un metodo condiviso da quasi tutti i sistemi parlamentari del nord Europa. Di solito i negoziati per la formazione del governo sono brevi: giusto nel 2022 vennero considerati “lunghi”, appena 42 giorni, i tempi di formazione dell’attuale esecutivo. Spesso l’accordo è raggiunto anche grazie alla “responsabilità” dei partiti con meno possibilità di formare una maggioranza, i quali decidono di astenersi o di restare costruttivamente all’opposizione.

Trovato l’accordo, i partiti presentato al sovrano il nome del candidato da incaricare quale Ministro di Stato, presidente dell’esecutivo, che nomina a sua volta gli altri ministri: il consiglio si insedia e governa con una “presunzione di fiducia” da parte del Parlamento. Questa presunzione può essere smentita con la presentazione di una mozione di sfiducia (individuale o rivolta a tutta la compagine governativa) da votare a maggioranza dei deputati.

Come recita l’art. 15, comma 2, della Costituzione, se il Parlamento esprime la sfiducia nei confronti del Primo Ministro, questi deve presentare le dimissioni del gabinetto, a meno che non siano indette nuove elezioni. L’annuario delle urne ci mostra come il Paese risolve, tendenzialmente, le sue crisi di governo con le elezioni anticipate: quando all’interno della maggioranza scoppia una crisi o l’opposizione minaccia una mozione di censura di solito il premier presenta al sovrano la richiesta di sciogliere il Folketinget. Richiesta che viene sempre accolta; ecco, dunque, che qui si inserisce una interessante analisi delle prerogative regie in materia di crisi.

A differenza di quanto accade in Italia, dove il Presidente della Repubblica ha sempre operato per evitare il voto anticipato con la formazione di governi di transizione, in Danimarca (così come nelle altre monarchie europee) il capo di Stato non si pone di traverso ad una richiesta espressa del suo ministro di Stato di tornare al voto. In altre parole, se il governo rischia di andare incontro ad una sfiducia o di non riceve l’appoggio del Parlamento su temi importanti dell’agenda il voto anticipato è la strada, a meno che i partiti, di loro iniziativa e a stretto giro, non propongano al sovrano un esecutivo alternativo.

I ministri si riuniscono in due sedi: il Consiglio di Stato ed il Consiglio dei ministri.[24] Questa dualità è il rimasuglio dell’antica struttura della corte del sovrano, la quale prevedeva un consiglio privato, composto dai dignitari più alti e dai nobili più fidati del sovrano, di cui l’attuale Consiglio di Stato ne è l’erede. Quest’ultima istituzione è tipica degli Stati europei e in alcune monarchie, come il Regno Unito e appunto la Danimarca, è ancora presente (è stata esportata anche in Canada). Era il centro del potere politico e in certi casi di quello giudiziario (nel Regno Unito esiste ancora oggi una speciale commissione del Consiglio Privato con alcune funzioni giurisdizionali); oggi il Consiglio di Stato, composto dai ministri, dall’erede al trono e presieduto dal monarca, ha funzioni cerimoniali: attesta il giuramento del nuovo sovrano (o la sua abdicazione), sottopone a quest’ultimo gli atti per la promulgazione ed è sede della programmazione politica. La vera sede delle decisioni si è spostata, però, nel Consiglio dei ministri, cioè nelle riunioni di gabinetto presiedute dal Primo Ministro.[25]

 

  1. La monarchia in Europa oggi

In Europa, come supra ricordato, sono undici, Danimarca compresa, i sistemi con a capo un monarca (se escludiamo il Vaticano, unico sistema assolutistico rimasto nel continente); la maggior parte degli altri Paesi, dalla Prima guerra mondiale in poi, ha deciso per motivi storici e politici di abbandonare questa forma di governo. Infatti, uno dei probabili fattori per cui ancora oggi sopravvivono delle case reali è storico-politico: in Italia, ad esempio, il secondo conflitto mondiale, unitamente ai fatti che divisero la penisola in due dal ’39 al ’45, portarono il mondo politico e la società civile a rompere con il passato e con un monarca ritenuto gravemente responsabile dell’istaurazione del regime fascista. In Danimarca, così come nelle altre nazioni coronate (fa eccezione la Spagna), non si è mai verificato un fatto di rottura che giustificasse una rinnegazione del sistema precedente. La monarchia è cresciuta e si è evoluta insieme alla società, accompagnando, senza ostacolarli, i progressi verso la liberaldemocrazia: non si è mai frapposta, ma anzi, si è fatta promotrice dei cambiamenti.

