venerdì, Luglio 26, 2024
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Il tormentato tema del fine vita

A cura di Daniela de Francesco, Notaio in Taranto                                  

 Cenni introduttivi

In Italia il tormentato percorso verso una legislazione in tema di fine  vita ha raggiunto la sua prima meta con l’approvazione della Legge n.219 del 22 dicembre 2017, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

Tuttavia, ancora oggi sono sempre vivi ed accesi dibattiti e riflessioni sulla morte come “scelta di vita”, in contrapposizione alle evoluzioni progressive della scienza e della tecnologia, che invece consentono di prolungare artificialmente  la sopravvivenza umana, molto spesso anche contro la volontà dello stesso paziente o dei suoi più stretti congiunti.

Ci si pone allora un interrogativo cruciale, che da sempre, in merito a questo delicatissimo argomento, divide i sostenitori della visione etico-filosofica dai sostenitori della visione laica: prolungare un’esistenza solo dal punto di vista biologico ed a mezzo di terapie di alimentazione ed idratazione artificiali, significa davvero tutelare il “bene vita” e la dignità dell’essere umano?

Sommario: 1. La biocard, primo modello di testamento biologico. Il Trattato di Oviedo ed i principi in materia di “fine vita”. – 2. Il caso Englaro e le contestate decisioni giurisprudenziali. –  3. I faticosi tentativi di produzione legislativa in materia di testamento biologico. – 4. Breve inquadramento della Legge 219/2017 e dell’istituto delle Disposizioni Anticipate di Trattamento – 5. Lo stato della questione sull’eutanasia in Italia. La storica decisione della Consulta del 2019 sul suicidio assistito.

  1. La biocard, primo modello di testamento biologico. Il trattato di Oviedo ed i principi in materia fine vita

Già nel lontano 1990 la Consulta di Bioetica di Milano[1] si pose il problema della necessità di prevedere un sistema che potesse cristallizzare nel tempo le direttive impartite da chi, consapevole e capace, volesse stabilire in anticipo quali trattamenti terapeutici ricevere o rifiutare nella ipotesi di un’eventuale sopraggiunta incapacità di intendere e volere: venne, quindi, ideata e promossa da questa importante associazione la cd. Biocard o “Carta di autodeterminazione”, la prima forma di testamento biologico.

Attraverso il modello standard ideato (molto simile a quello statunitense[2]), ciascuno avrebbe potuto esprimere in anticipo il proprio consenso informato alle cure a cui sottoporsi o meno – nell’ipotesi di eventuale futura perdita di coscienza – , e ciò al fine di poter far valere, pur versando in stato di incapacità, il proprio diritto all’autodeterminazione in materia sanitaria, come previsto e garantito dalla stessa Costituzione Italiana all’articolo 32.

La proposta non ebbe fortuna e non si concretizzò in alcuna previsione legislativa, tuttavia ebbe il merito di alimentare un vivo dibattito sul fine vita; particolarmente accesi furono i contrasti al riguardo nell’ambito del Comitato Nazionale per la Bioetica, che pubblicò diversi articoli al riguardo, dai quali emergevano contrapposte posizioni e visioni su tale tematica.

Il 4 aprile del 1997 l’Italia aderì al primo Trattato internazionale sulla bioetica, la “Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina”, meglio conosciuta come Trattato di Oviedo, tappa fondamentale e prodromica per il nostro Paese relativamente alla regolamentazione legislativa della materia in questione.

La Convenzione si ispirò a quanto già proclamato nel lontano 1948 dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, fondandosi sulla consapevolezza che i “rapidi sviluppi della biologia e della medicina” avrebbero potuto “mettere in pericolo la dignità umana da un uso improprio” di tali scoperte; da qui la conseguente “necessità di rispettare l’essere umano sia come individuo, che nella sua appartenenza alla specie umana, riconoscendo l’importanza di assicurare la sua dignità”.

Significativi ed emblematici in tale Trattato, in relazione specificamente al tema in esame, sono l’art. 2, intitolato “Primato dell’essere umano”, che sancisce la prevalenza dell’interesse e del bene dell’uomo sull’interesse della società o della scienza, e l’art. 9, in cui viene affermato il principio cardine del consenso libero e informato”, quale diritto fondamentale da riconoscere al paziente  in  merito agli interventi e trattamenti sanitari da ricevere; tale  norma, in particolare, prevede che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione” dal personale medico.

Nel 1998 anche il Codice di Deontologia Medica si conformò ai principi dettati dalla Convenzione di Oviedo, stabilendo, tra l’altro, che “il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita” (art. 14. Accanimento diagnostico-terapeutico).

Tuttavia, se da un lato, anche nel resto del mondo veniva proclamato il sacrosanto diritto di ciascun individuo alla libertà di autodeterminazione in merito ai trattamenti sanitari a cui essere sottoposto in previsione anche di una sopraggiunta perdita della capacità di intendere e di volere, dall’altro, nel nostro Paese, nessuna norma specifica permetteva di conferire effettiva vincolatività ad eventuali direttive anticipatamente espresse dal paziente, considerate semplici “desideri” da poter tenere in considerazione, ma mai direttive vincolanti per il medico.

