Il Codice di Condotta dell’Unione Europea contro l’incitamento all’odio online
È di poco tempo fa l’annuncio che TikTok, il noto social network di proprietà della software house cinese ByteDance, ha aderito al Codice di condotta per combattere l’incitamento all’odio online[1] emanato dalla Commissione Europea nel maggio del 2016 insieme alle principali aziende informatiche[2].
Una notizia di tale portata rappresenta certamente uno spunto per la comprensione di uno strumento non molto conosciuto ma che nonostante questo assolve una funzione estremamente importante e trova applicazione quotidiana.
Di uno strumento giuridico teso a contrastare l’hate speech (in inglese, letteralmente, discorso di odio, che è la formula con la quale si identifica l’incitamento all’odio online, perpetrato cioè attraverso i media digitali) si è iniziato a discutere a seguito del dilagare in Europa del terrorismo di matrice religiosa nel secondo decennio degli anni duemila, considerato quasi univocamente come la naturale conseguenza dello stesso hate speech[3].
È nell’ambito di queste congiunture sociopolitiche quindi che la Commissione si è attivata insieme alla principali piattaforme IT, elaborando uno strumento tendente comunque alla repressione di una qualsivoglia forma di incitamento all’odio online, non soltanto fondato su ragioni religiose.
Il fondamento e soprattutto lo scopo di tale strumento giuridico vanno ricercati nell’ambito di una decisione quadro[4], la 2008/913/GAI, emanata dal Consiglio dell’Unione Europea il 28 novembre del 2008. Si tratta di un atto attraverso il quale il Consiglio si prefissava l’obiettivo di arginare “talune forme di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale” nazionale. Più nello specifico la decisione quadro invitava i singoli Stati nazionali ad adottare determinate leggi penali volte alla repressione di reati di stampo xenofobo e razzista specificamente indicati quali “l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica” a cui si aggiungono “l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”. Infine, la decisione quadro auspicava altresì che la motivazione razzista o xenofoba, all’origine della realizzazione di uno o più reati diversi da quelli indicati nella decisione stessa, assurgesse a circostanza aggravante della pena.
L’emanazione del Codice è dovuta allora alla necessità di arginare il fenomeno del pubblico incitamento all’odio non soltanto in una dimensione offline ma anche e soprattutto online, affiancando alle disposizioni penali nazionali recepenti la decisione quadro sopra esaminata nuovi e diversi strumenti.
Prima di analizzarne il contenuto è opportuno valutare la sua natura giuridica. Si tratta essenzialmente di un insieme di impegni e programmi d’azione che le aziende informatiche aderenti assumono al fine di contrastare il fenomeno dell’odio online ma che non presentano i caratteri dell’obbligatorietà o della vincolatività. Infatti, i codici di condotta emanati dall’UE possono pacificamente essere ricondotti nella categoria dei cosiddetti atti non previsti, vale a dire atti emanati da una o più istituzioni comunitarie che, nonostante questo, non rientrano nel novero indicato dall’articolo 288 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea[5] e per questo motivo privi di valore obbligatorio e improduttivi di un qualsivoglia effetto giuridico[6].
Per quanto riguarda il contenuto del Codice, le principali aziende informatiche premettono innanzitutto la volontà di tutelare e promuovere la libertà di espressione, anche quella avente ad oggetto informazioni o idee offensive ovvero in generale contrarie al sentimento comune[7]. Esse infatti, di concerto con la Commissione Europea, hanno assunto una serie di impegni aventi un’efficacia, anche preventiva, in relazione alle sole forme illegali di incitamento all’odio, ossia, sostanzialmente, quelle indicate nella decisione quadro prima esaminata.
In primo luogo, le aziende informatiche assumono un impegno informativo nei confronti degli utenti volto “a precisare che sono vietate la promozione dell’istigazione alla violenza e a comportamenti improntati all’odio”. Oltre a questo, le aziende si impegnano ad elaborare e attivare procedure di segnalazione di cui gli utenti facenti parte della community sono parte attiva. In altri termini, gli utenti sono chiamati a segnalare alla piattaforma che li “ospita” eventuali atteggiamenti razzisti o xenofobi di cui altri utenti si sono resi protagonisti. Entro 24 ore dalla segnalazione segue un’attività di esame della stessa realizzata da un team di soggetti a tal fine specializzati i quali sono chiamati a valutare se il contenuto segnalato violi le regole interne all’azienda (le cosiddette linee guida della community) ovvero le disposizioni penali nazionali adottate in fase di recepimento della decisione quadro. Qualora il contenuto segnalato effettivamente violi tali regole, l’azienda informatica si impegna a rimuoverlo ovvero a disabilitarne l’accesso in modo tale da non renderlo più visibile.
Come già anticipato, gli altri utenti svolgono un ruolo attivo essendo loro stessi tra i segnalatori dei contenuti inappropriati, per questo motivo il Codice ritiene opportuno promuovere presso gli utenti stessi una certa opera di educazione e di sensibilizzazione in merito ai contenuti non autorizzati così come un certo incoraggiamento nel segnalarli. E tale opera diventa tanto più efficace in quanto le aziende informatiche si facciano promotrici di “narrazioni alternative indipendenti, di nuove idee e iniziative e di sostegno di programmi educativi che incoraggino il pensiero critico”.
Nel Codice non mancano poi disposizioni che promuovono la collaborazione tra le varie aziende informatiche, le quali sono chiamate a condividere le pratiche di segnalazione ed esame dei contenuti inappropriati, così come non mancano disposizioni incoraggianti la creazione di partenariati con le organizzazioni della società civile e le autorità nazionali e l’assunzione di impegni da parte della Commissione volti ad una più efficace attuazione delle disposizioni codicistiche.