Un altro fattore determinante che tiene in vita un principe, forse quello maggiormente determinate, è di carattere c.d. “sentimentale”. La monarchia, a differenza di come si possa essere portati a pensare, è una forma di governo “popolare”, nel senso che trova linfa nel suo legame intimo con la gente. Come ci ricorda Bagehot, l’istituto della famiglia reale serve come “parte nobile” della Costituzione, cioè come instrumentum regni: oggi questo significa anche mondanità. La “macchina royal” ( matrimoni da favola, carrozze, gioielli…) è un sistema che deve addolcire, parlare ai cuori dei cittadini.

L’ereditarietà è l’elemento più controverso: il fatto che una persona possa detenere un ufficio pubblico per solo diritto di nascita si pone al di fuori di qualsiasi principio liberaldemocratico: ciò che rende accettabile una tale legge non è altro che l’attaccamento del popolo alla sua storia, al suo passato.

Infatti, ciò che fa regnare un monarca non è il suffragio, che può cambiare nel tempo, ma qualcosa di più duraturo e fragile: il sentimento. La Corona incarna lo spirito del Paese, è oggetto di reverenza perché catalizza il senso di appartenenza ad una casa comune. Rappresenta un punto di incontro armonico tra la tradizione e la modernità: un re è una affascinante contraddizione.

Il costituzionalismo danese, così come anche quello di altre nazioni monarchiche, non si interessa più alle sue prerogative; gli attuali ordinamenti relegano il sovrano all’accessorietà. Si tratta di un quid pluris, un corpo estraneo rispetto alle dinamiche politiche e istituzionali.[26]

Come accennato all’inizio, il ruolo meramente rappresentativo della Corona è tutt’altro che inutile e superfluo per i popoli che ancora se lo tengono stretto. Può essere un elemento indispensabile per la tenuta dell’intero ordinamento. Un monarca oggi rappresenta il legame di un Paese con il passato: è continuità in un mondo pieno di cesure. Re e regine sono un necessario inganno esteriore, che fa sembrare la Costituzione immutabile quando invece non fa altro che cambiare. Sono istituzioni dedicate a stupire, a dare alla gente qualcosa per cui essere ancora legati allo Stato, mentre invece il governo agisce e manda avanti gli affari complessi.

Inoltre, possiamo dire che la monarchia svolge un ruolo pedagogico. Tutta la storia costituzionale danese, come le esperienze dei cugini inglesi e svedesi, ha visto come protagonista lo scontro fra la Corona e il Parlamento: un tiro alla fune che non ha mai portato alla rottura della corda, ma ad una vittoria della democrazia.

 L’attuale sistema politico è il frutto dello sgretolamento delle prerogative assolutiste dei sovrani tutto a favore della borghesia prima e dell’intera comunità statale dopo. Di tempo in tempo i sovrani hanno dovuto cedere alle richieste per non soccombere, come avvenuto in Francia: prima hanno concesso libertà e garanzie, poi carte costituzionali ed elezioni libere. La Corona è stata, dunque, risparmiata, se non altro nella sua veste più minimale e cerimoniale.

Potremmo definirla, con ironia, un soprammobile che somiglia tanto ad un memento mori per tutti: non ci si scordi che la democrazia, che abbiamo guadagnato nei secoli con fatica, non è per sempre e non si regge da sola, ma grazie al continuo impegno costante della società contro i soprusi; il re sta là, esiste ancora e se oggi “non può far male” …non è detto che un domani non possa tornare a farlo.

Il popolo potrà ben celebrarlo, potrà alzarne l’effige come Perseo vittorioso issò la testa di Medusa, perché è bene che l’antico tiranno rimanga come un monumento commemorativo, a ricordare che un tempo era il padrone, oggi è il servitore dello Stato libero. Unisce, perché i suoi avi, figli e fondatori di Danimarca, hanno governato, ma soprattutto perché hanno ceduto il passo ai diritti e alla democrazia e oggi sono obbligati a giurarvi fedeltà per regnare.

  1. Conclusioni

Al termine di questa disamina generale di uno dei sistemi politici europei più avanzati, resta lo spazio per alcune precisazioni finali.

