I limiti della libertà di stampa: il caso Coop vs Esselunga e la ricettazione
La quinta sezione della Corte d’Appello di Milano, nell’aprile del 2018, si è pronunciata sul caso della presunta campagna diffamatoria che il patron dell’Esselunga aveva condotto nei confronti della rivale Coop, rendendo pubbliche le intercettazioni telefoniche acquisite illecitamente dal colosso, per mezzo di un’intricata serie di manovre intervenute tra ex dipendenti e due noti giornalisti. I giudici, all’esito del secondo grado di giudizio, hanno pronunciato una sentenza di condanna che ha ribaltato il verdetto di quella precedente, confermando la condanna per il reato di ricettazione ex art 648 c.p. per i due giornalisti (il capo della Coop nel frattempo era morto) che avevano acquisito le registrazioni telefoniche, ottenute mediante le condotte illecite di cui agli artt.615-bis e 617 c.p.
Tale pronuncia è ricca di risvolti ermeneutici e al tempo stesso pratici in materia di diritto di cronaca, poichè propone svariate riflessioni che si percorreranno, rispetto ai punti di più controversi, in tema di libertà di manifestazione del pensiero, attività giornalistica e responsabilità penale per la commissione di reati funzionali alla pubblicazione delle notizie.
Il caso Coop contro Esselunga
La vicenda iniziò a tracciarsi nel 2004, quando la società di servizi di sicurezza che lavorava presso i punti vendita della Coop iniziò a condurre un complessa attività di intercettazione delle telefonate del direttore di una delle filiali lombarde e di altri dipendenti. All’esito dell’attività, risultarono circa ottocento telefonate e il materiale fu inserito in alcuni cd-rom.
Nel 2009 la Coop Lombardia decise di interrompere il rapporto d’impiego che aveva con la società di servizi di sicurezza ed uno degli amministratori della stessa si rivolse al direttore del giornale “Libero”, offrendogli tutto il materiale acquisito illecitamente, per poterne fare uno “scoop” giornalistico. Questi, allora, contattò il leader di “Esselunga”, azienda concorrente della Coop e gli consigliò di impiegare presso le sue sedi la società di vigilanza in modo da ottenere, in cambio, tutto il materiale “scottante” che sarebbe servito a screditare la Coop. In altre parole, l’Esselunga avrebbe dovuto “comprare” quelle informazioni dai diretti interessati, per poi cederle al giornale. Quindi, nel 2010 il giornale “Libero”, mediante la realizzazione di alcuni servizi giornalistici, rese pubblica la notizia di tutte le operazioni di intercettazione illecite che erano avvenute presso la Coop, screditando pubblicamente l’operato della società.
In seguito, la Coop denunciò il direttore dell’Esselunga e i due giornalisti e, in primo grado, il G.u.p. del Tribunale di Milano (sent. n. 848 del 15.03.2016) assolse tutti gli imputati dal delitto di ricettazione per mancanza dello scopo del profitto richiesto dall’art. 648 c.p. Al tempo stesso, la sentenza condannò i giornalisti per calunnia ed il leader della Esselunga per il delitto di diffamazione a mezzo stampa. Tale verdetto è stato ribaltato due anni dopo dalla Corte d’Appello di Milano che, con sentenza n. 2538 del 9 aprile 2018, ha ritenuto i giornalisti colpevoli per aver commesso il reato di ricettazione.
Due, i punti cruciali della condanna:
- L’elemento del profitto, necessario ai sensi dell’art. 648 c.p. per aversi ricettazione, può anche non essere patrimoniale, ma avere ad oggetto un vantaggio di tipo “morale”.
- Il diritto di cronaca del giornalista non “scrimina” i reati commessi ai fini della divulgazione di informazioni, quando l’interesse pubblico alla notizia non sia ritenuto prevalente rispetto alla lesione provocata ai diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Il diritto di cronaca dalla Costituzione al Codice Penale
Ai fini di comprendere i risvolti pratici della vicenda, occorre analizzare in primis il diritto di cronaca. Questo, incluso nell’ordinamento italiano tra le libertà di manifestazione del pensiero riconosciute ex art. 21 della Costituzione[1], tutela l’attività della raccolta di informazioni di pubblico interesse ai fini di renderle note alla collettività e si pone al limite rispetto alla configurazione del delitto di diffamazione, previsto e punito dal Codice Penale all’art. 595 c.p.
In linea di esemplificazione, se l’ordinamento garantisce la libertà di manifestazione del pensiero come “una di quelle […] che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale”[2], allo stesso tempo stabilisce che “non integra una tutela incondizionata e illimitata della libertà di manifestazione del pensiero, giacché, anzi, a questa sono posti limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione. […] E tra codesti beni ed interessi, ed in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione)”[3]. Il problema, però, è che sebbene la Corte Costituzionale si sia preoccupata di ricercare il fondamento dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero, non ha indicato una disposizione costituzionale che li contenga ma si è affidata, il più delle volte, al generico richiamo dell’art. 2 Cost.[4] Quindi, la linea di demarcazione tra la libertà di manifestazione del pensiero e l’esistenza di alcuni diritti della persona sui quali essa può infierire, è molto labile e si può diversamente atteggiare caso per caso.