Deve tuttavia osservarsi che già diversi anni prima del Trattato di Oviedo, il nostro legislatore costituzionale si era preoccupato di garantire il diritto alla vita ed alla libertà di morire con dignità, quali espressioni dell’inviolabile diritto alla salute: basti pensare ai principi dettati con l’articolo 2, che afferma il primato dell’individuo rispetto allo Stato, con l’articolo 13, che considera inviolabile la libertà personale, con l’articolo 32, che tutela il diritto alla salute ed impone il rispetto della libertà di autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari.

Tuttavia, probabilmente,  all’epoca dell’emanazione della Costituzione, nel lontano 1948,  il legislatore non avrebbe potuto immaginare la possibilità attuale di assicurare ad un paziente una sopravvivenza “artificiale” attraverso macchinari o sondini elaborati attraverso le continue evoluzioni tecnologiche.

Proprio in merito all’utilizzo di tali nuove tecnologie ed a quello che viene definito da taluni “accanimento terapeutico”, si è sviluppato nel nostro Paese un contrasto di ideologie, tra i sostenitori della visione etico-cattolica del problema del fine vita e coloro che ne hanno invece una visione laica: per i primi la vita è un bene in assoluto indisponibile, in quanto dono di un essere superiore e, come tale, sacro, dal concepimento sino alla morte naturale, per cui è da ritenersi vera e propria eutanasia ogni forma di rifiuto di trattamenti medici di “vita artificiale”; per coloro che contrastano invece tale ideologia, è lo stesso articolo 32 della Costituzione a prevedere ed a garantire a ciascun individuo anche una “libertà negativa”[3] in relazione a tali trattamenti, ponendo a proprio fondamento la centralità dell’essere umano e la sua inviolabile libertà di autodeterminarsi in merito alle decisioni sulla propria esistenza e finanche sulla fine della stessa.

In assenza di una specifica legislazione civile e penale in materia,  le terapie “salva-vita o anche solo palliative per i malati terminali hanno in realtà rappresentato l’unica scelta legittima e, come tale, non rinunziabile, talvolta anche contro la volontà dello stesso paziente o, se non più cosciente, dei suoi più stretti congiunti.

 

  1. IL CASO ENGLARO E LE CONTESTATE DECISIONI GIURISPRUDENZIALI

In tema di fine vita e nella evoluzione del percorso verso una normativa su tale delicata materia, non può non ricordarsi il triste caso di Eluana Englaro, con la battaglia giudiziaria affrontata per anni dal padre della ragazza, Beppino Englaro [4]: la sfortunata Eluana, appena ventunenne, a seguito di un fatale incidente d’auto avvenuto il 18 gennaio 1992, sopravviveva in un persistente stato vegetativo, avendo perso ogni funzione percettiva e cognitiva, alimentata ed idratata grazie ad un sondino nasogastrico.

Non avendo alcun miglioramento nel corso del tempo ed in assenza di qualunque capacità di avere contatti con il mondo esterno, dopo circa quattro anni dall’incidente era stata dichiarata interdetta con sentenza del Tribunale di Lecco del 19 dicembre 1996, con la quale era stato nominato suo tutore il padre, Beppino Englaro.

Dopo altri tre anni, quest’ultimo, constatata l’ormai irreversibile situazione in cui versava la propria figlia, si era rivolto al Tribunale per ottenere l’autorizzazione ad interrompere ad Eluana i trattamenti di sostegno vitale artificiale, dallo stesso definiti “una vera e propria violenza terapeutica”.

In un primo tempo la Magistratura, in assenza di sostegni normativi al riguardo, aveva negato l’autorizzazione alla sospensione dell’alimentazione artificiale ed al distacco del sondino naso-gastrico, affermando che ciò avrebbe costituito una violazione dell’inderogabile principio della indisponibilità della vita e che, tra l’altro, una scelta così personale e definitiva mai avrebbe potuto essere delegata a soggetti diversi dall’interessato.

Successivamente però si ebbe un decisivo cambio di rotta: il 4 ottobre 2007 la Corte di Cassazione emanò la importante sentenza n. 21748 e di fatto introdusse nel nostro ordinamento il concetto di testamento biologico”; la Suprema Corte, da un lato,  riconobbe in capo al rappresentante legale dell’incapace il generale potere di cura del rappresentato e, dall’altro, richiamato il fondamentale principio del diritto-dovere del paziente al “consenso informato” in merito ai trattamenti sanitari  da ricevere e la correlata sua libertà all’autodeterminazione[5] nella scelta dei detti trattamenti, sostenne che tale libertà deve ritenersi estesa finanche alla possibilità di rifiutare ogni terapia, pur se a sacrificio del bene vita.

In particolare, la Corte, con riferimento allo specifico caso di Eluana, invocati i principi contenuti sia nella Costituzione che nella Convenzione di Oviedo, concluse testualmente che “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario”, ciò solo in presenza di una condizione di irreversibile stato vegetativo e sempre che sussistano “elementi di prova chiari, univoci e convincenti” che consentano di ricostruire un presunto consenso del paziente divenuto incapace in tal senso (anche attraverso sue  dichiarazioni o comportamenti precedenti al sopraggiunto stato di incoscienza).