Come il Tocqueville ci ricorda, una Costituzione non è soltanto un insieme di norme, bensì un rapporto fra quelle norme con i sentimenti della società: è il rapporto tra regole e cultura politica.[27] In questa riflessione è possibile ritrovare la spiegazione più riuscita del perché la liberaldemocrazia, in Danimarca, così come nelle altre monarchie europee, non si trova in contrasto con la presenza di una istituzione ereditaria al vertice dello Stato. Eppure, soprattutto all’interno delle più affermate dottrine politiche nostrane, si continua a rifuggire l’idea che, nell’attuale periodo storico e culturale, dove ogni struttura sociale o politica viene riformata al fine di renderla più orizzontale, meritocratica e accessibile a tutti, possano esistere ordinamenti che accettano la presenza di un ufficio pubblico ereditario.

Forse il problema risiede anche nei termini che ancora oggi il diritto e la politica usano. Quando per descrivere il Regno Unito, il Belgio, i Paesi Bassi ecc. utilizziamo il termine “monarchie” ci dimentichiamo la sua etimologia. Dal greco monos-archia, il termine indica il comando di una sola persona; oggi un regime di governo simile non corrisponde più agli ordinamenti europei con a capo una magistratura ereditaria. Anzi, spesso abbiamo sistemi monarchici in Paesi dove il vertice del potere è elettivo o, comunque, basato su metodi di selezione tutt’altro che ereditari, fermo restando che neppure in quest’ultimi l’effettivo potere decisionale appartenga ad un solo individuo. Pertanto, a partire dalla rivoluzione inglese del 1689 possiamo notare come la presenza di un re o di una regina non è più sinonimo di “potere di uno solo”, bensì di molti (oligarchia).[28]

Le monarchie tradizionali, cioè quelle dove è un re a governare in maniera assoluta, sono per lo più islamiche. In Europa, invece, siamo in presenza del fenomeno opposto: i sovrani sono figure cerimoniali, spesso vittime, in un certo senso, di discriminazioni “a rovescio” (se si considera ad es. che nel Regno Unito il re non può votare, non può esprimere pubblicamente il suo pensiero, non può sposarsi con persone non anglicane ecc.), chiusi all’interno della Corona, istituzione con meccanismi tutti suoi. Nessuna testa coronata europea conta più del suo primo ministro o di uno qualsiasi dei membri del parlamento. Addirittura, in Danimarca, come visto supra, il sovrano esercita poteri più marginali di quelli di un qualsiasi presidente di una repubblica parlamentare.

Nel 1987 Patrick Collinson scriveva che l’Inghilterra di Elisabetta I potrebbe essere descritta come una “repubblica monarchica”, poiché il potere regio era seriamente limitato.[29] Fermo restando che quest’ultima descrizione del sistema anglosassone di fine Cinquecento risulta essere quanto meno ottimista, si potrebbe riproporre un termine del genere oggi per descrivere un sistema come quello della Danimarca. Una “repubblica coronata”, prendendo in prestito le parole utilizzare per descrivere il sistema monarchico greco del 1864,[30] potrebbe essere una descrizione più in linea con la sua effettiva struttura istituzionale. I cittadini votano ogni autorità investita di effettivo potere decisionale; l’unico ufficio rimasto non elettivo, ma sottoposto alla regola della successione dinastica, non esercita nessuna influenza degna di nota, neanche per i costituzionalisti.

La Corona assume le forme di un ornamento esterno rispetto all’assetto dei poteri pubblici; la sua importanza trae linfa nella tradizione, nel sentimento, nella storia. Il suo compito non deve essere quello di governare, ma di unire: la politica è fatta per dividere, per discutere, per dibattere, ma un simbolo, come una bandiera, uno stemma, un re, deve essere presidio di identità, di appartenenza.

Di conseguenza, l’ereditarietà della carica è un aspetto del tutto marginale della figura monarchica: non distorce le regole democratiche, né inficia un sistema sociale pluralista, maturo e basato sui diritti. Inoltre, non è l’elettività l’attributo che rende un ufficio meritocratico; spesso ci troviamo dinanzi a casi eclatanti di risultati elettorali che portano al vertice dello Stato figure ritenute non idonee o non adatte alla carica pubblica.

Per cui la Corona detiene ancora la maestà, concetto mistico e sentimentale, il Parlamento è la sede della maestosa teatralità delle funzioni politiche, l’esecutivo è la vera sede delle decisioni che riguardano l’interesse generale.[31]

[1] Discorso di fine anno di Sua Maestà la Regina, 31 dicembre 2023, link: https://www.kongehuset.dk/nyheder/laes-h-m-dronningens-nytaarstale-2023 .

[2] Comunicato della Casa Reale Danese sull’abdicazione, link: https://www.kongehuset.dk/nyheder/abdikation .