Il Codice Penale inserisce il diritto di cronaca tra le cause di esclusione dell’imputabilità, qualificandola cioè come scriminante ex art. 51 c.p., “esercizio di un diritto”, insieme al diritto di critica politica ed al diritto di satira.[5]
Non sono scriminate invece la diffusione di notizie “false, esagerate o tendenziose” (ex art. 656 c.p.); il reato di procurarsi notizie su segreti di Stato (ex art. 256 c.p.) o dei quali è vietata la divulgazione (ex art. 262 c.p.); il c.d. revenge porn (artt. 617 e 617 bis c.p.); il reato di diffamazione commesso da chi offende la reputazione altrui art. 595 c.p.).
La scriminante del diritto di cronaca include i reati commessi dal giornalista per ottenere la notizia?
La domanda, quindi, sorge spontanea: la scriminante del diritto di cronaca può operare anche in riferimento ai reati eventualmente commessi dal giornalista per acquisire la notizia oggetto di pubblicazione?
Le cause di giustificazione rispondono al criterio di bilanciamento di interessi, per cui la loro operatività comporta il sacrificio di un interesse per tutelarne un altro, di uguale o maggior valore. L’art. 51 c.p. sancisce la prevalenza dell’interesse di colui che agisce nell’esercizio di un diritto rispetto agli interessi che, invece, sono tutelati dalla norma incriminatrice. Tuttavia, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, l’esercizio del diritto è applicabile come “scriminante” solo quando sia possibile contenerla nei limiti entro i quali può dirsi legittimo. In altre parole, si ritiene che ogni diritto sia sottoposto a dei limiti, detti limiti interni e limiti esterni. Sono limiti interni quelli connaturati al diritto scriminante; la loro individuazione è molto complessa in quanto le norme incriminatrici limitano le libertà costituzionali solo quando esprimono restrizioni all’esercizio delle libertà già desumibili nella Costituzione, quindi da fonti di rango uguale o superiore. Nei casi problematici è il giudice a dover operare un bilanciamento degli interessi in conflitto e ammettere il sacrificio di un interesse che ritiene meritevole di tutela, ma ciò nel solo caso in cui il sacrificio sia “necessario” e “proporzionato” rispetto all’altro interesse. Sono esterni, invece, i limiti imposti dall’esigenza di tutelare interessi diversi. La legge non individua in modo esatto quali siano i limiti interni di un diritto, ma tale compito è demandato all’interprete.
Uno dei limiti del diritto di cronaca è individuato dalla Costituzione che, all’art. 21 co.6 stabilisce: “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume” (limite interno). La giurisprudenza, poi, ha individuato ulteriori limiti entro i quali il diritto di cronaca si ritiene prevalente sulla reputazione e sull’onore della persona eventualmente lesi. Tali limiti sono:
-la verità della notizia;
-la continenza nell’esposizione del fatto;
-l’interesse pubblico alla divulgazione, c.d. pertinenza.
In questi casi, dunque, il diritto di cronaca ha valenza scriminante; al contrario, la violazione dei predetti limiti permette che si configuri un reato (il più delle volte la diffamazione ex art. 595 c.p.). Ebbene:
È punibile il giornalista che, nell’espressione del diritto di cronaca entro i limiti previsti, acquisisca in modo illecito il materiale per la pubblicazione delle notizie? È possibile che il giornalista che acquisti notizie provenienti da reato commetta il reato di ricettazione o questo è scriminato dall’esercizio del diritto di cronaca?
La risposta è fornita da due profili:
- Per integrarsi la ricettazione è richiesta la sussistenza di un dolo di tipo misto: generico, rispetto a coscienza e volontà di ricevere cose provenienti da reato, specifico rispetto al profitto da ricavarne. Sul punto, si è generalmente obiettato che il giornalista acquisisce la res illicita per adempiere al suo dovere di informare e non ai fini di riceverne un profitto. Però, per l’orientamento sostenuto anche dalla sentenza qui esaminata, il profitto può avere anche natura non patrimoniale. Per esempio, in Cass. Pen. n. 15680/2016, si ritiene che “il profitto nel delitto di ricettazione è configurabile ogni qualvolta, per effetto del reato, il patrimonio del soggetto agente si incrementa di un bene dal quale il medesimo possa trarre un vantaggio e, quindi, in sé, idoneo a soddisfare un bisogno umano sia esso di natura economica o spirituale”.