In sostanza con questa sentenza venne legittimato un “allargamento” del concetto di consenso informato, sì da consentire al rappresentante legale del paziente non più cosciente di ricostruire, con mezzi di prova rigorosi, precisi ed univoci, la presunta volontà dell’incapace in merito ai trattamenti sanitari da ricevere o da rifiutare[6].

In attuazione di tali innovativi principi introdotti dalla Cassazione[7], la Corte d’Appello di Milano, con decreto del 9 luglio 2008, autorizzò il distacco del sondino nasogastrico ad Eluana, riconoscendo validità e fondatezza alle prove testimoniali fornite da Beppino Englaro, il quale, al fine di consentire una esatta rappresentazione della personalità e delle convinzioni della propria figlia,  anche a mezzo delle testimonianze rese in giudizio dalle amiche di Eluana, riuscì a dimostrare che quest’ultima, proprio in relazione ad un caso analogo a quello poi a lei capitato, aveva espresso la sua decisa contrarietà ad una sopravvivenza “artificiale”; da tali audizione emerse in sostanza l’immagine di una giovane così innamorata della vita e della libertà, da ritenere impensabile che avrebbe mai accettato una esistenza collegata ad un sondino, in una condizione  umiliante per la sua stessa dignità di persona.

Naturalmente tale posizione giurisprudenziale suscitò forti polemiche ed accesi e contrastanti dibattiti nel mondo cattolico, nell’ambito politico ed anche nell’opinione pubblica; il Parlamento, addirittura, contro la sopra citata decisione della Suprema Corte, approvò una mozione[8] per sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione per il presunto superamento da parte della Magistratura delle proprie funzioni e per la conseguente violazione del principio della separazione dei poteri dello Stato.

Ma la Corte Costituzionale, con sentenza n. 334 dell’8 ottobre 2008, rigettò i ricorsi del Parlamento e confermò le decisioni adottate dalla Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano, ritenendo, pertanto, legittima l’autorizzazione all’interruzione dei sostegni vitali ad Eluana Englaro; la sfortunata ragazza in una clinica privata ad Udine si spense il 9 febbraio 2009[9], a seguito della sospensione dei trattamenti di sostegno vitale.

  1. I FATICOSI TENTATIVI DI PRODUZIONE LEGISLATIVA IN MATERIA DI TESTAMENTO BIOLOGICO

La definizione della vicenda Englaro, come sopra detto, certamente suscitò polemiche e dissensi[10] nel nostro Paese, ma ebbe il merito di destare una nuova sensibilità ed una maggiore attenzione sulla problematica del fine vita e dette nuovo vigore al dibattito politico, culturale e religioso su tale materia.

Le “creative” decisioni giurisprudenziali infatti avevano ancora una volta messo in luce quanto fosse assolutamente non più procrastinabile l’intervento del legislatore in materia.

In realtà già nel 2003 il Governo, interessatosi più approfonditamente al   problema, aveva richiesto al Comitato Nazionale per la Bioetica un parere motivato al riguardo; nel dicembre dello stesso anno il Comitato, nell’elaborato intitolato “Disposizioni anticipate di trattamento”, sollecitava il legislatore ad effettuare una approfondita riflessione, non solo bioetica, ma anche bio-giuridica sulla tematica del fine vita, al fine di dare piena e coerente attuazione allo spirito della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina.

Il Parere concludeva auspicando l’emanazione di una legge che garantisse e tutelasse la dignità e l’integrità della persona “in tutte quelle situazioni in cui le accresciute possibilità aperte dall’evoluzione della medicina avrebbero potuto ingenerare dubbi non solo scientifici, ma soprattutto etici, sul tipo di trattamento sanitario da porre in essere in presenza di affidabili dichiarazioni di volontà formulate dal paziente prima di perdere la capacità naturale”.

In sostanza si invitava il legislatore a conferire a dette disposizioni anticipate un  valore che, se pur non vincolante in modo assoluto, fosse comunque tale da imporre precise direttive al medico curante, a meno che non fossero state espresse volontà eutanasiche o comunque contrastanti con regole di pratica medica e deontologica.

In quegli anni in Parlamento sono stati presentati vari Disegni di Legge sul testamento biologico[11]e richieste anche audizioni ufficiali di esperti del mondo sanitario, universitario, filosofico e religioso. Dalla lettura di stralci di tali audizioni emerge sempre il contrasto tra le opposte visioni del problema del fine vita: taluni auspicavano un intervento legislativo fondato sull’assoluto rifiuto dell’eutanasia, anche nella sua ambigua fattispecie di “passiva”[12]; altri sostenevano addirittura che non fosse necessaria una legge sul testamento biologico, in quanto, in relazione al fine vita dell’essere umano, “il diritto positivo si è pronunciato e contiene dei riferimenti che non sono invecchiati rispetto al rapido incedere delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche sull’uomo”, cioè norme “il cui filo conduttore è la protezione della vita umana, l’indisponibilità della vita umana” che la società civile è chiamata a tutelare in modo forte[13]; altri ancora affermavano che non vi fosse alcun valore nel sopportare la sofferenza e che il testamento biologico potesse rappresentare un valido strumento per “permettere, a chi lo desideri, di chiedere una buona morte che liberi da un’esistenza in vita divenuta ormai senza speranza di guarigione o miglioramento, insopportabilmente penosa o degradante”[14].