[3] Umberto Cascone, Un mondo senza regine: Federico X nuovo re di Danimarca, Master X, 14 gennaio 2024, link:https://masterx.iulm.it/news/esteri/un-mondo-senza-regine-federico-x-nuovo-re-di-danimarca/ .

[4] Comunicato della Casa Reale Danese sulla cerimonia di proclamazione, link: https://www.kongehuset.dk/nyheder/traditionen-bag-proklamation-ved-et-tronskifte

[5] Retisnformation, link: https://www.retsinformation.dk/eli/lta/1953/169 .

[6] J.A. Hansen, La nostra storia costituzionale 1848-1866, Primo volume, seconda sezione, pagg. 246-245, link:https://www.kb.dk/e-mat/dod/113418007373_color.pdf .

[7] S. Merlino, Il governo costituzionale, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, 3 ss.

[8] Giuseppe de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Cedam, Padova, 2019 (decima edizione), pag. 191.

[9] Giuseppe de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Cedam, Padova, 2019 (decima edizione), pag. 192.

[10] Walter Bagehot, la Costituzione inglese, il Mulino, pag. 53.

[11] Peter Germer, Statforfatningsret, 3° edizione, pag. 11.

[12] Costituzione della Danimarca, link: https://www.astrid-online.it/static/upload/protected/DANI/DANIMARCA.pdf .

[13] Per S. Romano, Corso di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1926, 151 ss.

[14] P. Colombo, Il Re d’Italia. Prerogative costituzionali e potere politico della Corona (1848-1922), Milano, Franco Angeli, 1999, 32 ss.

[15] P. Bianchi, Gli ordinamenti scandinavi, in Diritto costituzionale comparato, a cura di P. Carrozza, A. Di Giovine, G.F. Ferrari, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 363-405.

[16] JOZK, De koning die bijna heilig was verklaard, link: https://www.jozk.org/varia/de-koning-die-bijna-heilig-was-verklaard .

[17] Lettera di Re Baldovino indirizzata al primo ministro, 30 marzo 1990, link: https://www.cathobel.be/2015/04/lettre-du-roi-baudouin-adressee-au-premier-ministre-wilfried-martens-le-30-mars-1990/ .

[18] B. Constant, Cours de politique constitutionnelle, Paris, 1818- 1819, trad. it. Corso di politica costituzionale, Firenze, 1849, 44-45.

[19] J. Fitzmaurice, Politics in Denmark, C. Hurst, Londra, 1981.

[20] J. Fitzmaurice, Politics in Denmark, cit., 1981.

[21] C. Forestiere, New institutionalism and minority protection in the national legislatures of Finland and Denmark, Scandinavian Political Studies, Vol. 31, n. 4, 2008.

[22] F. Duranti, Gli ordinamenti costituzionali nordici, Giappichelli, Torino, 2009, pagg. 76 e ss.

[23] T. Husted/J. Tiessen, Central Government Coordination in Denmark, Germany and Sweden. cit., p. 13.

[24] A cura di Manuela Magalotti, La valutazione d’impatto della regolazione in Danimarca, Esperienza n. 14, Senato della Repubblica, aprile 2016, pagg. 8-12, link: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/file/repository/UVI/14_-_Dossier_DANIMARCA.pdf .

[25] T. Husted/J. Tiessen, Central Government Coordination in Denmark, Germany and Sweden. An istitutional perspective, Forschungspapiere “Regierungsorganisation in Westeuropa”, Heft 02 (2006), Universitätsverlag Potsdam, Potsdam, 2006, pag. 20.

[26] G. Mannocchi, L’imperatore, Radici, evoluzione, e attualità della funzione imperiale nel Giappone contemporaneo, il Cerchio, 2018, pagg. 30-32.

[27] G. Rebuffa, Un’idea di Costituzione. Walter Bagehot e la regina Vittoria, pag. 31.

[28] Monarchia, Enciclopedia Treccani, link: https://www.treccani.it/enciclopedia/monarchia_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/ .

[29] Patrick Collinson, The monarchical republic of Queen Elizabeth I, Bollettino della Biblioteca John Rylands, 69, n. 2 (1987), pagg. 394-424, link: https://www.manchesterhive.com/view/journals/bjrl/69/2/article-p394.xml .

[30] Markesinis, Basilio S. (1973), Riflessioni sulla Costituzione greca, Affari parlamentari, 27 (settembre 1973): 8–27.

[31] G. Rebuffa, Un’idea di Costituzione. Walter Bagehot e la regina Vittoria, pag. 34.

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