Il danno da illecita divulgazione di dati sensibili nell’attività giornalistica
Il tema dell’illecita diffusione di dati personali nell’attività giornalistica è stato recentemente affrontato dalla Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 21 giugno 2018, n. 16311. In essa è stato posto un termine finale alla vicenda che ha visto coinvolti due fratelli a seguito della pubblicazione, da parte di un giornalista locale, di un articolo riferito alla morte del loro terzo fratello, deceduto in seguito a un’influenza a causa della sindrome adreno-genitale, patologia della quale risultavano, già all’epoca, essere affetti anche i due consanguinei.
L’articolo, pubblicato nel 2000, aveva riportato proprio tale ultima informazione, sconosciuta al pubblico, divulgando pertanto dati relativi alla salute dei fratelli del defunto in via incidentale e dunque diffondendoli virulentemente in ragione delle modeste dimensioni della comunità in cui essi vivevano; tale articolo è divenuto motivo di contenzioso tra le parti e oggetto di due sentenze di contenuto opposto: alla sentenza di primo grado del Tribunale di Latina è seguita la pronuncia della Corte d’Appello di Roma, che ha confermato le istanze rappresentate dai fratelli avanti al giudice di prime cure e ridefinito l’assetto di interessi sottostante, liquidando il risarcimento del danno non patrimoniale in favore delle parti attrici.
All’esito di tale impugnazione ha fatto seguito un ricorso per cassazione, con il quale il giornalista e l’editore, impugnando la pronuncia del giudice di secondo grado, hanno denunciato 4 motivi di censura, di cui 3 attinenti al merito della questione, che gli Ermellini hanno compiutamente esaminato.
Il primo evidente elemento di spicco del caso in esame attiene alla disciplina applicabile nella specie. Invero, nel corso dei diciotto anni susseguitisi per arrivare alla conclusione dell’iter processuale, in Italia è cambiata per ben due volte la normativa di riferimento in tema di privacy. Con la legge 675/1996[1], che correttamente i giudici di merito – e infine la Corte di cassazione – hanno applicato alla vicenda brevemente sintetizzata ratione temporis, si sono avvicendati dapprima il Codice per la protezione dei dati personali[2] e, in tempi molto più recenti, il GDPR (General Data Protection Regulation)[3], direttamente applicativo, abrogativo della direttiva 96/45/CE e integrato dal d.lgs. 101/2018[4] in materia di privacy e libera circolazione dei dati[5].
Orbene, nel periodo cronologico in cui la divulgazione è avvenuta la materia era disciplinata da siffatto corpo normativo, con cui si disciplinava agli articoli 20[6] e 22[7] l’ipotesi relativa alla pubblicazione, senza il consenso degli interessati, di dati personali. In particolar modo, l’articolo 22 regolava l’aspetto divulgativo dei dati sensibili.
Tali due norme erano sinergicamente interoperabili, giacché l’articolo 22 conteneva una disciplina derogatoria e maggiormente cautelativa rispetto all’attenzione riservata, da parte del legislatore, alla comunicazione o diffusione di dati personali non di carattere “sensibile”. Ciò che la commentata sentenza non menziona espressamente, pur sottintendendone l’analisi, è l’articolo 25 della medesima legge, attinente all’esercizio della professione giornalistica, dal momento che esso comprendeva svariati principi attinenti alla delimitazione dell’attività del professionista nell’esercizio del diritto di cronaca costituzionalmente tutelato dall’art. 21.
Tralasciando l’aspetto dei codici di deontologia, oggetto di revisioni e rimaneggiamenti da parte del Garante al mutare del costume, l’attenzione dell’interprete dovrebbe soffermarsi sul primo comma. Il giornalista non poteva, in accordo a tale disposizione, procedere alla divulgazione di dati delle categorie particolari di cui all’art. 22 o all’art. 24 (dati relativi a procedimenti giudiziari o a condanne a carico dell’interessato), nonostante la legge gli consentisse di pubblicare con particolari limiti anche dati sensibili, “ferma restando la possibilità di trattare i dati relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dall’interessato o attraverso i suoi comportamenti in pubblico”.