Nelle varie relazioni illustrative e nei testi dei diversi disegni di legge si ravvisava  comunque la comune sentita esigenza di voler dare piena attuazione ai principi già  presenti nella nostra Costituzione e sanciti nel Trattato di Oviedo e nella Carta di Nizza sui Diritti fondamentali dell’Unione Europea[15]:  il filo conduttore era rappresentato sempre dalla imprescindibilità del consenso informato del paziente e dalla necessità di conferire valore vincolante alle disposizioni anticipate eventualmente espresse dallo stesso in vista di una eventuale sopraggiunta incapacità di autodeterminazione in ordine a trattamenti sanitari o diagnostici da ricevere o rifiutare.

Se in nessuno di tali disegni di legge veniva considerata ammissibile l’eutanasia cd. “attiva”, pur tuttavia in alcuni di essi emergeva la convinzione che l’eutanasia cd. “omissiva” costituisse espressione di quella libertà, costituzionalmente garantita, di autodeterminazione di ciascun individuo in materia di salute, libertà estesa sino al punto di poter anche rinunziare, se pienamente consapevoli, a trattamenti terapeutici  “salva-vita”.

Ma per giungere all’elaborazione di un unico testo legislativo ed alla successiva  sua approvazione in Parlamento dovrà attendersi il 2017; il 22 dicembre di quell’anno viene finalmente emanata la Legge n. 219 intitolata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”[16].

  1. BREVE INQUADRAMENTO DELLA LEGGE 219/2017 E DEL NUOVO ISTITUTO DELLE DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO

Il rispetto e l’affermazione dei principi dettati negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e del diritto al “consenso libero ed informato” sancito nel Trattato di Oviedo e nella Carta di Nizza costituiscono indubbiamente il fondamento cardine della Legge 219/2017.

 “Consenso informato” è infatti il titolo che il legislatore assegna al primo articolo della legge, proprio al fine di considerarlo presupposto indefettibile per l’esercizio della fondamentale libertà di autodeterminazione della persona in materia di salute e di diritto alla vita .

Nella normativa in esame emerge il proposito del legislatore di rafforzare il rapporto medico-paziente con la piena affermazione del diritto di ciascun individuo ad essere informato compiutamente sulle proprie condizioni cliniche e sulle diverse opportunità terapeutiche e diagnostiche a sua disposizione, perché possa essere effettuata una libera scelta dei trattamenti da ricevere o eventualmente rifiutare, anche se “salva-vita”.

All’articolo 4 per la prima volta sono previste le Disposizioni Anticipate di Trattamento – definite in breve DAT – direttive a mezzo delle quali ciascun individuo, maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale sopraggiunta incapacità di autodeterminarsi e previa acquisizione di adeguate informazioni mediche sulle possibili conseguenze delle sue scelte, ha la possibilità di esprimere la propria volontà in merito alle terapie cui essere o meno sottoposto.

Particolare rilevanza ha quanto previsto al comma 5 del detto articolo 4, che sancisce  l’obbligo per il medico di rispettare la volontà preventivamente e validamente espressa dal paziente nelle proprie DAT, ma, di contro, si preoccupa di esonerare il personale sanitario da responsabilità civili o penali per aver attuato le predette direttive, con ciò risolvendo una serie di problemi affrontati in passato dalla giurisprudenza che, senza alcun appiglio normativo, si era trovata a decidere su scottanti questioni portate alla sua attenzione: basti pensare al caso del medico anestesista , che, tra il 2006 ed il 2007, si trovò coinvolto in un processo penale, accusato del reato di omicidio del consenziente, per aver aiutato Piergiorgio Welby, ormai malato terminale e da anni gravemente affetto da distrofia muscolare, ad attuare la sua volontà di essere distaccato dal ventilatore automatico che gli consentiva di restare in vita.

L’imputato fu assolto con formula piena dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma con sentenza n.2049/2007 del 23 luglio 2007.

E’ doveroso sottolineare che comunque la legge 219 prevede anche la facoltà per il medico di disattendere la volontà contenuta nelle DAT qualora le stesse “appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie, non prevedibili all’atto della loro sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.

La possibile non revocabilità o modificabilità da parte del disponente delle volontà espresse nelle DAT, a causa di un sopraggiunto stato di incapacità, ha indotto il legislatore a conferire sacralità a tale strumento giuridico ed a stabilire regole tassative di forma e di contenuto, con indicazione , inoltre, tassativa dei soggetti legittimati alla ricezione di tali disposizioni[17].

