martedì, Ottobre 15, 2024
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Il caso Punta Perotti: un commento alla sentenza della Corte EDU

La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso di Punta Perotti rappresenta solo l’ultimo passo di una vicenda cominciata nell’ormai lontano 1992.

Bisogna infatti partire dalla pronuncia sul caso Sud Fondi[1], emessa dai giudici di Strasburgo nel 2009. Per i primi, i fatti: le tre società ricorrenti, proprietarie di tre lotti di terreno in una zona litoranea vicina a Bari, ottennero dal comune i permessi necessari per avviare la costruzione di un centro polifunzionale (uffici, abitazioni, negozi). Nel 1997, a lavori già avviati, la Procura di Bari avviò un’indagine sui cantieri, ponendo sotto sequestro gli edifici già parzialmente costruiti. Nel 1999, il Tribunale di Bari dichiarò illecita l’attività di costruzione in quanto svolta in violazione della legge Galasso (431/85), la quale vietava il rilascio di autorizzazioni per edificare in zone di particolare rilevanza ambientale, come le zone costiere e litoranee[2]. I giudici assolsero comunque i responsabili delle società, che avevano avviato i lavori in possesso di una autorizzazione valida: mancava, nell’opinione del giudice del merito, l’elemento soggettivo previsto dall’art. 5 c.p. In ogni caso, il Tribunale ordinò la confisca di tutti gli edifici già costruiti e dei relativi lotti, facendoli acquisire al comune di Bari (risultato poi confermato in Cassazione). Nonostante l’opposizione dei ricorrenti, tutte le opere già poste in essere e sottoposte a confisca vennero definitivamente demolite nel 2006.

Il punto centrale  della questione riguarda l’interpretazione della legge Galasso e, in particolare, dell’art. 18, il quale dispone che “Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio (a) quando vengono iniziate opere (…) in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, (…) senza la prescritta autorizzazione”. In particolare, la norma venne interpretata, in un primo momento, nel senso di escludere abusività quando vi fosse rilascio di autorizzazioni richieste dalla parte edificante; successivamente, vi fu un netto cambio di rotta e si è potuto ravvisare abusività di una costruzione anche in presenza dei necessari nulla osta, essendo sufficiente la violazione delle regole sull’inedificabilità di alcune aree (come, appunto, quelle costiere).

Altro punto di rilievo riguarda la confisca dei lotti oggetto del procedimento: essendo considerata come misure di sicurezza, l’art. 199 c.p. dispone che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge”. In particolare, la confisca prevista dall’art. 44 della legge 380/01 in materia di edilizia è stata sempre considerata come sanzione penale: infatti, questa andava a colpire i beni di imputati giudicati colpevoli di reati in questo specifico settore; senonché, successiva giurisprudenza si è poi orientata ad estendere l’applicazione di questa misura anche ad imputati poi assolti, in quanto diretto a sanare una situazione “materialmente abusiva[3].

Alla luce di una situazione confusa e stratificata, soprattutto a livello giurisprudenziale, i ricorrenti hanno lamentato, in primo luogo, una violazione dell’art. 7 CEDU, il quale prevede il generale principio nulla criminen, nulla poena sine lege, ossia il principio di legalità dei reati e delle pene. Occorre dunque cercare di definire i contorni applicativi della norma, anche considerando la definizione che la Corte dà del termine “legge”: nell’opinione dei giudici di Strasburgo, è “legge” tanto quella di origine legislativa quanto quella giurisprudenziale. Elementi determinanti in questo senso sono (a) l’accessibilità, ovvero la concreta conoscibilità delle leggi, e (b) la prevedibilità delle norme in materia penale, in particolare per quanto concerne il momento applicativo[4].

La violazione dell’art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte nel caso di specie si fonda su due elementi. In primo luogo, la mancanza di accessibilità e prevedibilità che avrebbero fondato responsabilità penale degli imputati: in altre parole, gli imputati, assolti “perché il fatto non costituisce reato” non potevano prevedere le conseguenze delle proprie azioni e la risposta dell’ordinamento[5]. In seconda misura, la Corte riconosce l’assenza di quel “legame di natura intellettuale” che sta alla base di ogni sanzione di tipo penale; mancava cioè quella volontà o quella coscienza che è invece elemento indefettibile per la comminazione di una sanzione penale[6].

Pertanto, nel riconoscere violazione dell’art. 7, la Corte rileva come il quadro legislativo italiano sia lacunoso “non solo rispetto alle condizioni generali di «qualità» della “legge” ma anche rispetto alle esigenze specifiche della legalità penale.”.

La Corte ha inoltre riconosciuto violazione dell’art. 1 prot. 1 per le medesime ragioni relative all’art. 7, ossia la mancanza di una base legale che legittimasse i provvedimenti di confisca[7], andando a ledere il diritto al libero godimento della proprietà dei ricorrenti. I giudici si spingono però oltre questa semplice valutazione: la mancanza di un equo indennizzo e il fatto che i beni siano poi stati consegnati al comune di Bari (che ne è divenuto proprietario) rappresentano una sproporzione che è sostanzialmente incompatibile con le finalità perseguite e la legislazione in materia; anzi, secondo la Corte, “sarebbe stato ampiamente sufficiente prevedere la demolizione delle opere incompatibili con le disposizioni pertinenti e dichiarare inefficace il progetto di lottizzazione[8].