Infine, le aziende informatiche e la Commissione convengono di riesaminare gli impegni assunti a scadenze regolari, valutandone anche l’impatto in concreto[8].
Si è detto che il Codice non ha un valore obbligatorio né vincolante, il che significa che l’adesione è del tutta volontaria, così come volontaria è l’applicazione degli impegni in esso cristallizzati. Ciò comporta, tra le tante cose, l’impossibilità di impugnare eventuali violazioni tanto dinanzi ai giudici nazionali quanto dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. Nonostante questo, però, l’emanazione del Codice sembra aver prodotto dei risultati apprezzabili. Nella quinta valutazione datata 22 giugno 2020 si precisa infatti come le aziende informatiche siano state in grado di rimuove il 71% dei contenuti segnalati e poi esaminati e al tempo stesso garantire un adeguato grado di libertà di espressione in considerazione del fatto che non sono stati oggetto di rimozione quei contenuti non necessariamente classificabili come illecito incitamento all’odio.
I soggetti interessati tuttavia, soprattutto quelli istituzionali, ritengono che molto si possa e si debba ancora fare per il debellamento del fenomeno in esame. Nel Discorso sullo stato dell’Unione del 2020, la presidente della Commissione Europea ha fatto riferimento ad un prossimo piano antirazzismo di durata quinquennale[9] il quale, in riferimento all’hate speech, auspica innanzitutto un consolidamento della cooperazione con le aziende informatiche sulla base di quanto già previsto dal Codice, oltre ad un’estensione dello stesso anche ad altre piattaforme social, in special modo quelle maggiormente utilizzate dai minori (e l’adesione di TikTok può certamente essere interpretata in questa direzione). Ma la Commissione auspica altresì una piena e corretta trasposizione ed implementazione nelle legislazioni nazionali della decisione quadro del 2008, se necessario anche mediante l’attivazione di procedure di infrazione. In ultima istanza, la Commissione ritiene che un passo decisivo possa essere raggiunto con l’imminente emanazione del digital services act, il quale potrebbe avere la forza di incrementare e armonizzare le responsabilità delle piattaforme IT e rinforzare pertanto il controllo delle politiche sui contenuti in tutto il mercato unico. Insomma, alle aziende informatiche verrebbero attribuiti veri e propri obblighi tendenti non soltanto ad una più efficace opera di moderazione delle discussioni sui social ma anche ad una raccolta di informazioni propedeutiche all’emanazione di legislazioni antirazzismo da parte delle autorità nazionali[10].
[1] TikTok aderisce al Codice di Condotta Ue contro odio online, www.ansa.it, disponibile qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/tecnologia/internet_social/2020/09/08/tiktok-aderisce-al-codice-di-condotta-ue-contro-odio-online_6372c33f-7a71-4abc-96cd-428f6ae58c00.html, 9 settembre 2020.
[2] Microsoft, Twitter, Facebook e Google, a cui si sono successivamente aggiunti Instagram, Snapchat, Dailymotion, Jeuxvideo.com e, per l’appunto, ByteDance.
[3] È infatti innegabile che il rapido sviluppo dei social media ha portato alcuni gruppi terroristici ad effettuare attività di proselitismo online, seminando odio religioso nei confronti di tutti quegli individui che sembrano discostarsi in tutto o in parte dai precetti dell’Islam, facilitando in questo modo l’adesione di nuovi adepti a idee del tutto contrarie ai valori fondamentali non solo dell’Unione Europea ma anche dei singoli Stati nazionali, Consiglio dell’UE, Dichiarazione comune dei ministri della giustizia e degli interni dell’UE e dei rappresentanti delle istituzioni dell’UE sugli attentati terroristici di Bruxelles del 22 marzo 2016, disponibile qui: https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2016/03/24/statement-on-terrorist-attacks-in-brussels-on-22-march/.
[4] Le decisioni quadro non devono essere confuse con le decisioni, infatti, mentre queste ultime rappresentano atti di diritto derivato ai sensi dell’articolo 288 TFUE, le prime integrano atti posti in essere dal solo Consiglio dell’UE al fine di ravvicinare le legislazioni dei singoli Stati membri dell’UE in settori specifici, nel caso di specie la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, G. Strozzi, R. Mastroianni, Diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale, Giappichelli, Torino, 2013.
[5] Vale a dire la norma del TFUE che elenca gli atti di diritto derivato emanabili dalle Istituzioni comunitarie.
[6] G. Strozzi, R. Mastroianni, op. cit.
[7] Del resto, è stata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a tutelare tale forma di libertà di espressione nell’ambito del caso Handyside contro Regno Unito del 1976, disponibile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-57499.
[8] Codice di condotta per lottare contro le forme illegali di incitamento all’odio online, disponibile qui: .
[9] Commissione Europea, Stato dell’Unione: un nuovo piano d’azione per invertire la tendenza nella lotta contro il razzismo, 18 settembre 2020, disponibile qui: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_20_1654.
[10] Commissione Europea, A Union of equality : EU anti-racism action plan 2020-2025, 18 settembre 2020, disponibile qui: https://ec.europa.eu/info/files/union-equality-eu-action-plan-against-racism-2020-2025_en.
Nato a Castrovillari, in provincia di Cosenza, il 9 giugno 1994. Dopo aver conseguito la maturità scientifica si iscrive al corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università della Calabria presso la quale consegue nel 2020 il titolo di dottore magistrale discutendo una tesi in Diritto processuale penale dal titolo “Le nuove frontiere delle neuroscienze nel processo penale”. Dallo stesso anno, oltre ad aver intrapreso la pratica legale, ha iniziato a collaborare con Ius in itinere per l’area “IP & IT”.