Al fine poi di consentire una compiuta attuazione delle DAT, è prevista la facoltà per il disponente di nominare un “fiduciario” (maggiorenne e capace di intendere e di volere), cui affidare l’incarico di assicurare il rispetto della volontà espressa e di rappresentarlo nelle relazioni con il personale medico addetto e con le strutture sanitarie nell’ipotesi di una sopraggiunta perdita di capacità cognitiva.

 Il fiduciario può accettare l’incarico sottoscrivendo le stesse DAT ovvero con un separato atto; eventuali sopravvenute rinunzia, revoca o morte del fiduciario non influiscono comunque sull’efficacia delle direttive impartite dal disponente e, comunque, in caso di necessità, il Giudice Tutelare può provvedere alla nomina di un amministratore di sostegno, in base alle regole del Codice Civile.

Il  problema della pubblicità delle DAT  è stato invece  successivamente affrontato nella Legge di Bilancio del 2018[18], che ha previsto e finanziato l’istituzione, presso il Ministero della Salute, di una Banca Dati a livello nazionale per la registrazione delle eventuali direttive espresse; tale disposizione ha trovato concreta attuazione solo nel 2020, con l’emanazione, da parte del Ministero della Salute, del Regolamento per l’operatività della Banca Dati Nazionale[19], contenente norme per disciplinare su scala nazionale la raccolta e la conservazione delle  DAT nonché l’accessibilità del loro contenuto ai soggetti indicati quali legittimati[20], tra i quali, naturalmente, i disponenti stessi o i loro fiduciari ed il personale medico.

Nonostante gli sforzi legislativi, l’istituto delle DAT è ad oggi poco conosciuto; più che altro nell’opinione pubblica e nel linguaggio comune si parla di “testamento biologico”, termine che in realtà non viene mai utilizzato nel corpo della Legge 219;  la parola “testamento” è infatti, in realtà, utilizzata atecnicamente, non trattandosi in tal caso di un atto mortis causa, ma, al contrario, di un vero e proprio “testamento di vita”, destinato a regolamentare una situazione futura nella quale sopravvenga la necessità di salvaguardare la propria libertà di autodeterminazione in materia di salute e circa la propria esistenza.

Probabilmente le ragioni della scarsa conoscenza da parte dei cittadini del contenuto e delle opportunità previsti da questa legge vanno probabilmente  ricercate, oltre che in una blanda campagna informativa condotta da parte del Ministero della Salute, anche in un diffuso perdurante atteggiamento di diffidenza sussistente nel nostro Paese – fortemente permeato dalla cultura cattolica – per il timore che un’eccessiva apertura alla  problematica del fine vita possa condurre ad un processo di legittimazione di forme di vera e propria eutanasia.

 LO STATO DELLA QUESTIONE SULL’EUTANASIA IN ITALIA.

LA STORICA DECISIONE DELLA CONSULTA DEL 2019 SUL SUICIDIO ASSISTITO

L’eutanasia in Italia è ancora considerata reato in base alle previsioni contenute negli articoli 579 e 580 del Codice Penale, pur essendo stata legittimata già in diversi paesi europei e, persino da ultimo in Spagna, paese cattolico per eccellenza, in cui la pratica eutanasica è ammessa da giugno del 2021 ed è attuabile attraverso il Servizio sanitario nazionale in casi tassativamente previsti e regolamentati.

Va tuttavia segnalato che nel nostro Paese si è avuta una importante evoluzione in tema di suicidio assistito,  a seguito della vicenda giudiziaria che ha visto protagonista Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, da anni in prima linea nella battaglia per ottenere la legalizzazione dell’eutanasia in Italia. Fabiano Antoniani, più noto come Dj Fabo, rimasto cieco e tetraplegico in seguito ad un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014,  richiese assistenza a Cappato, manifestandogli la propria volontà di “uscire dalla gabbia”, come lui stesso definiva la sua esistenza in vita, convinto che solo la morte avrebbe potuto restituirgli una vera libertà.

Non potendo realizzare legittimamente nel nostro Paese il proprio desiderio, fu accompagnato da Marco Cappato  in una clinica in Svizzera ed il 27 febbraio 2017 attuò la propria volontà di sottoporsi al suicidio assistito.

Al rientro in Italia, Marco Cappato si autodenunciò alla Procura di Milano e ciò proprio al fine di destare l’opinione pubblica sulla problematica in questione, volutamente da anni trascurata dalla politica e dal legislatore.

Nel febbraio del 2018 la Corte di Assise di Milano, nel corso del processo  penale contro Cappato, imputato del reato di aiuto al suicidio, emise una ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale, sollevando la questione di costituzionalità dellart.580 c.p., nella parte in cui tale norma non escludeva la punibilità di chi avesse agevolato l’esecuzione del proposito di suicidio da parte di persona, affetta da grave ed irreversibile patologia, ma a ciò determinatasi in modo pienamente consapevole ed informato.