La recente pronuncia della Corte sul caso G.I.E.M. e altri c. Italia[9] è una diretta emanazione della sentenza appena vista[10], non solo in fatto[11] (la società ricorrente possedeva un terreno adiacente a quello della Sud Fondi), ma anche in diritto. Infatti, come sottolineato dai giudici Motoc e Pinto de Albuquerque nelle loro opinioni, le conclusioni della Corte devono molto non solo alla precedente sentenza sul caso Sud Fondi, ma anche alla pronuncia sul caso Varvara c. Italia[12].

In questo senso, la Corte ha approfittato dell’occasione per compiere un “riordino” della propria giurisprudenza sul tema. In particolare, i giudici hanno sottolineato come, nel merito dell’art. 7, sia necessario tenere conto se la misura della confisca richieda l’esistenza di un elemento soggettivo nell’azione compiuta dai ricorrenti (cosa che manca, nel caso di specie[13]) e se il provvedimento possa essere emesso per soggetti che non erano imputati ma terzi nei procedimenti originari (la G.I.E.M. non era tra i soggetti imputati nel processo originario contro la Sud Fondi).

Dal momento che la situazione era identica a quella già giudicata nel caso Sud Fondi, la Corte non ha potuto fare altro che adeguarsi alla sua precedente pronuncia, ravvisando violazione dell’art. 7 e dell’art. 1 prot. 1.

La sentenza ha dato vita ad un vivace dibattito tra i giudici chiamati a pronunciarsi sulla questione.

In particolare, si è sottolineato come la confisca sia passata dall’essere una misura di carattere meramente amministrativo “per ricostituire una situazione di legalità” all’essere diventata una vera e propria sanzione penale, con conseguente applicazione dell’art. 7 CEDU. Nel caso della G.I.E.M., però, non essendo questa accusata di nessun crimine, sembra mancare quell’aspetto sanzionatorio che è invece tipico di provvedimento di natura penale.

Ciò che molti giudici sottolineano (Lemmens, Spano, Pinto de Albuquerque) è l’atteggiamento delle corti italiane: nel corso degli anni, i giudici italiani hanno cercato di adattarsi alle pronunce della Corte sul tema (Sud Fondi, Varvara e, in ultimo, G.I.E.M.), senza però chiedersi se la confisca possieda o meno quel fondamento logico-giuridico tipico di una sanzione penale. In altre parole, i giudici di Strasburgo evidenziano come, sul tema della confisca, le corti italiane non abbiano saputo recepire il cambiamento di presupposti logici alla base dell’istituto, pensando solamente ai risvolti pratici. Cambiamento di rilevanza tutt’altro che marginale, posto che gli stessi membri del collegio giudicante si sono a loro volta confrontati sul tema, senza raggiungere una conclusione univoca sulla natura della misura della confisca.

[1] Corte EDU, Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, ricorso n. 75909/01, sentenza 20 gennaio 2009.

[2] Ibid., §25.

[3] Ibid., §65.

[4] Corte EDU, Kokkinakis c. Grecia, ricorso n. 14307/88, sentenza 25 maggio 1993, §§40 – 41.

[5] Si veda in questo senso Manes V., La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza, in Diritto Penale Contemporaneo, 13 aprile 2015 )

[6] Bartole S., De Sena P., Zagrebelsky V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, CEDAM, 2012, pp. 263 – 264

[7] Affermando come “questa conclusione dispensa la Corte dall’esaminare se vi sia stata rottura del “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo” (Corte EDU, Sporrong e Lönnroth c. Svezia, ricorsi nn. 7151/75 7152/75, sentenza 23 settembre 1982, §69; Corte EDU, Sud Fondi S.r.l. c. Italia, cit., §§ 136 – 137).

[8] Corte EDU, Sud Fondi S.r.l. c. Italia, cit., §140.

[9] Corte EDU, G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia, ricorsi nn. 1828/06, 34163/07 e 19029/11, sentenza 28 giugno 2018.

[10] Per una completa analisi si veda Beduschi L., Confisca degli “ecomostri” di Punta Perotti: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia a versare alle imprese costruttrici 49 milioni di euro a titolo di equa riparazione, in Diritto Penale Contemporaneo, 16 maggio 2012 )

[11] La pronuncia prende in considerazione anche la situazione di altri proprietari che hanno subito confische in altre zone del paese, come il Golfo Aranci in Sardegna e le località di Testa di Cane e Fiumarella di Pellaro, in provincia di Reggio Calabria. Per semplicità, ci occuperemo della sola G.I.E.M. e dell’area di Punta Perotti.

[12] Corte EDU, Varvara c. Italia, ricorso n. 17475/09, sentenza 29 ottobre 2013.

[13] Corte EDU, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, cit., §247.

Fabio Tumminello

30 anni, attualmente attivo nel ramo assicurativo, abilitato all'esercizio della professione forense, laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Torino con tesi sulla responsabilità medico-sanitaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e vincitore del Premio Sperduti 2017. Vice-responsabile della sezione di diritto internazionale di Ius in itinere, con particolare interesse per diritto internazionale, diritti umani e diritto dell'Unione Europea. Già autore per M.S.O.I. ThePost e per il periodico giuridico Nomodos - Il Cantore delle Leggi, ha collaborato alla stesura di una raccolta di sentenze ed opinioni del Giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo Paulo Pinto de Albuquerque ("I diritti umani in una prospettiva europea. Opinioni dissenzienti e concorrenti 2016 - 2020").

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