Prima di procedere alla circoscrizione dei limiti all’attività giornalistica rispetto alla protezione dei dati personali eccedenti lo scopo della stessa, può dunque notarsi come nel caso di specie, con una scelta lesiva della reputazione e della libera autodeterminazione rispetto alla scelta di far conoscere o meno determinate situazioni patologiche attinenti alla sfera intimamente personale, il giornalista abbia proceduto alla pubblicazione, nel famoso articolo, di informazioni riguardanti non “direttamente l’interessato”, né relative ad atti da esso compiuti “direttamente in pubblico”, bensì terzi che, sebbene legati da un vincolo parentale, niente avevano a che vedere con la vicenda dallo stesso giornalista descritta. Il che depone già, ictu oculi, verso uno sbilanciamento a favore del diritto di cronaca.
In secondo luogo e, segnatamente, anche con riferimento al primo periodo dello stesso articolo 25 della summenzionata legge[8], la Cassazione analizza i limiti dell’attività divulgativa del professionista, in particolar modo evidenziando come sia oramai orientamento giurisprudenziale consolidato[9] che “la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (c.d. continenza)”.
Sul primo elemento, nulla quaestio. È evidente, infatti, la veridicità della notizia. Tuttavia, è bene precisare che l’orientamento prevalente in giurisprudenza giustifica la scriminante ex art. 51 c.p. relativa all’esercizio del diritto di cronaca solo in ipotesi di stretta correlazione tra fatto e notizia, sempreché ricorrano gli altri due requisiti non alternativi al primo, bensì cumulativi.
Quanto al terzo limite (c.d. continenza), sia i giudici di merito che la Corte non dubitano sulla considerazione che la forma espressiva dell’articolo non abbia valicato tale barriera, rispettando le prescrizioni necessarie.
Relativamente, viceversa, al secondo limite (c.d. pertinenza), atteso che esso non si intende valicato anche qualora gli interessati godano di fama locale, le censure del giudice di merito, come anche degli Ermellini, hanno riguardato proprio la mancanza di tale necessario presupposto.
Tale requisito, secondo i giudici di merito e la Cassazione, sarebbe stato rispettato qualora il giornalista si fosse attenuto alla parte della notizia che poteva avere, anche astrattamente, un interesse pubblico alla divulgazione in quanto appartenente alla sfera della rilevanza penale, sebbene solo in via potenziale. Il giudice di prime cure aveva infatti già argomentato che la pubblicazione della notizia relativa allo stato di salute ed alla patologia ereditaria dei fratelli maggiori del defunto era del tutto avulsa dal contenuto dell’articolo e dall’informazione che il giornalista aveva ritenuto di offrire, nonostante il rispetto della continenza espressiva e della veridicità del fatto.
In particolare, ha ritenuto che «per i lettori sarebbe stato sufficiente sapere che il decesso a causa di un’influenza non celava, in ipotesi, forme pericolose di contagio o di virus pericolosi per la salute collettiva, bensì trovava causa nella personale, pregressa, patologia del deceduto». Argomentazione, questa, confermata anche dalla Suprema Corte, che stigmatizza l’operato del giornalista, con cui ha violato la legge n. 675/1996, applicata ratione temporis, nel combinato disposto degli artt. 20 e 22, che, come rilevato, impediscono la diffusione di tali dati personali di carattere sensibile senza il consenso degli interessati solo se inerenti allo scopo dell’attività giornalistica, mediante un articolo riportante una notizia vera e di interesse pubblico.
Ad abundantiam, inoltre, la Cassazione riporta delle massime dalla medesima precedentemente elaborate in materia di diffusione “indiretta” di dati personali di congiunti nelle notizie giornalistiche, in base ai quali “in tema di privacy i limiti dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, che circoscrivono la possibilità di diffusione dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, comportano il dovere di evitare riferimenti a congiunti del personaggio pubblico, non potendo la notorietà di quest’ultimo affievolire i diritti dei primi”[10].
A tali considerazioni fanno seguito argomenti di carattere strettamente giuridico, legati anzitutto alla possibilità di liquidare il risarcimento del danno non patrimoniale accertando l’esistenza del reato incidenter tantum, nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, nonostante l’inesistenza di una sentenza emessa da giudice penale e a prescindere dall’esistenza dello stesso[11], nonché un’esaustiva esplicazione di come la vita dei fratelli Simone abbia dovuto subire radicali cambiamenti in seguito alla diffusione della notizia, che ha prodotto le conseguenze di un radicale peggioramento nelle relazioni sentimentali, affettive e di amicizia a causa di un indebito eccesso nella cronaca solo per scopi attrattivi del lettore.