 La Corte Costituzionale, investita di tale delicatissima questione, con una tecnica processuale innovativa, scelse di rinviare la propria decisione a settembre 2019, richiedendo espressamente che il Parlamento intervenisse in materia[21], ma, constatata ancora una volta l’inerzia del legislatore, si vide costretta a colmare il vuoto normativo e ad  emettere la “storica” sentenza n.242 del 2019, con la quale fu dichiarata l’incostituzionalità dell’articolo 580 c.p. nella parte indicata dalla Corte di Assise e fu,  di fatto, legittimato nel nostro ordinamento il diritto al suicidio medicalmente assistito.

La sentenza richiama, in particolare, i principi costituzionali contenuti nell’articolo 2, “che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale”, nell’articolo 13, che sancisce l’inviolabilità della libertà personale,  e nell’articolo 32 , che tutela la salute e la libertà di autodeterminazione in merito ai trattamenti sanitari da ricevere ed afferma, quindi, che, alla luce dei detti principi, la vita – primo tra tutti i diritti inviolabili dell’essere umano – non può essere “concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare”, dovendosi riconoscere a ciascuno la libertà di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.

La Corte sottolinea, inoltre, che il bene giuridico protetto dalla norma penale dichiarata incostituzionale va ravvisato “non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta”, per cui il paziente che, per porre fine alle proprie sofferenze ed alla propria vita, dovesse essere costretto a subire terapie palliative che lo costringano a subire un processo più lento e umiliante per giungere in ogni caso alla morte, vedrebbe in modo irragionevole lesa la propria libertà di autodeterminazione, attraverso l’imposizione di “un’unica modalità per congedarsi dalla vita” non rispettosa della sua dignità personale.

La Consulta riconosce che la legge n. 219/2017 ha riconosciuto e tutelato il “diritto a lasciarsi morire” attraverso il rifiuto o la sospensione delle cure, ma in sostanza “allarga” tale diritto, perché riconosce all’individuo la possibilità di scegliere come e quando morire in presenza di tassative specifiche circostanze  e condizioni che così cristallizza:  a) il paziente deve essere affetto da una patologia irreversibile; b) deve trattarsi di una patologia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute assolutamente intollerabili dal paziente, c) la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale, d) l’individuo interessato resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli[22].

Sulla base della sentenza in esame, la Corte di Assise di Milano, nel dicembre del 2019, ha assolto con formula piena Marco Cappato, ritenendo che la situazione di Fabiano Antoniani rivestisse esattamente i requisiti tassativi fissati dalla Corte Costituzionale.

Tale intervento giurisprudenziale ha certamente avuto il merito di riconoscere legittimità alla pratica del suicidio assistito, ma restano ancora al riguardo irrisolti tanti problemi pratici, in quanto il diritto all’autodeterminazione terapeutica e la richiesta di aiuto al suicidio sono pur sempre assoggettati alla coscienza individuale del medico e potrebbero rimanere, quindi, inascoltati qualora l’organizzazione ospedaliera non riesca a garantire il rispetto della volontà del paziente, in assenza di personale disposto ad attuarla[23].

Ci si chiede allora se davvero il nostro Sistema Sanitario nazionale sia in grado  di verificare e di organizzare una pratica di suicidio assistito che possa realizzare realmente quella “alleanza terapeutica” tra medico e paziente – cui fece riferimento la sentenza della Cassazione n.21748 del 2007 in relazione al caso Englaro – alleanza che dovrebbe costituire il presupposto per attuare il bene dell’individuo ed agevolarne la morte quando, in fase terminale, le sofferenze non siano più sopportabili[24].

Le numerose associazioni laiche che nel nostro Paese da tempo si occupano di questi problemi auspicano quindi in materia di fine vita un nuovo ed ancor più “coraggioso” intervento legislativo, che, contemperando e bilanciando i vari contrapposti interessi in gioco, tuteli fino in fondo la libertà di autodeterminazione in materia di salute e riconosca legittimità anche alla scelta estrema di chi, versando in condizioni patologiche irreversibili o terminali, decida di voler porre fine ad una esistenza divenuta non più sopportabile.

Di recente comunque si ravvisa una maggiore sensibilità dei cittadini su tale problematica; basti pensare che il Comitato Eutanasia Legale, promosso dall’Associazione Luca Coscioni, ha realizzato nel 2021 una campagna referendaria da record per la legalizzazione dell’eutanasia nel nostro Paese, raccogliendo oltre un milione duecentomila firme. Il quesito referendario mirava ad abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale in Italia, ovvero il reato previsto dall’articolo 579 c.p., che attualmente punisce qualsiasi condotta di omicidio del consenziente.

Il 15 febbraio 2022 la Consulta ha dichiarato l’inammissibilità del referendum, sostenendo che “a seguito dell’abrogazione, ancorchè parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

Sfumata l’opportunità di avvalersi di questo strumento di democrazia diretta, la battaglia di certo non si arresterà e sta continuando in Parlamento; mentre si scrive la Camera ha approvato, con 253 voti a favore, 117 contrari e un’astensione, il testo di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, che ora passa all’esame del Senato.

[1] La Consulta è una ONLUS fondata nel 1989 che si è sempre occupata di problemi legati alla bioetica ed ai dibattiti in campo nazionale ed internazionale su tale tematica; dal 1993 diffonde il periodico “Bioetica Rivista Interdisciplinare”. Ha la sua sede principale a Torino e varie Sezioni in diverse Regioni italiane.