- La giurisprudenza europea,[6] ha sostenuto che l’acquisizione della notizia di interesse pubblico rappresenti un’attività giuridicamente tutelata, (considerando in particolare l’art. 10 CEDU, rubricato “libertà di espressione”) capace di scriminare, nei limiti della proporzionalità e necessità, anche le condotte precedenti e strumentali rispetto alla pubblicazione della notizia. Però, laddove l’acquisizione sia avvenuta in modo illecito, la garanzia di cui all’art. 10 CEDU non esonera i giornalisti dall’obbligo di rispettare le previsioni penali contenute nel Codice, perché lo stesso articolo 10 CEDU, secondo una lettura più attenta, tutela sì, la libertà di espressione, ma legittima l’imposizione di limiti. In particolare, nel noto caso Fressoz e Roire contro Francia, sent. n. 21 gennaio 1999 della Corte Europea, i giudici hanno affermato che la libertà di espressione “consente anche la diffusione di informazioni e di idee che possano offendere, ferire o turbare qualcuno, perché così esigono il pluralismo e la tolleranza. La stampa ha una funzione rilevante in una società democratica, anche se non deve travalicare alcuni limiti, in particolare relativamente alla protezione della reputazione e dei diritti altrui, nonché alla necessità di impedire la divulgazione di informazioni riservate.” In pratica, è necessario accertare caso per caso se l’interesse di informare la collettività prevalga sui doveri e sulle responsabilità del giornalista. Se l’interesse pubblico rispetto a quello leso è ritenuto prevalente, una condanna per il reato commesso sarebbe ragionevolmente irrogata. Pertanto, malgrado la tutela approntata dall’art. 10 CEDU,[7] il cronista che riceve del materiale proveniente da reato e lo divulga sotto forma di notizia, può incorrere nel reato di ricettazione.
Rispetto al caso Coop contro Esselunga, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 2538 del 9 aprile 2018 ha abbracciato tutte le argomentazioni appena affrontate sulla possibilità per il giornalista di incorrere nel reato di ricettazione e ha condannato a tal titolo gli imputati.
Invero, si è concluso che:
- Dapprima, “non possono sopravvivere dubbi sulla perfetta consapevolezza” da parte dei giornalisti circa la provenienza delittuosa del supporto informatico utilizzato per lo Scoop, poiché i due si erano resi conto della provenienza delittuosa delle intercettazioni. Inoltre, se “il profitto […] può anche avere natura non patrimoniale”, [8] è certo che i due giornalisti lo abbiano ottenuto. Il loro profitto consisteva certamente nell’aver acquisito, grazie all’esclusività della notizia, un’enorme diffusione, seguita da un forte incremento di notorietà, quindi un profitto di natura “morale”, “sociale”. Il patron di Esselunga, invece, era convinto di poter utilizzare quella bomba mediatica nei confronti della catena di distribuzione concorrente per rovinarla ed avvantaggiarsi, anch’esso, sia sotto il profilo patrimoniale sia dal punto di vista morale.[9]
- Non c’è alcuna giustificazione all’operato dei due giornalisti perché, in tal caso, non entra in gioco l’”interesse pubblico” della notizia, ma è stata messa in essere una vera e propria ricettazione, avvenuta, in conclusione, ricoprendo tutti gli elementi previsti e puniti dall’art. 648 c.p. e, in più, commettendo una grave violazione del codice di comportamento professionale, il quale “non consente la commissione di reati relativi all’attività di informazione al pubblico, nell’ambito di un ordinamento -libero- quale quello a cui appartiene l’Italia”[10].
[1] Tale libertà è anche consacrata dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
[2] Sent. N. 9 del 1965 Corte Cost.
[3] Sent. 86 del 1974 Corte Cost.
[4] NICASTRO G.“Libertà di manifestazione del pensiero e tutela della personalità nella giurisprudenza della corte Costituzionale”, tratto da www.cortecostituzionale.it/convegni_seminari
[5] Tratto da www.ildiritto.it
[6] Sent. Corte europea Fressoz/Roire contro Francia, 21 gennaio 1999
[7] Così, anche per il famoso “caso Peugeot”, Sent. Corte europea Fressoz/Roire contro Francia, 21 gennaio 1999
[8] Sent. Cass. n. 6531/1990
[9] ZUFFADA E., “Acquisizione di intercettazioni illegali: giornalisti condannati per ricettazione (Caso Coop)”, tratto da www.dirittopenaleuomo.org
[10] Idem
Sono Alessia Di Prisco, classe 1993 e vivo in provincia di Napoli.
Iscritta all’Albo degli Avvocati di Torre Annunziata, esercito la professione collaborando con uno studio legale napoletano.
Dopo la maturità scientifica, nel 2017 mi sono laureata alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, redigendo una tesi dal titolo “Il dolo eventuale”, con particolare riferimento al caso ThyssenKrupp S.p.A., guidata dal Prof. Vincenzo Maiello.
In seguito, ho conseguito il diploma di specializzazione presso una Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali a Roma, con una dissertazione finale in materia di diritto penale, in relazione ai reati informatici.
Ho svolto il Tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Torre Annunziata affiancando il GIP e scrivo da anni per la rubrica di diritto penale di Ius In Itinere.
Dello stesso progetto sono stata co-fondatrice e mi sono occupata dell’organizzazione di eventi giuridici per Ius In Itinere su tutto il territorio nazionale.