È bene precisare che i principi dettati dalla Cassazione con la commentata sentenza non sono validi soltanto con riferimento alla l. n. 675/1996. Tale normativa è stata applicata solo in ragione della vigenza della stessa al tempo dell’illecita divulgazione, sebbene oggi le tutele disposte dal Garante privacy, dal legislatore e dal regolatore europeo siano garantiste di un trattamento dati ben più ponderato e maggiormente bilanciato rispetto alle le deroghe generalmente previste per i giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca. Il codice di condotta legato all’attività giornalistica permane anche dopo il d.lgs. 101/2018, così come, d’altro canto, permangono le esenzioni rispetto ad alcuni diritti dell’interessato ai sensi dell’art. 85 del GDPR, che tutela il diritto di cronaca.
Tuttavia, il Garante – coordinando l’attività del Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti in merito – continua a mantenere alta la vigilanza e, qualora sia necessario, ad ammonire chi eccede e sanzionare le indebite ingerenze nella sfera privata di chiunque veda, per mezzo di un articolo, la propria vita stampata e diffusa sulle riviste.
[1] Legge n. 675 del 31 dicembre 1996 – Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali (Legge abrogata ai sensi dell´articolo 183, comma 1, lettera a), del Codice in materia di protezione dei dati personali), disponibile qui: https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/28335
[2] Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, “Codice in materia di protezione dei dati personali”, disponibile qui: http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/03196dl.htm
[3] Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, disponibile qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32016R0679&from=IT
[4] Decreto Legislativo 10 agosto 2018, n. 101, Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/wp/wp-content/uploads/2018/09/D.-Lgs.-n.-1012018-Decreto-di-adeguamento-al-GDPR.pdf
[5] Da tenere conto la permanenza, nell’ordinamento italiano, delle norme previgenti del Codice privacy non in contrasto con il GDPR. Dunque il sistema normativo, nel suo complesso, è molto più articolato nell’insieme e non esiste traccia, ad oggi, della vigenza della legge 675/1996.
[6] Art. 20., “Requisiti per la comunicazione e la diffusione dei dati”, Legge n. 675 del 31 dicembre 1996, v. nota 1.
[7] Art. 22., “Dati sensibili”, Legge n. 675 del 31 dicembre 1996, v. nota 1.
[8] N.d.R.: si tratta di un parere dello scrivente, non avendo la Cassazione preso direttamente in considerazione la norma.
[9] Cass. Civ., Sez. III, sent. 4 febbraio 2005, n. 2271, disponibile qui: ; Cass. Civ., Sez. III, sent. 5 maggio 2017, n. 10925, disponibile qui:
[10] V. Cass., 6/12/2013, n. 27381; cfr. altresì Cass., 16/4/2015, n. 7755.
[11] Cfr. Cass. 31/7/2015, n. 16222, disponibile qui: https://www.unipa.it/scuole/scienzegiur.ecosociali/specializzazioni/professionilegali/.content/documenti/Cass-sez.-I-31_7_2015-n.-16222-impugnaz-riconoscim-per-difetto-veridicit-e-danno-alla-persona.pdf
Laureato a pieni voti presso l’Università di Pisa, è abilitato alla professione di Avvocato.
Consegue nel gennaio 2018 il Master Universitario di 2° livello (CMU2) in Internet Ecosystem: Governance e Diritti presso l’Università di Pisa in collaborazione con il CNR-IIT, nell’ambito del quale svolge un tirocinio formativo presso il Servizio Affari Legali e Istituzionali della Scuola Normale Superiore, occupandosi di data protection e, in particolare, dell’applicazione del GDPR nel settore pubblico. Discute una tesi relativa all’applicazione del GDPR nelle Università statali e i conflitti con la trasparenza amministrativa dopo il decreto FOIA (d.lgs. 97/2016).
Ha collaborato con diversi studi legali nel ramo del diritto civile e commerciale, da ultimo specializzandosi nel contenzioso bancario e nelle soluzioni innovative per la previsione della crisi aziendale.
Ad oggi è funzionario presso l’Istituto Nazionale Previdenza Sociale, sede provinciale di Venezia, occupandosi di vigilanza documentale e integrazioni salariali. All’interno dell’Istituto collabora altresì con la Direzione Centrale Audit e Monitoraggio Contenzioso, svolgendo attività di internal auditing.
e-mail di contatto: edoardo.palazzolo@iusinitinere.it