[2] Il cd. living will fu normativamente previsto per la prima volta nel 1976 in California: si trattava di un documento redatto da un soggetto capace dinanzi a due testimoni con il quale fornire le proprie indicazioni in merito a cure e trattamenti da ricevere o da rifiutare nella limitata ipotesi di malattia terminale.

[3] GUIDO ALPA, grande giurista e accademico, è stato promotore della Biocard ed ha commentato numerose pronunzie giurisprudenziali in materia di fine vita (“Il danno da accanimento terapeutico”, nota all’ordinanza del Tribunale di Roma del 16 dicembre 2006, in Resp. civ. prev., 2007, p.78, sul caso Welby, sottolinea che il “Il vuoto normativo cui si riferisce il giudice, che in modo responsabile, si è preoccupato della sorte (non del paziente, ma) del medico, dovrebbe essere colmato dall’esimente correlata all’autodeterminazione del paziente, che, nel caso di specie, era adulto, cosciente e consenziente”); nel 2006 ha pubblicato “Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche” (ripreso poi in G. ALPA e G. RESTA, “Le persone fisiche e i diritti della personalità”, in “Trattato di diritto civile”, diretto da R. SACCO, Torino, 2006), nel quale fa notare che “la scienza prosegue sul suo cammino verso nuove scoperte….e la bioetica ha imboccato il senso opposto, tornando ad arroccarsi su presupposti fondamentalisti che ben poco spazio lasciano alla ricerca, alla libertà personale, alla vita e alla morte dignitose”. Alpa sottolinea che il principio di autodeterminazione ed il diritto di decidere del proprio corpo trovano il proprio fondamento nell’art. 32 della Costituzione e che il testamento  biologico va considerato “come strumento per la tutela dei diritti fondamentali della persona e per la sua difesa da trattamenti sanitari non desiderati, aggressivi e lesivi della dignità umana”.

[4] Il “caso Englaro” si snoda attraverso una serie di decisioni le cui principali tappe sono: Trib.Lecco, decreto del 2 marzo 1999; App.Milano, decreto 31 dicembre 1999; Trib. Lecco, decreto 20 luglio 2002; App.Milano, decreto del 17 ottobre 2003; Cassazione, ordinanza n.8291, 20 aprile 2005; Trib.Lecco, decreto 2 febbraio 2006; App.Milano, decreto 16 dicembre 2006; Cassazione, sentenza n. 21748, 16 ottobre 2007; App.Milano, decreto 9 luglio 2008; Cassazione S.U. sentenza n. 27145,13 novembre 2008.

Significativi, al riguardo, i contributi di G. PONZANELLI,“Eutanasia passiva: sì se c’è accanimento terapeutico”, nota a sentenza della Corte d’Appello di Milano, 31 dicembre 1999, in Foro Italiano, I, 2000, p.2023; A. SANTOSUOSSO, “Novità e remore sullo stato vegetativo permanente”, nota al decreto della Corte d’Appello di Milano del 31 dicembre 1999, in Foro Italiano, 2000, p.2026; S. FUCCI, “I diritti di Eluana: prime riflessioni,” nota a Trib.Lecco 20 luglio 2002, in “Bioetica”, 2004, p.85; G. FERRANDO, “Stato vegetativo permanente e trattamenti medici: un problema irrisolto”, nota a App.MIlano 17 ottobre 2003, in Familia, 2004, passim.

[5] Sul concetto di autodeterminazione, in particolare, S. RODOTA’, “Il diritto di avere diritti”, Bari, 2012; G. FERRANDO, “Diritto alla salute e autodeterminazione tra diritto europeo e costituzione”, in “Politica del diritto”, 2012, p.3-30; G. SALITO, “Autodeterminazione e cure mediche: il testamento biologico”, Torino, 2012, passim; G.U. RESCIGNO,“Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo lart. 32, co.2, Cost., al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita”, in “Diritto Pubblico”, 2008, passim.

[6] Fortemente critico nei riguardi di quanto sostenuto dalla Suprema Corte è C. MICCICHÈ, “Lamministrazione della sofferenza”, in “JUS”, 2017, pp.416-418, che ritiene che la decisione della Corte debba essere etichettata come assurda in quanto imputa all’incapace, in forza di una finzione, una volontà che in realtà è stata elaborata da un soggetto terzo e potrebbe sottendere interessi diversi e ultronei rispetto alla tutela dell’incapace medesimo.

[7] E. CALÒ, in “La Cassazione vara” il testamento biologico”,  “Corriere Giuridico, 2007, p.1676 ss, afferma che la Cassazione ha scritto in realtà una norma surrogandosi ad un legislatore latitante;

  1. GENNARI evidenzia che la tipologia di indagine condotta dalla Suprema Corte è del tutto assente nella giurisprudenza precedente al caso Englaro, in “La Suprema Corte scopre il substituted judgement”, in Resp. civ. prev., 2008, p.1119.

[8] Si tratta della mozione “Cossiga-Quagliarello” del luglio 2008, con la quale il Parlamento riaffermava tutta la propria sovranità, contestando “l’invasione di campo” che la magistratura sul caso Englaro avesse effettuato al potere legislativo.

[9] In “La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno Stato di diritto”, Milano, 2012, di Beppino Englaro e Adriana Pannitteri, vengono ripercorsi i 6233 giorni nei quali il padre di Eluana ha lottato per “liberarla” e dirle addio; diciassette anni in cui Beppino Englaro ha lasciato il suo lavoro e ha studiato codici e regolamenti, partecipato a convegni, interpellato giuristi, politici, teologi per cercare una via legale che consentisse ad Eluana di non dover essere costretta ad una vita artificiale.

[10] C. CASTRONOVO,“Autodeterminazione e diritto privato”, in “Europa e diritto privato”, 2010. passim; E. CALO’, “La Cassazione vara” il testamento biologico”, cit., passim.

[11] La Commissione Igiene e Sanità del Senato della Repubblica nel luglio del 2006 decise di avviare la trattazione congiunta di ben otto disegni di legge nel frattempo presentati in materia di testamento biologico: n. 3 Tomassini, n. 357 Benvenuto, n. 433 Massidda, n. 542 Carloni ed altri, n. 687 Marino ed altri, n. 665 Ripamonti, n. 773 Binetti e Baio, n. 818 Del Pennino e Biondi.

[12] Audizione del 3 ottobre 2006 del Direttore dell’Istituto Siciliano di bioetica Salvino Leone.

[13] Audizione del 12 ottobre 2006 della Dott.ssa Laura Palazzoni, Docente di Filosofia del diritto alla Libera Università Maria SS.Assunta di Roma.

[14] Audizione del 12 ottobre 2006 della Pastora della Chiesa Valdese Letizia Tomassone.

[15] Proclamata per la prima volta a Nizza il 7 dicembre 2000 ed una seconda volta a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

[16] Pubblicata in Gazzetta Ufficiale della Repubblica il 16 gennaio 2018 – Serie Generale n. 12, entrata in vigore il 31 gennaio 2018.

[17] Il comma 6 dell’art. 4 si occupa di tale aspetto, prevedendo che la redazione delle DAT possa avvenire in diverse forme: dinanzi a Notaio, in atto pubblico o scrittura privata autenticata che il pubblico ufficiale è tenuto a conservare; per scrittura privata consegnata personalmente all’Ufficio dello Stato civile competente per residenza; presso le strutture sanitarie competenti nelle Regioni che abbiano regolamentato la raccolta delle DAT con modalità telematiche; presso gli Uffici consolari italiani, nell’esercizio delle funzioni notarili, per i cittadini italiani residenti all’estero.

Per coloro che versino in condizioni fisiche che non consentano di comunicare, è inoltre previsto che le DAT possano essere espresse a mezzo di videoregistrazione o dispositivi comunicatori.

[18] Art. 1 comma 418 della Legge 27 dicembre 2017 n. 205.

[19] D.M. emanato il 10 dicembre 2019 n. 168,  pubblicato  il 17 gennaio 2020 in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Serie Generale n.13, in vigore dal 1° febbraio 2020.

[20] Con Circolari n. 1/2018 e n. 2/2020 il Ministero dell’Interno ha fornito le indicazioni tecnico-operative  ai cd. “soggetti alimentanti” la Banca Dati (si tratta degli Ufficiali di Stato Civile  o loro delegati del Comune presso cui è stata effettuata la DAT, ovvero, nel caso di disponente cittadino italiano residente all’estero, di Ufficiali di Stato Civile di rappresentanze diplomatiche o consolari, di Notai o di delegati alle funzioni notarili presso uffici consolari, dei Responsabili delle Unità organizzative competenti nelle Regioni, ecc.).

[21] Ordinanza n. 207 del 2018, in merito alla quale si vedano, tra gli altri, le considerazioni di M. RUOTOLO, “L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte Costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ordinanza n.207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale”, in “Rivista AIC”, 2019, p. 644 ss; E. GROSSO, “Il rinvio a data fissa nell’ordinanza n. 207/2018. Originale  condotta processuale, nuova regola processuale o innovativa tecnica di giudizio?”, in “Quaderni Costituzionali”, 2019, p.531 ss; R. PESCATORE, “Caso Cappato-Antoniani: analisi di un nuovo modulo monitorio”, in “Osservatorio costituzionale”, 2020, passim.

[22] Punto 2.3. del considerato in diritto della sentenza n. 242 del 2019 e già presente nell’ordinanza n. 207 del 2018.

[23] M. D’AMICO, “Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sentenza n. 242 del 2019)”, in AIC, 2020, passim.

[24] C. CUPELLI, “Il Parlamento decide di non decidere e la Corte Costituzionale risponde a se stessa”, nota a sentenza Corte Cost. 242/2019, in “Sistema penale, 2019, passim; l’Autore afferma che si tratti quindi “non tanto di un diritto a morire con dignità, quanto piuttosto di un diritto alla piena dignità anche nel morire”.

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